come noi, meglio di noi.

 

VIII

NOTTE

 

Siedon fanciulle ad arcolai ronzanti,

  e la lucerna i biondi capi indora:

 

i biondi capi, i neri occhi stellanti,

  volgono alla finestra ad ora ad ora:

 

attendon esse a cavalieri erranti

  che varcano la tenebra sonora?

 

Parlan d’amor, di cortesie, d’incanti:

  così parlando aspettano l’aurora.

 

 

TRISTEZZE

 

I

PAESE NOTTURNO

 

Capanne e stolli ed alberi alla luna

sono, od un tempio dell’antico Anubi,

fosca rovina? Stampano una bruna

orma le nubi

 

su la campagna, e più profonda e piena

la notte preme le macerie strane,

chiuse allo sguardo, dove alla catena

uggiola un cane.

 

Ecco la falce d’oro all’orizzonte:

due nere guglie a man a man dipinge,

indi non so che candido. Una fronte

bianca di sfinge?

 

II

RAMMARICO

 

Chi questo nuovo pianto in cuor mi pone ?

 

Verso occidente, o dolce madre Aurora,

da te lontano la mia vita è corsa.

Il cielo s’alza e tutto trascolora;

passano stelle e stelle in lenta corsa;

emerge dall’azzurro la grand’Orsa,

e sta nell’arme fulgido Orïone.

 

Come più lieta la tua vista, quando

un poco accenni delle rosee dita;

e la greggia s’avvia scampanellando,

esce il bifolco e rauco i bovi incìta,

Canta lassù la lodola - apparita

ecco Giulietta, e piange, al suo balcone!-

 

III

SOGNO

 

Per un attimo fui nel mio villaggio,

nella mia casa. Nulla era mutato

Stanco tornavo, come da un vïaggio;

stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato.

 

Sentivo una gran gioia, una gran pena;

una dolcezza ed un’angoscia muta.

- Mamma?—È là che ti scalda un po’ di cena—

Povera mamma! e lei, non l’ho veduta.

 

IV

I GATTICI

 

E vi rivedo, o gattici d’argento,

brulli in questa giornata sementina:

e pigra ancor la nebbia mattutina

sfuma dorata intorno ogni sarmento.

 

Gia vi schiudea le gemme questo vento

che queste foglie gialle ora mulina;

e io che al tempo allor gridai, Cammina,

ora gocciare il pianto in cuor mi sento.

 

Ora, le nevi inerti sopra i monti,

e le squallide pioggie, e le lunghe ire

del rovaio che a notte urta le porte,

 

e i brevi dì che paiono tramonti.

infiniti, e il vanire e lo sfiorire,

e i crisantemi, il fiore della morte.

 

V

LA SIEPE

 

Qualche bacca sui nudi ramicelli

del biancospino trema nel viale

gelido: il suol rintrona, andando, quale

per tardi passi il marmo degli avelli.

 

Le pasce il piccol re, re degli uccelli

ed altra gente piccola e vocale.

S’odono a sera lievi frulli d’ale,

via, quando giunge un volo di monelli.

 

Anch’io; ricordo, ma passò stagione;

quelle bacche a gli uccelli della frasca

invidiavo, e le purpuree more;

 

e l’ala, i cieli, i boschi, la canzone:

i boschi antichi, ove una foglia casca,

muta, per ogni battito di cuore.

 

VI

IL NIDO

 

Dal selvaggio rosaio scheletrito

penzola un nido. Come, a primavera,

ne prorompeva empiendo la riviera

il cinguettio del garrulo convito!

 

Or v’è sola una piuma, che all’invito

del vento esita, palpita leggiera;

qual sogno antico in anima severa,

fuggente sempre e non ancor fuggito:

 

e già l’occhio dal cielo ora si toglie;

dal cielo dove un ultimo concento

salì raggiando e dileguò nell’aria;

 

e si figge alla terra, in cui le foglie

putride stanno, mentre a onde il vento

piange nella campagna solitaria.

 

VII

IL PONTE

 

La glauca luna lista l’orizzonte

scopre i campi nella notte occulti

e il fiume errante. In suono di singulti

l’onda si rompe al solitario ponte.

 

Dove il mar, che lo chiama? e dove il fonte,

ch’esita mormorando tra i virgulti?

il fiume va con lucidi sussulti

al mare ignoto dall’ignoto monte.

 

Spunta la luna: a lei sorgono intenti

gli alti cipressi dalla spiaggia triste,

movendo insieme come un pio sussurro.

