Il Santo veglia, assiso;

 

l’Angelo guarda, smorto come cera;

la Vergine Maria piange un sorriso.

 

Tace il bambino, aspetta sino a sera,

all’uscio guarda, coi grandi occhi, fiso.

 

La notte cade, l’ombra si fa nera;

egli va, desolato, in Paradiso.

 

 

LA CIVETTA

 

Stavano neri al lume della luna

gli erti cipressi, guglie di basalto,

quando tra l’ombre svolò rapida una

ombra dall’alto:

 

orma sognata d’un volar di piume,

orma di un soffio molle di velluto,

che passò l’ombre e scivolò nel lume

pallido e muto;

 

ed i cipressi sul deserto lido

stavano come un nero colonnato,

rigidi, ognuno con tra i rami un nido

addormentato.

 

E sopra tanta vita addormentata

dentro i cipressi, in mezzo alla brughiera

sonare, ecco, una stridula risata

di fattucchiera:

 

una minaccia stridula seguita,

forse, da brevi pigolii sommessi,

dal palpitar di tutta quella vita

dentro i cipressi.

 

Morte, che passi per il ciel profondo,

passi con ali molli come fiato,

con gli occhi aperti sopra il triste mondo

addormentato;

 

Morte, lo squillo acuto del tuo riso

unico muove l’ombra che ci occulta

silenzïosa, e, desta all’improvviso

squillo, sussulta;

 

e quando taci, e par che tutto dorma

nel cipresseto, trema ancora il nido

d’ogni vivente: ancor, nell’aria, l’orma

c’è del tuo grido.

 

LE PENE DEL POETA

 

I

I DUE FUCHI

 

Tu poeta, nel torbido universo

t’affisi, tu per noi lo cogli e chiudi

in lucida parola e dolce verso;

 

si ch’opera è di te ciò che l’uom sente

tra l’ombre vane, tra gli spettri nudi.

Or qual n’hai grazia tu presso la gente?

 

Due fuchi udii ronzare sotto un moro.

Fanno queste api quel lor miele (il primo

diceva) e niente più: beate loro!

E l’altro: E poi fa afa: troppo timo!

 

II

IL CACCIATORE

 

Frulla un tratto l’idea nell’aria immota;

canta nel cielo. Il cacciator la vede,

l’ode; la segue: il cuor dentro gli nuota.

 

Se poi col dardo, come fil di sole

lucido e retto, bàttesela al piede,

oh il poeta! gioiva; ora si duole.

 

Deh! gola d’oro e occhi di berilli,

piccoletta del cielo alto sirena,

ecco, tu più non voli, più non brilli,

più non canti: e non basti alla mia cena.

 

III

IL LAURO

 

Nell’orto, a Massa - o blocchi di turchese,

alpi Apuane ! o lunghi intagli azzurri

nel celestino, all’orlo del paese!

 

un odorato e lucido verziere

pieno di frulli, pieno di sussurri,

pieno de’ flauti delle capinere.

 

Nell’aie acuta la magnolia odora,

lustra l’arancio popolato d’oro -

io, quando al Belvedere era l’aurora,

venivo al piede d’uno snello alloro.

 

Sorgeva presso il vecchio muro, presso

il vecchio busto d’un imperatore,

col tronco svelto come di cipresso.

 

Slanciato avanti, sopra il muro, al sole

dava la chioma. Intorno era un odore,

sottil, di vecchio, e forse di vïole.

 

Io sognava: una corsa lungo il puro

Frigido, l’oro di capelli sparsi,

una fanciulla . . . Ancora al vecchio muro

tremava il lauro che parea slanciarsi.

 

Un’alba - si sentia di due fringuelli

chiaro il francesco mio: la capinera

già desta squittinìa di tra i piselli -

 

tu più non c’eri, o vergine fugace:

netto il pedale era tagliato: v’era

quel vecchio odore e quella vecchia pace:

 

il lauro, no. Sarchiava lì vicino

Fiore, un ragazzo pieno di bontà.

