- Se qualcuno gli ha parlato di me non gli avrà certamente detto che sono un tipo di serva, io!
- Io lo conosco, il tuo zio Luisi, rosa mia! Son già venticinque anni che non lo vedo, ma certe persone non si dimenticano mai. Egli pensava solo a sè: quando tornava a casa, nelle vacanze, pareva che ci fossero tutti i diavoli. Mandava tutto in aria, e le sue sorelle, le mie povere cugine, obbedivano come schiave. Egli disprezzava tutto, parlava male di tutto, diceva che questo paese faceva parte dell’Africa. Del paese dei mori, capisci, rosa mia! Con tutto questo, venticinque anni or sono egli s’innamorò d’una donna di questo paese, sì, proprio del paese dei mori, e la chiese in moglie sebbene la sapesse fidanzata con un suo parente. E sai chi era quella donna, lo sai, rosa mia?
Lia guardava lontano, gli occhi corruscati. Ella sapeva già quella storia, e le dispiaceva di sentirla spesso profanata da commenti della zia Gaina: ma non osava discutere con la donna che non poteva capire certe cose.
- Quella donna era tua madre! Ma essa era una donna fina, e a Luisi Asquer, che possedeva denaro ed era impiegato governativo, preferì tuo padre, che era semplice proprietario. Ma tuo padre non era un egoista, Lia, consolazione mia; tuo padre era di animo buono, era generoso, tanto generoso che morì povero. E tua madre lo preferì a quel pazzerello che per dispetto non tornò più al paese e non scrisse più, non si fece più vivo. Soltanto adesso egli si ricorda di te. Ma tu, rosa mia, tu mi darai retta, e neppure gli risponderai. Lascia che egli muoia solo e abbandonato come una fiera nel deserto!
- Solo! - disse Lia, sprezzante. - Come può esser solo in una città come Roma? Non è il nostro villaggio!
- Anche tu ce l’hai col nostro villaggio! Sì, tu parli spesso come parlava lui. E allora va! Io non sono mai stata in quei posti, ma son certa che si sta peggio che qui: e se tu andrai son certa che ti pentirai subito… pensaci bene.
- Appunto: ci voglio pensar bene. Non sono una bambina; intanto, vi prego, non parlatene con nessuno.
- Io non sono abituata a chiacchierare con le vicine! - esclamò la donna; poi tacque e fece il muso lungo, come tutte le volte che si riteneva offesa.
Lia si alzò e si mise a passeggiare su e giù per il sentiero tracciato fra le macchie. Era ridiventata pallida, e la sua testa bendata dai capelli neri si disegnava fine e altera sullo sfondo roseo dell’orizzonte.
La zia la guardava con ostilità. Ella non aveva mai sperato nulla di bene da quella ragazza fredda e taciturna, che non domandava mai consiglio a nessuno. Eccola, adesso passeggia su e giù fra i cespugli, con le braccia incrociate sul petto, e deve aver già preso la decisione di andarsene, di abbandonare il paese natìo, la zia che l’ha allevata orfana e povera, di lasciar tutto, insomma, per correre presso un vecchio egoista, in una città piena di perdizione.
- E non muterà decisone, - pensava la zia Gaina, stringendosi le mani sotto il grembiale. -
Ella è testarda, e come suo zio, fa sempre il contrario di quel che le si consiglia: non c’è pericolo che dica quel che pensa!
Infatti Lia tacque, durante quell’indimenticabile sera, nè la zia, che pareva solo affaccendata a preparare il lievito per il pane dell’indomani, la interrogò oltre.
Mentre la donna versava il lievito nella corbula, e sopra la farina segnava col dito una croce, Lia rimise in ordine la cucina e la povera sala da pranzo che serviva anche da salotto di ricevimento, e chiuse porte ed usci con catenacci e spranghe, come se la casupola contenesse tesori: in ultimo prese un lume ad olio, salì la scaletta umida e scura, si ritirò nella sua camera ma non andò a letto.
Non aveva certamente sonno: i pensieri si incalzavano nella sua mente come le nuvolette bianche sul cielo chiaro di quella notte primaverile. Cautamente chiuse l’uscio che comunicava con la camera della zia, smoccolò il lume d’ottone che dondolava come un’arancia e si mise a scrivere.
Intorno a lei stese un cerchio d’ombra; e di tanto in tanto la camera bianca e nuda, arredata solo del lettuccio di legno, di un armadio nero e di un tavolinetto, pareva riempirsi di un lamento misterioso, talvolta flebile, talvolta ironico, sempre triste: era il canto del cuculo che penetrava attraverso la finestruola socchiusa.
Lia scriveva.
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