 

Sostano, biancheggiando, le fluenti

nubi, a lei volte, che salìan non viste

le infinite scalèe del tempio azzurro.

 

VIII

AL FUOCO

 

Dorme il vecchio avanti i ciocchi.

Sogna un nuvolo di bimbi,

che cinguetta. Il ceppo al foco

russa roco.

 

Dorme anch’esso. A tutti i nocchi

sogna grappoli e corimbi.

Rosei pendono nell’aria

solitaria.

 

Bianchi i bimbi tra il fogliame,

su su, a quel roseo sorriso

vanno. Il ceppo occhi di brace

apre, e tace.

 

Ecco pendulo lo sciame

dal grande albero improvviso,

su su. Il vecchio nel cor teme,

guarda e geme.

 

Ogni bimbo al suo fiore alza

la mano e. . . scivola e va.

Sbarra il ceppo la pupilla:

crocchia e brilla.

 

E il vegliardo, al crocchiar, balza

nella rotta oscurità.

Gira lento gli occhi. Solo!

solo! solo!

 

IX

IL LAMPO

 

E cielo e terra si mostrò qual era:

 

la terra ansante, livida, in sussulto;

il cielo ingombro, tragico, disfatto:

bianca bianca nel tacito tumulto

una casa apparì sparì d’un tratto;

come un occhio, che, largo, esterrefatto,

s’aprì si chiuse, nella notte nera.

 

X

IL TUONO

 

E nella notte nera come il nulla,

a un tratto, col fragor d’arduo dirupo

che frana, il tuono rimbombò di schianto:

rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,

e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,

e poi vanì. Soave allora un canto

s’udì di madre, e il moto di una culla.

 

XI

LONTANA

 

Cantare, il giorno, ti sentii: felice?

Cantavi; la tua voce era lontana:

lontana come di stornellatrice

per la campagna frondeggiante e piana.

 

Lontana sì, ma io sentia nel cuore

che quel lontano canto era d’amore:

 

ma sì lontana, che quel dolce canto,

dentro, nel cuore, mi moriva in pianto.

 

XII

I CIECHI

 

Siedono lungo il fosso, al solleone,

fuor dello stormeggiante paesello.

Passa un trotto via via tra il polverone,

una pesta, un alterco, uno stornello:

 

e da terra una grave salmodia

si leva, una preghiera, al lor cospetto.

- Il nostro pane - gemono via via:

il nostro, il nostro: tu, Gesù, l’hai detto.

 

XIII

DALLA SPIAGGIA

 

I

 

C’è sopra il mare tutto abbonacciato

il tremolare quasi d’una maglia:

in fondo in fondo un ermo colonnato,

nivee colonne d’un candor che abbaglia:

 

una rovina bianca e solitaria,

là dove azzurra è l’acqua come l’aria:

 

il mare nella calma dell’estate

ne canta tra le sue larghe sorsate.

 

II

 

O bianco tempio che credei vedere

nel chiaro giorno, dove sei vanito?

Due barche stanno immobilmente nere,

due barche in panna in mezzo all’infinito.

 

E le due barche sembrano due bare

smarrite in mezzo all’infinito mare;

 

e piano il mare scivola alla riva

e ne sospira nella calma estiva.

 

XIV

NOTTE DI NEVE

 

Pace! grida la campana,

ma lontana, fioca. Là

 

un marmoreo cimitero

sorge, su cui l’ombra tace:

e ne sfuma al cielo nero

un chiarore ampio e fugace.

Pace! pace! pace! pace!

nella bianca oscurità.

 

XV

NEVICATA

 

Nevica: l’aria brulica di bianco;

  la terra è bianca; neve sopra neve:

gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco:

  cade del bianco con un tonfo lieve.

 

E le ventate soffiano di schianto

  e per le vie mulina la bufera:

passano bimbi: un balbettio di pianto;

  passa una madre: passa una preghiera.

 

XVI

NOTTE DOLOROSA

 

Si muove il cielo, tacito e lontano:

 

la terra dorme, e non la vuol destare;

dormono l’acque, i monti, le brughiere.

Ma no, ché sente sospirare il mare,

gemere sente le capanne nere:

v’è dentro un bimbo che non può dormire:

piange; e le stelle passano pian piano.

 

 

 

 

 

 

 

 

XVII

NOTTE Dl VENTO

 

Allora sentii che non c’era,

che non ci sarebbe mai più...

La tenebra vidi più nera,

più lugubre udii la bufera...

uuh...uuuh...uuuh...