Gli domandai del lauro; e Fiore, chino

sopra il sarchiello: Faceva ombra, sa!

 

E m’accennavi un campo glauco, o Fiore,

di cavolo cappuccio e cavolfiore.

 

IV

LE FEMMINELLE

 

E dice la rosa alba: oh! chi mi svelle?

Son mesta come un colchico: dal ciocco

tanto mi germinò di femminelle!

 

Erano come punte tenerine

di sparagio: poi fecero lo stocco;

buttano anch’esse e s’armano di spine.

 

Vivono de’ miei fiori color d’alba,

d’alba rosata; e tu non giovi, o ruta.

Mettono un boccio: una corolla scialba,

subito aperta, subito caduta.

 

 

L’ULTIMA PASSEGGIATA

 

I

ARANO

 

Al campo, dove roggio nel filare

qualche pampano brilla, e dalle fratte

sembra la nebbia mattinal fumare,

 

arano: a lente grida, uno le lente

vacche spinge; altri semina; un ribatte

le porche con sua marra pazïente;

 

ché il passero saputo in cor già gode,

e il tutto spia dai rami irti del moro;

e il pettirosso: nelle siepi s’ode

il suo sottil tintinno come d’oro.

 

 

 

 

 

 

II

DI LASSÙ

 

La lodola perduta nell’aurora

si spazia, e di lassù canta alla villa,

che un fil di fumo qua e là vapora;

 

di lassù largamente bruni farsi

i solchi mira quella sua pupilla

lontana, e i bianchi bovi a coppie sparsi.

 

Qualche zolla nel campo umido e nero

luccica al sole, netta come specchio:

fa il villano mannelle in suo pensiero,

e il canto del cuculo ha nell’orecchio.

 

III

GALLINE

 

Al cader delle foglie, alla massaia

non piange il vecchio cor, come a noi grami:

che d’arguti galletti ha piena l’aia;

 

e spessi nella pace del mattino

delle utili galline ode i richiami:

zeppo, il granaio; il vin canta nel tino.

 

Cantano a sera intorno a lei stornelli

le fiorenti ragazze occhi pensosi,

mentre il granturco sfogliano, e i monelli

ruzzano nei cartocci strepitosi.

 

IV

LAVANDARE

 

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero

resta un aratro senza buoi che pare

dimenticato, tra il vapor leggero.

 

E cadenzato dalla gora viene

lo sciabordare delle lavandare

con tonfi spessi e lunghe cantilene:

 

Il vento soffia e nevica la frasca,

e tu non torni ancora al tuo paese!

quando partisti, come son rimasta!

come l’aratro in mezzo alla maggese.

 

V

I DUE BIMBI

 

I due bimbi si rizzano: uno, a stento,

indolenzito; grave, l’altro: il primo

alza il corbello con un gesto lento;

 

e in quel dell’altro fa cader, bel bello,

il suo tesoro d’accattato fimo:

e quello va più carico e più snello.

 

Il vinto siede, prova un’altra volta

coi noccioli, li sperpera, li aduna,

e dice (forse al grande olmo che ascolta?):

E poi si dica che non ha fortuna! 

 

VI

LA VIA FERRATA

 

Tra gli argini su cui mucche tranquilla-

mente pascono, bruna si difila

la via ferrata che lontano brilla;

 

e nel cielo di perla dritti, uguali,

con loro trama delle aeree fila

digradano in fuggente ordine i pali.

 

Qual di gemiti e d’ululi rombando

cresce e dilegua femminil lamento?

I fili di metallo a quando a quando

squillano, immensa arpa sonora, al vento.

 

VII

FESTA LONTANA

 

Un piccolo infinito scampando

ne ronza e vibra, come d’una festa

assai lontana, dietro un vel d’oblio.

 

Là, quando ondando vanno le campane,

scoprono i vecchi per la via la testa

bianca, e lo sguardo al suoi fisso rimane.

 

Ma tondi gli occhi sgranano i bimbetti,

cui trema intorno il loro ciel sereno.

