. .

 

Tu l’ami, egli t’ama tuttora;

ma egli col capo non giunge

al seno tuo nuovo, che ignora.

 

Egli esita: avanti la pura

tua fronte ricinta d’un nimbo,

piangendo l’antica sventura

 

tentenna il suo capo di bimbo.

 

PLACIDO

 

I

 

Io dissi a quel vecchio, “Dove?” Io

 

cercava un fanciullo mio buono,

smarrito: il mio Placido: mio!

 

Cercavo quelli occhi (... un cipresso?)

co’ quali chiedeva perdono

di vivere, d’esserci anch’esso.

 

Cercavo. Ero giunto. Era quello

per certo il paese azzurrino

suo: monti, una selva, un castello,

 

poi monti: più su, San Marino.

 

Il

 

Nel chiuso (... una croce?) noi soli

tre s’era: non c’era altro fiore

che l’oro di due girasoli.

 

Nel chiuso non c’era altra voce,

rammento, che il cupo stridore

d’un fuco ronzante a una croce;

 

e qualche fruscio di virgulto

al passo del vecchio, che aveva

le chiavi; e d’un tratto, un singulto

 

di lei: di Maria, che piangeva.

 

III

 

E in fine, guardandosi attorno,

“Qui” disse quell’uomo. A Sogliano

la torre sonò mezzogiorno.

 

Stridevano gli usci, i camini

fumavano tutti: lontano

s’udiva un vocio di bambini.

 

E lui? “Qui” mi disse: “non vede?”

Io vidi: tra il grigio becchino

e noi, vidi un nero, al mio piede,

 

di terra ah! scavata il mattino!

 

 

TRAMONTI

 

I

LA SIRENA

 

La sera, fra il sussurrìo lento

dell’acqua che succhia la rena,

dal mare nebbioso un lamento

si leva: il tuo canto, o Sirena.

 

E sembra che salga, che salga,

poi rompa in un gemito grave.

E l’onda sospira tra l’alga,

e passa una larva di nave:

 

un’ombra di nave che sfuma

nel grigio, ove muore quel grido;

che porta con sé, nella bruma,

dei cuori che tornano al lido:

 

al lido che fugge, che scese

già nella caligine, via;

che porta via tutto, le chiese

che suonano l’avemaria,

 

le case che su per la balza

nel grigio traspaiono appena,

e l’ombra del fumo che s’alza

tra forse il brusìo della cena.

 

 

 

 

 

II

PIANO E MONTE

 

Il disco, grandissimo, pende

rossastro in un latte d’opale:

e intaglia le case ed accende

i lecci nel nero viale;

 

che fumano, come foreste,

di polvere gialla e vermiglia:

s’annuvola in rosa e celeste

quel botro color di conchiglia.

 

Qua lampi di vetri, qua lente

cantate, qua grida confuse:

là placido il muto orïente

nell’ombra dei monti si chiuse.

 

Si vedono opache le vette,

è pace e silenzio tra i monti:

un breve squittir di civette,

un murmure lungo di fonti:

 

via via con fragore interrotto

si serra la casa tranquilla:

è chiusa: nel bianco salotto

la tacita lampada brilla.

 

 

IL CUORE DEL CIPRESSO

 

I

 

O cipresso, che solo e nero stacchi

dal vitreo cielo, sopra lo sterpeto

irto ,di cardi e stridulo di biacchi:

 

in te sovente, al tempo delle more,

odono i bimbi un pispillìo secreto,

come d’un nido che ti sogni in cuore.

 

L’ultima cova. Tu canti sommesso

mentre s’allunga l’ombra taciturna

nel tristo campo: quasi, ermo cipresso,

ella ricerchi tra que’ bronchi un’urna.

 

II

 

Più brevi i giorni, e l’ombra ogni dì meno

s’indugia e cerca, irrequieta, al sole;

e il sole è freddo e pallido il sereno.

 

L’ombra, ogni sera prima, entra nell’ombra:

nell’ombra ove le stelle errano sole.

E il rovo arrossa e con le spine ingombra

 

tutti i sentieri, e cadono già roggie

le foglie intorno (indifferente oscilla

l’ermo cipresso), e già le prime pioggie

fischiano, ed il libeccio ulula e squilla.

 

III

 

E il tuo nido? il tuo nido?... Ulula forte

il vento e t’urta e ti percuote a lungo:

tu sorgi, e resti; simile alla Morte.

 

E il tuo cuore? il tuo cuore?... Orrida trebbia

l’acqua i miei vetri, e là ti vedo lungo,

di nebbia nera tra la grigia nebbia.

