Nel Deserto

NEL DESERTO

di Grazia Deledda

PARTE PRIMA

I.

Un palmizio le cui foglie sembravano lame di spade arrugginite dal vento marino, sorgeva tra l’ultima casetta del villaggio e la landa che finiva col mare.

Il villaggio pareva disabitato, e ad accrescere quest’impressione non mancavano qua e là alcune rovine coperte di musco giallastro e popolato di lucertole. Anche i muri della casetta del palmizio e quelli del cortile che la fiancheggiava, si sgretolavano e si slabbravano; e intorno alle finestruole dalle imposte scolorite si scorgevano le pietre rossiccie.

Ma intorno era una infinita dolcezza di paesaggio orientale; nuvole rosse come fiamme solcavano il cielo verdognolo del crepuscolo, e fra una macchia e l’altra di tamerice appariva dietro la linea verde della brughiera e la linea dorata delle dune lo sfondo violetto del mare.

Qualche uccello palustre solcava l’aria col petto iridato che pareva riflettesse i colori del paesaggio e del mare, e la brezza aveva l’odore delle alghe e dell’asfodelo.

Come usava tutti i giorni a quell’ora, Lia Asquer uscì dalla casetta e andò a sedersi sotto il palmizio, sul sedile formato da un’asse corrosa appoggiata a due ceppi. La sua figura alta e magra, dalla fine testa araba, era all’unisono col paesaggio; anche i suoi capelli nerissimi, divisi sulla fronte come due ale di corvo, avevano riflessi metallici; e col suo viso ovale e scuro ove brillava il bianco dei grandi occhi neri pieni di sogni e di diffidenza e il candore dei denti alquanto sporgenti, ella sembrava una figlia di beduini nata sotto una palma.

Per quasi mezz’ora stette immobile, con le braccia incrociate, le mani sotto le ascelle, gli occhi fissi sulla linea del mare solitario: il grembiulino d’indiana le pendeva da un lato, sul sedile, la modesta gonna nera lasciava vedere i piedi sottili e arcuati nonostante le rozze scarpette a lacci.

Un lamento di fisarmonica attraversò all’improvviso il silenzio della brughiera, come un canto d’uccello, e Lia si scosse: lagrime di desiderio e di tristezza le brillarono negli occhi, e come la sera prima, come un anno prima, come da tanti anni, ella provò un senso di desolazione e le parve di essere in mezzo a un deserto, sola.

Ma a un tratto una donna in costume, alta, scarna, col viso jeratico circondato da una benda nera, uscì dalla casetta e s’avvicinò alla fanciulla.

- Una lettera per te, rosa mia! - disse con voce aspra, traendo di sotto il grembiule una busta turchina e guardandola con diffidenza.

- Ti pare che sia di quel matto di tuo zio Luisi?

Lia non tese subito la mano, ma spalancò gli occhi, fissando la lettera, e arrossì. Il cuore le batteva forte per l’emozione dell’insolito avvenimento.

La donna non staccava gli occhi dalla lettera e non si decideva a dargliela.

- Lia, consolazione mia, sei stata tu, a scrivergli?

- Io? Mai, zia! - rispose Lia con un gesto sdegnoso.

Allora la zia le diede la lettera e accorgendosi che il viso di Lia si illuminava e che il foglio le tremava fra le mani, domandò, cupa e quasi funebre:

- È proprio di Luisi? Che vuole? È sempre pazzo? S’è ricordato, finalmente, s’è ricordato di noi?

Lia rilesse la paginetta scritta con caratteri tremolanti, e all’improvviso, come una bimba colpita da un senso di gioia, si mise a ridere nervosamente, e afferrò il grembiale della donna.

- Ah, zia Gaina mia, che cosa curiosa! Oh, se sentiste! Egli mi invita ad andare a vivere con lui a Roma.

- Leggi, leggi!

Lia curvò la testa e rilesse a bassa voce:

« Cara nipote,

«Da molto tempo non ho vostre notizie…

- Ma se è lui che non scrive da cinque anni! - disse zia Gaina, lasciandosi sedere sul sedile.

«Solo, di tanto in tanto, qualche compaesano che capita qui mi parla dei miei parenti. So quindi che tu sei diventata alta e che sei intelligente e piena di buona volontà. Senz’altri preamboli vengo quindi a dirti che io mi terrei molto fortunato se tu decidessi di venire a farmi un po’ di compagnia. Vivo solo e da qualche mese sono andato in pensione: del tempo per accompagnarti a vedere la città me ne resta certo! Sarei contento che tu venissi, perché probabilmente io non tornerò più in Sardegna, e non vorrei andare a far visita al Creatore prima di aver conosciuto la mia unica nipote. Deciditi dunque. Ad ogni modo mi saprai dare presto una risposta; e con la speranza che questa sia favorevole, ti saluto di cuore pregandoti di ricordarmi agli altri parenti. Tuo zio

«LUIGI ASQUER».

La zia Gaina, dopo aver ascoltato immobile, fissando sul viso di Lia i suoi grandi occhi circondati da borse livide, si battè le mani sulle ginocchia.

- A Roma ti vuole! Adesso ti vuole, adesso che sei grande? Finchè sei stata piccola non si è ricordato mai di te; neppure quando morì tuo padre ti scrisse. Adesso che è vecchio avrà bisogno del decotto, alla sera, e penserà: ho una nipote povera che potrà servirmi g-r-a-t-i-s.

- Zia, non parlate così! - esclamò Lia con fierezza.