Strillano al crepitar de’ mortaretti.

Mamma li stringe all’odorato seno.

 

VIII

QUEL GIORNO

 

Dopo rissosi cinguettìi nell’aria,

le rondini lasciato hanno i veroni

della Cura fra gli olmi solitaria.

 

Quanti quel roseo campanil bisbigli

udì, quel giorno, o strilli di rondoni

impazïenti a gl’inquïeti figli!

 

Or nel silenzio del meriggio urtare

là dentro odo una seggiola, una gonna

frusciar d’un tratto: alla finestra appare

curïoso un gentil viso di donna.

 

IX

MEZZOGIORNO

 

L’osteria della Pergola è in faccende:

piena è di grida, di brusio, di sordi

tonfi; il camin fumante a tratti splende.

 

Sulla soglia, tra il nembo degli odori

pingui, un mendico brontola: Altri tordi

c’era una volta, e altri cacciatori.

 

Dice, e il cor s’è beato. Mezzogiorno

dal villaggio a rintocchi lenti squilla;

e dai remoti campanili intorno

un’ondata di riso empie la villa.

 

X

GIA’ DALLA MATTINA

 

Acqua, rimbomba; dondola, cassetta;

gira, coperchio, intorno la bronzina;

versa, tramoggia, il gran dalla bocchetta;

 

spolvero, svola. Nero da una fratta

l’asino attende già dalla mattina

presso la risonante cateratta.

 

Le orecchie scrolla e volgesi a guardare

ché tardi, tra finire, andar bel bello,

intridere, spianare ed infornare,

sul desco fumerai, pan di cruschello.

 

XI

CARRETTIERE

 

O carrettiere che dai neri monti

vieni tranquillo, e fosti nella notte

sotto ardue rupi, sopra aerei ponti;

 

che mai diceva il querulo aquilone

che muggia nelle forre e fra le grotte?

Ma tu dormivi sopra il tuo carbone.

 

A mano a mano lungo lo stradale

venìa fischiando un soffio di procella:

ma tu sognavi ch’era di natale;

udivi i suoni d’una cennamella.

 

XII

IN CAPANNELLO

 

Cigola il lungo e tremulo cancello

la via sbarra: ritte allo steccato

cianciano le comari in capannello:

 

parlan d’uno ch’è un altro scrivo scrivo;

del vin che costa un occhio, e ce n’è stato;

del governo; di questo mal cattivo;

 

del piccino; del grande ch’è sui venti;

del maiale, che mangia e non ingrassa -

Nero avanti a quelli occhi indifferenti

il traino con fragore di tuon passa.

 

XIII

IL CANE

 

Noi mentre il mondo va per la sua strada,

noi ci rodiamo, e in cuor doppio è l’affanno,

e perchè vada, e perchè lento vada.

 

Tal, quando passa il grave carro avanti

del casolare, che il rozzon normanno

stampa il suolo con zoccoli sonanti,

 

sbuca il can dalla fratta, come il vento;

lo precorre, rincorre; uggiola, abbaia.

Il carro è dilungato lento lento.

Il cane torna sternutando all’aia.

 

XIV

O REGINELLA

 

Non trasandata ti creò per vero

la cara madre: tal, lungo la via,

tela albeggia, onde godi in tuo pensiero:

 

presso è la festa, e ognuno a te domanda

candidi i lini, poi che in tua balìa

è il cassone odorato di lavanda.

 

Felici i vecchi tuoi; felici ancora

i tuoi fratelli; e più, quando a te piaccia,

chi sua ti porti nella sua dimora,

o reginella dalle bianche braccia.

 

XV

TI CHIAMA

 

Quella sera i tuoi vecchi (odi? ti chiama

la cara madre: al fumo della bruna

pentola, con irrequieta brama,

 

rissano i bimbi: frena tu, severa,

quinci una mano trepida, quindi una

stridula bocca, e al piccol volgo impera;

 

sì che in pace, tra un grande acciottolìo,

bruchi la sussurrante famigliola),

quella notte i tuoi vecchi un dolor pio

soffocheranno contro le lenzuola.