 

E il tuo sogno? La terra ecco scompare:

la neve, muta a guisa del pensiero,

cade. Tra il bianco e tacito franare

tu stai, gigante immobilmente nero.

 

 

 

ALBERI E FIORI

 

I

FIOR D’ACANTO

a Egisto Cecchi

 

Fiore di carta rigida, dentato

petali di fini aghi, che snello

sorgi dal cespo, come un serpe alato

da un capitello;

 

fiore che ringhi dai diritti scapi

con bocche tue di piccoli ippogrifi;

fior del Poeta! industrïa te d’api

schifa, e tu schifi.

 

L’ape te sdegna, piccola e regale;

ma spesso io vidi l’ape legnaiola

celare il corpo che riluce, quale

nera viola,

 

dentro il tuo duro calice, e rapirti

non so che buono, che da te pur viene

come le viti di tra i sassi e i mirti

di tra l’arene.

 

Lo sa la figlia del pastor, che vuoto

un legno fende e lieta pasce quanto

miele le giova: il tuo nettare ignoto,

fiore d’acanto.

 

II

NEL GIARDINO

 

Nel mio giardino, là nel canto oscuro

dove ora il pettirosso tintinnìa

col gelsomino rampicante al muro,

c’è la gaggìa;

 

e or che ottobre dentro la vermiglia

foresta il marzo rende morto al suolo,

e sembra marzo, come rassomiglia

bacca a bocciuolo,

 

alba a tramonto; nelle tenui trine

l’una si stringe, al roseo vespro, quando

l’altro i suoi fiori, candide stelline,

apre, alitando;

 

ed al sospiro dell’avemaria,

quando nel bosco dalle cime nude

il dì s’esala, il cuore in una pia

ombra si chiude;

 

e l’anima in quell’ombra di ricordi

apre corolle che imbocciar non vide;

e l’ombra di fior d’angelo e di fior di

spina sorride.

 

 

 

 

 

III

NEL PARCO

a Mario Racah

 

Certo il signore, e la chiomata moglie,

partì pe’ campi, ché già il tordo zirla:

muto, tra un’ampia musica di foglie

(dolce sentirla

 

d’autunno, a tarda notte, se il libeccio

soffia con lunghi fremiti sonori),

muto è il palazzo. S’ode un cicaleccio

di tra gli allori ;

 

un cicaleccio donde acuti appelli

s’alzano come strilli di piviere:

il gatto è fuori: ruzzano i monelli

del giardiniere.

 

Torvo, aggrondato, il candido palazzo

formicolare a’ piedi suoi li mira;

e sì n’echeggia un cupo, a quel rombazzo,

battito d’ira;

 

ma non s’adira il giovinetto alloro,

il leccio, il pioppo tremulo ed il lento

salice: a prova corrono con loro;

cantano al vento.

 

IV

ROSA DI MACCHIA

 

Rosa di macchia, che dall’irta rama

ridi non vista a quella montanina,

che stornellando passa e che ti chiama

rosa canina;

 

se sottil mano i fiori tuoi non coglie,

non ti dolere della tua fortuna:

le invidïate rose centofoglie

colgano a una

 

a una: al freddo sibilar del vento

che l’arse foglie a una a una stacca,

irto il rosaio dondolerà lento

senza una bacca;

 

ma tu di bacche brillerai nel lutto

del grigio inverno; al rifiorir dell’anno

i fiori nuovi a qualche vizzo frutto

sorrideranno:

 

e te, col tempo, stupirà cresciuta

quella che all’alba svolta già leggiera

col suo stornello, e risalirà muta,

forse, una sera.

 

V

PERVINCA

 

So perché sempre ad un pensier di cielo

misterïoso il tuo pensier s’avvinca,

sì come stelo tu confondi a stelo,

vinca pervinca;

 

io ti coglieva sotto i vecchi tronchi

nella foresta d’un convento oscura,

o presso l’arche, tra vilucchi e bronchi,

lungo la mura.

 

Solo tra l’arche errava un cappuccino;

pareva spettro da quell’arche uscito, 

bianco la barba e gli occhi d’un turchino

vuoto, infinito;

 

come il tuo fiore: e io credea vedere

occhi di cielo, dallo sguardo fiso,

più  d’anacoreti, allo svoltar, tra nere

            ombre, improvviso;

 

e il bosco alzava, al palpito del vento,

una confusa e morta salmodia,

mentre squillava, grave, dal convento

              l’avemaria.