 

Venia come un volo di spetri,

gridando ad ogni émpito più:

un fragile squillo di vetri

seguiva quelli ululi tetri...

uuh...uuuh...uuuh...

 

Oh! solo nell’ombra che porta

quei gridi... (chi passa laggiù?)

Ohl solo nell’ombra già morta

per sempre... (chi batte alla porta?)

uuh...uuuh...uuuh...

 

XVIII

LA BAIA TRANQUILLA

 

Getta l’ancora, amor mio:

non un’onda in questa baia.

Quale assiduo sciacquìo

fanno l’acque tra la ghiaia!

 

Vien dal lido solatìo,

vien di là dalla giuncaia,

lungo vien come un addio,

un cantar di marinaia.

 

Tra le vetrici e gli ontani

vedi un fiume luccicare;

 

uno stormo di gabbiani

nel turchino biancheggiare;

e sul poggio, più lontani,

i cipressi neri stare.

 

Mare ! mare!

dolce là, dal poggio azzurro,

il tuo urlo e il tuo sussurro.

 

 

IL BACIO DEL MORTO

 

I

 

È tacito, è grigio il mattino;

la terra ha un odore di funghi;

di gocciole è pieno il giardino.

 

Immobili tra la leggiera

caligine gli alberi: lunghi

lamenti di vaporïera.

 

I solchi ho nel cuore, i sussulti,

d’un pianto sognato: parole,

sospiri avanzati ai singulti:

 

un solco sul labbro, che duole.

 

II

 

Chi sei, che venisti, coi lieti

tuoi passi, da me nella notte?

Non so; non ricordo: piangevi.

 

Piangevi: io sentii per il viso

mio piangere fredde, dirotte,

le stille dall’occhio tuo fiso

 

su me: io sentii che accostavi

le labbra al mio labbro a baciarmi;

e invano volli io levar gravi

 

le palpebre: gravi: due marmi.

 

III

Chi sei? donde vieni? presente

tuttora? mi vedi? mi sai?

e lacrimi tacitamente ?

 

Chi sei ? Trema ancora la porta.

Certo eri di quelli che amai,

ma forse non so che sei morta. . .

 

Né so come un’ombra d’arcano,

tra l’umida nebbia leggiera,

io senta in quel lungo lontano

saluto di vaporiera.

 

LA NOTTE DEI MORTI

 

I

 

La casa è serrata; ma desta:

ne fuma alla luna il camino.

Non filano o torcono: è festa.

 

Scoppietta il castagno, il paiolo

borbotta. Sul desco c’è il vino,

cui spilla il capoccio da solo.

 

In tanto essi pregano al lume

del fuoco: via via la corteccia

schizza arida... Mormora il fiume

 

con rotto fragore di breccia...

 

II

 

È forse (io non odo: non sento

che il fiume passare, portare

quel murmure al mare) d’un lento

 

vegliardo la tremula voce

che intuona il rosario, e che pare

che venga da sotto una croce,

 

da sotto un gran peso; da lunge

Quei poveri vecchi bisbigli

sonora una romba raggiunge

 

col trillo dei figli de’ figli.

 

III

 

Oh! i morti! Pregarono anch’essi,

la notte dei morti, per quelli

che tacciono sotto i cipressi.

 

Passarono... O cupo tinnito

di squille dagli ermi castelli!

o fiume dall’inno infinito!

 

Passarono... Sopra la luna

che tacita sembra che chiami,

io vedo passare un velo, una

 

breve ombra, ma bianca, di sciami.

 

 

I DUE CUGINI

 

I

 

Si amavano i bimbi cugini

Pareva, un incontro di loro,

l’ incontro di due lucherini:

 

volavano. Nell’ abbracciarsi

i tòcchi cadevano, e l’oro

mescevano i riccioli sparsi.

 

Poi l’uno appassì come rosa

che in boccio appassisce nell’orto;

ma l’altra la piccola sposa

 

rimase del piccolo morto.

 

II

 

Tu piccola sposa, crescesti:

man mano intrecciavi i capelli,

man mano allungavi le vesti.

 

Crescevi sott’occhi che negano

ancora; ed i petali snelli

cadevano: il fiore già lega.

 

Ma l’altro non crebbe. Dal mite

suo cuore, ora, senza perché,

fioriscono le margherite

 

e i non ti scordare di me.

 

III

 

Ma tu . . . ma tu l’ami. Lo vedi,

lo chiami. La senti da lunge

la fretta dei taciti piedi .