 

XVI

O VANO SOGNO

 

Al camino, ove scoppia la mortella

tra la stipa, o ch’io sogno, o veglio teco:

mangio teco radicchio e pimpinella.

 

Al soffiar delle raffiche sonanti,

l’aulente fieno sul forcon m’arreco,

e visito i miei dolci ruminanti:

 

poi salgo, e teco - O vano sogno! Quando

nella macchia fiorisce il pan porcino,

lo scolaro i suoi divi ozi lasciando

spolvera il badïale calepino:

chioccola il merlo, fischia il beccaccino;

anch’io torno a cantare in mio latino.

 

 

DIALOGO

 

Scilp : i passeri neri su lo spalto

corrono, molleggiando. Il terren sollo

rade la rondine e vanisce in alto:

 

vitt. . . videvitt . Per gli uni il casolare,

l’aia, il pagliaio con l’aereo stollo;

ma per l altra il suo cielo ed il suo mare.

 

Questa, se gli olmi ingiallano la frasca,

cerca i palmizi di Gerusalemme:

quelli, allor che la foglia ultima casca,

restano ad aspettar le prime gemme.

 

Dib dib bilp bilp : e per le nebbie rare,

quando alla prima languida dolciura

l’olmo già sogna di rigermogliare,

 

lasciano a branchi la città sonora

e vanno, come per la mietitura,

alla campagna, dove si lavora.

 

Dopo sementa, presso l’abituro

il casereccio passero rimane;

e dal pagliaio, dentro il cielo oscuro

saluta le migranti oche lontane.

 

Fischia un grecale gelido, che rade:

copre un tendone i monti solitari:

a notte il vento rugge, urla: poi cade.

 

E tutto è bianco e tacito al mattino:

nuovo: e dai bianchi e muti casolari

il fumo sbalza, qua e là turchino.

 

La neve! (Videvitt: la neve? il gelo?

ei di voi, rondini, ride:

bianco in terra, nero in cielo

v’è di voi chi vide . . . vide . . . videvitt? )

 

La neve! Allora, poi che il cibo manca,

alla città dai mille campanili

scendono, alla città fumida e bianca;

a mendicare. Dalla lor grondaia

spiano nelle chiostre e nei cortili

la granata o il grembiul della massaia.

 

Tornano quindi ai campi, a seminare

veccia e saggina coi villani scalzi,

e - videvitt - venuta d’oltremare

trovano te che scivoli, che sbalzi,

 

rondine, e canti; ma non sai la gioia

-scilp- della neve, il giorno che dimoia.

 

 

NOZZE

a G.V

 

Dava moglie la Rana al suo figliolo.

Or con la pace vostra, o raganelle,

suon lo chiese ad un cantor del brolo.

 

Egli cantò: la cobbola giuliva

parve un picchierellar trito di stelle

nel ciel di sera, che ne tintinniva.

 

Le campagne addolcì quel tintinnio

e i neri boschi fumiganti d’oro.

ti ò ti ò ti ò ti ò ti ò ti ò ti ò ti ò ti ò

torotorotorotorot í x

torotorotorotorolilil í x

 

È notte: ancora in un albor di neve

sale quest’inno come uno zampillo;

quando la Rana chiede, quanto deve:

 

se quattro chioccioline, o qualche foglia

d’appio o voglia un mazzuolo di serpillo,

o voglia un paio di bachi, o ciò che voglia.

 

Oh! rispos’egli: nulla al Rosignolo,

nulla tu devi delle sue cantate:

ei l’ha per nulla e dà per nulla: solo,

si l’ascoltate e poi non gracidate.

 

Al lume della luna ogni ranocchia

gracidò: Quanta spocchia, quanta spocchia!

 

LE GIOIE DEL POETA

 

I

IL MAGO

 

“Rose al verziere, rondini al verone!”

 

Dice, e l’aria alle sue dolci parole

sibila d’ali, e l’irta siepe fiora.