 

VI

IL DITTAMO

 

Dittamo nato all’umile finestra,

donde pel Corpusdomini sorrisi

alla soave tra fior di ginestra

e fiordalisi

 

processïone; io so di te, che immensa

virtù possiedi ne’ chiomanti capi,

cespo lanoso ed olezzante, mensa

ricca dell’api.

 

Te, con la freccia tremolante al dosso,

cerca nei monti il daino selvaggio,

farmaco certo - di lui segue un rosso

rigo il vïaggio -

 

Dittamo blando per la mia ferita

l’avete, o balze degli aerei monti,

dove nell’alto piange la romita

culla dei fonti ?

 

Bianche ai dirupi pendono le capre;

l’aquila passa nera e solitaria;

sibila l’erba inaridita; s’apre,

sotto il piè, l’aria.

 

VII

EDERA FIORITA

ad Ettore Toci

 

Quando, di maggio, tu le dolci sere

imbalsamavi co’ tuoi fiori, ornello

(era un sussurro alle finestre nere

del paesello!);

 

non ti rincrebbe d’un infermo arbusto

che, mosso anch’egli da dolcezza estiva,

con le sue foglie, come cuori, al fusto

lento saliva.

 

Non ti rincrebbe. Ed ora che gelata

la tramontana soffia, e che traspare

già dalle porte chiuse la fiammata

del focolare;

 

ora che il verno spoglia le foreste

e le tue foglie per le vie disperde;

o vecchio ornello, te ricopre e veste

l’edera verde.

 

Sui rami nudi i fiori suoi ti pone,

tra verdi e gialli, piccoli, com’era

la tua fiorita morta: illusïone

di primavera.

 

VIII

VIOLE D’INVERNO

 

- D’onde, o vecchina, queste vïolette

serene come un lontanar di monti

nel puro occaso ? Poi che il gelo ha strette

tutte le fonti ;

 

il gelo brucia dalle stelle, o nonna,

ogni foglia, ogni radica, ogni zolla -

- Tiepida, sappi, lungo la Corsonna

geme una polla.

 

Là noi sciacquiamo il candido bucato

nell’onda calda in mezzo a nevi e brine;

e il poggio è pieno di vïole, e il prato

di pratelline -

 

Ah! . . . ma, poeta, non ancor nel pio

tuo cuore è l’onda che discioglie il gelo ?

non è la polla, calda nell’oblio

freddo del cielo?

 

Ché sempre, se ti agghiaccia la sventura,

se l’odio altrui ti spoglia e ti desola,

spunta, al tepor dell’anima tua pura,

qualche vïola.

 

IX

IL CASTAGNO

a Francesco Pellegrini

 

I

 

Quando sfioriva e rinverdiva il melo,

quando s’apriva il fiore del cotogno,

il greppo, azzurro, somigliava un cielo

visto nel sogno;

 

brullo io te vidi; e già per ogni ripa

erano colte tutte le vïole,

e tu lasciavi ai cesti ed alla stipa

tutto il tuo sole;

 

e, pio castagno, i rami dalla bruma

ancora appena e dal nevischio vivi,

a mano a mano d’una lieve spuma

verde coprivi.

 

Ma poi, vedendo sotto il fascio greve

le montanine tergersi la fronte,

tu che le sai da quando per la neve

scendono il monte,

 

ecco, pietoso tu di lor, tessesti

lungo i torrenti, all’orlo dei burroni,

una fredda ombra, che gemé di mesti

cannareccioni.

 

II

 

E qualche cosa già nell’aspro cardo

chiuso ascondevi, come l’avo buono

che nell’irsuta mano cela un tardo

                        facile dono.

 

Ai primi freddi, quando il buon villano

rinumerò tutti i suoi bimbi al fuoco;

e con lui lungamente il tramontano

                        brontolò roco;

 

e tu quei cardi, in mezzo alle procelle,

spargesti sopra l’erica ingiallita,

e li schiudevi per pietà di quelle

                        povere dita

 

Tutti spargesti i cardi irti e le fronde

fragili, e tutto portò via festante

la grama turba. Nudo con le monde

                        rame, o gigante,

 

stavi, e vedevi tu la vite e il melo

vestiti d’oro e porpora al riflesso

già delle nevi, e per lo scialbo cielo

                        nero il cipresso.

 

III

               

Per te i tuguri sentono il tumulto

or del paiolo che inquïeto oscilla;

per te la fiamma sotto quel singulto

crepita e brilla:

 

tu, pio castagno, solo tu, l’assai        

doni al villano che non ha che il sole;

tu solo il chicco, il buon di più, tu dai

                         alla sua prole;

 

ha da te la sua bruna vaccherella

tiepido il letto e non desìa la stoppia;

ha da te l’avo tremulo la bella

fiamma che scoppia.

 

Scoppia con gioia stridula la scorza

de’ rami tuoi, co’ frutti tuoi la grata

pentola brontola. Il vento fa forza

nell’impannata.

 

Nevica su le candide montagne,

nevica ancora. Lieto è l’avo, e breve

augura, e dice: Tante più castagne,

quanta più neve.

 

X

IL PESCO

a Adolfo Cipriani

 

Penso a Livorno, a un vecchio cimitero

di vecchi morti; ove a dormir con essi

niuno più scende; sempre chiuso; nero

d’alti cipressi.

 

Tra i loro tronchi che mai niuno vede,

di là dell’erto muro e delle porte

ch’hanno obliato i cardini, si crede

morta la Morte,

 

anch’essa. Eppure, in un bel dì d’Aprile,

sopra quel nero vidi, roseo, fresco,

vivo, dal muro sporgere un sottile

ramo di pesco.

 

Figlio d’ignoto nòcciolo, d’allora

sei tu cresciuto tra gli ignoti morti?

ed ora invidii i mandorli che indora

l’alba negli orti?

 

od i cipressi, gracile e selvaggio,

dimenticàti, col tuo riso allieti,

tu trovatello in un eremitaggio

d’anacoreti?

 

XI

CANZONE DI NOZZE

ad Enrico Bemporad

 

Guardi la vostra casa sopra un rivo,

sopra le stipe, sopra le ginestre;

ed entri l’eco d’un gorgheggio estivo

dalle finestre.

 

Dolce dormire con nel sogno il canto

dell’usignuolo! E sian sotto la gronda

rondini nere. Dolce avere accanto

chi vi risponda,

 

sul far dell’alba, quando voi direte

pian piano: È vero che non s’è più soli?

Sì: si, diranno, vero ver... Che liete

grida! che voli!

 

sul far dell’alba, quando tutto ancora

sembra dormir dietro le imposte unite!

Sembra, e non è.Voi sì, forse, in quell’ora, 

                        madri, dormite.

 

Sognate biondo: nelle vostre teste

non un fil bianco: bianche, nel giardino,

sono, sì, quelle ch’ora vi tendeste,

                        fascie di lino.

 

XII

I GIGLI

 

Nel mio villaggio, dietro la Madonna

dell’acqua, presso a molti pii bisbigli,

sorgono sopra l’esile colonna

                     verde i miei gigli:

 

miei, ché a deporne i tuberi in quel canto

del suo giardino fu mia madre mesta.

D’altri è il giardino: di mia madre (è tanto!...)

                     nulla piú resta.

 

Sono tanti anni!... Ma quei gigli ogni anno

escono ancora a biancheggiar tra folti

cesti d’ortica; ed ora... ora saranno

 forse già còlti.

 

Forse già sono su l’altar, lì presso,

a chieder acqua, or ch’è mietuto il grano,

per il granturco: e nel pregar sommesso

 meridïano,

 

guardando i gigli, alcuna ebbe un fugace

ricordo; e chiede che Maria mi porti

nella mia casa, per morirvi in pace

 presso i miei morti

 

 

COLLOQUIO

 

I

 

Brulli i pioppi nell’aria di vïola

sorgono sopra i lecci, sfavillando

come oro: sopra il tetto della scuola

si sfrangia un orlo a fiocchi rosei; quando,

 

lieve come un sospiro, entra; poi sola,

bianca, le mani al cuore, ristà, ansando;

gira gli occhi - dov’è la famigliuola? -

e ha sui labbri il suo sorriso blando;

 

ma piange. Oh: sì: son quello: il tuo Giovanni...

un po’ mutato. O madre seppellita,

che gli altri lasci, oggi, per me; parliamo.

 

Io devo dirti cosa da molti anni

chiusa dentro. E non piangere. La vita

che tu mi desti - o madre, tu ! - non l’amo.

 

II

 

Non piangere. È uno sforzo così mesto

viverla senza te questa tua vita!

ad ogni gioia è tanto dolor questo

subito ricordar te, seppellita!

 

Dai sogni, oh! brevi, della gioia desto

io mi ritrovo a piangere infinita-

mente con te: morire! così presto!

partire, o madre, come sei partita!

 

Tu non dovevi. Con quelli occhi in pianto!

con quella bimba che parlava appena!

Dovevi, o madre pia, dirlo a Dio padre,

 

che non potevi; e ti lasciasse; e in tanto

te la guarisse Dio quella tua vena

che ci si ruppe nel tuo cuore, o madre!

 

III

 

Non piangere.