Altro il savio potrebbe; altro non vuole;

pago se il ciel gli canta e il suol gli odora;

suoi. nunzi manda alla nativa aurora,

a biondi capi intreccia sue corone.

 

II

IL MIRACOLO

 

Vedeste, al tocco suo, morte pupille!

Vedeste in cielo bianchi lastricati

con macchie azzurre tra le lastre rare;

 

bianche le fratte, bianchi erano i prati,

queto fumava un bianco casolare,

sfogliava il mandorlo ali di farfalle.

 

Vedeste l’erba lucido tappeto,

e sulle pietre il musco smeraldino;

tremava il verde ciuffo del canneto,

sbocciava la ninfea nell’acquitrino,

tra rane verdi e verdi raganelle.

 

Vedeste azzurro scendere il ruscello

fuori dei monti, fuor delle foreste,

e quelle creste, aereo castello,

tagliare in cielo un lembo piu celeste:

era colore di viola il colle.

 

Vedeste in mezzo a nuvole di cloro

rossa raggiar la fuga de’ palazzi

lungo la ripa, ed il tramonto d’oro

dalle vetrate vaporare a sprazzi,

a larghi fasci, a tremule scintille.

 

Dormono i corvi dentro i lecci oscu

qualche fiaccola va pei cimiteri;

dentro i palazzi, dentro gli abituri,

al buio, accanto ai grandi letti neri,

dormono nere e piccole le culle.

 

III

IN ALTO

 

Nel ciel dorato rotano i rondoni.

 

Avessi al cor, come ali, così lena!

Pur l’amerei la negra terra infida,

 

sol per la gioia di toccarla appena,

fendendo al ciel non senza acute strida.

Ora quel cielo sembra che m’irrida,

mentre vado così, grondon grondoni.

 

IV

GLORIA

 

-Al santo monte non verrai, Belacqua?-

 

Io non verrò: l’andare in su che porta?

Lungi è la Gloria, e piedi e mani vuole;

e là non s’apre che al pregar la porta,

 

e qui star dietro il sasso a me non duole,

ed ascoltare le cicale al sole,

e le rane che gracidano, Acqua acqua!

 

V

CONTRASTO

 

I

 

Io prendo un po’ di silice e di quarzo:

lo fondo; aspiro; e soffio poi di lena:

ve’ la fiala come un dì di marzo,

azzurra e grigia, torbida e serena!

Un cielo io faccio con un po’ di rena

e un po’ di fiato. Ammira: io son l’artista.

 

II

 

Io vo per via guardando e riguardando,

solo, soletto, muto, a capo chino:

prendo un sasso, tra mille, a quando a quando:

lo netto, arroto, taglio, lustro, affino:

chi mi sia, non importa: ecco un rubino;

vedi un topazio; prendi un’ametista.

 

VI

LA VITE E IL CAVOLO

 

Dal glauco e pingue cavolo si toglie

e fugge all’olmo la pampinea vite,

ed a sé, tra le branche inaridite,

tira il puniceo strascico di foglie.

 

Pace, o pampinea vite ! Aureo s’accoglie

il sol nel lungo tuo grappolo mite;

aurea la gioia, e dentro le brunite

coppe ogni cura in razzi d’oro scioglie.

 

Ma, nobil vite, alcuna gloria è spesso

pur di quel gramo, se per lui l’oscuro

paiol borbotta con suo lieve scrollo;

 

e il core allegra al pio villan, che d’esso

trova odorato il tiepido abituro,

mentre a’ fumanti buoi libera il collo.

 

 

FINESTRA ILLUMINATA

 

I

MEZZANOTTE

                    a A. B.

 

Otto... nove... anche un tocco: e lenta scorre

l’ora; ed un altro... un altro. Uggiola un cane.

Un chiù singhiozza da non so qual torre.

 

È mezzanotte. Un doppio suon di pesta

s’ode, che passa. C’è per vie lontane

un rotolìo di carri che s’arresta

 

di colpo.