Egli, che nei suoi articoli dava consigli ai potenti della terra e insegnava come si devono governare i popoli, si sentiva incapace di educare un bambino: spesso, come aveva fatto quel giorno, parlava a Salvador di doveri, lo minacciava, lo supplicava come un uomo già fatto; ma si accorgeva che le sue parole gravi cadevano nell’anima lieta del bimbo come sassi nel mare.

Mentr’egli sentiva nella sua modesta colazione un sapore di veleno, Salvador, in cucina, già rideva e rifaceva i versi della signora Rosario.

Justo suonò, sollevò il viso severo e incontrò lo sguardo bieco della mulatta.

- Perchè il bambino fa chiasso?

- Perchè è cattivo.

- Fatelo tacere!

Ma dopo un momento le risate e i trilli gorgheggiarono ancora: per frenare la sua collera paterna, il vedovo passò nel salottino, si mise a fumare e pensò a Lia. Ella gli piaceva: si sentiva attirato a lei quasi da una affinità di razza, e l’affetto che ella dimostrava a Salvador era già un tenue filo che li univa attraverso uno spazio sconosciuto. Come avvicinarla? Come conoscerla? Questi quesiti gli fecero dimenticare il problema dell’educazione di Salvador. Lo calmarono e lo confortarono. Egli era già grato alla sua vicina per il peso che gli toglieva.

Nel cortile melanconico si spandeva il canto di Costantina che lavava i panni alla fontana: la sua voce cadenzata e nostalgica vibrava come un grido di prigioniero, e il suo stornello in dialetto logudorese ricordava i mori, le barche dei pirati, e diceva d’una dona «hermosa» che si affacciava a una «ventana» fiorita di «graveglios».

Justo, ascoltandola, pensava di nuovo ai suoi avi spagnuoli, ma con un senso di nostalgia, col desiderio di cambiar vita, di ricostruire l’edifizio rovinato della sua famiglia.

Anche sopra il cortile, sullo sfondo delle bianche e gialle nuvole di settembre, le rondini passavano e ripassavano, garrendo con gridi di richiamo, quasi per avvertirsi scambievolmente che era tempo di cambiar aria, di partire per lidi lontani.

*

S’inoltrava l’autunno, e Lia si sentiva vincere giorno per giorno da una melanconia insolita.

Lo zio Asquer quando non parlava degli stranieri, la fissava con uno sguardo cattivo, e vedendola sempre più magra e pallida muoveva le labbra per dire qualche cosa, ma poi si frenava e nello sforzo il suo viso si contraeva più del solito, con macabra ironia.

Se la nipote usciva sola, al ritorno erano domande aspre, dispettose, allusioni a un suo possibile incontro col vedovo; più di una volta ella trovò le sue poche carte smosse e capì che lo zio aveva frugato in cerca di qualche lettera amorosa. Ella invece evitava Justo, e se incontrava il piccolo Salvador lo abbracciava arrossendo, vinta da un turbamento puerile, come se il bimbo fosse l’uomo a cui ella, senza volerlo, pensava continuamente.

Un giorno, in ottobre, andò sola a Villa Borghese, e sedette accanto alla fontana, nel medesimo posto ove per la prima volta il suo sguardo s’era incontrato con quello di Justo. Nulla era mutato intorno: pareva fosse la stessa stagione, col cielo azzurro sparso di nuvolette bianche, gli stessi preti rossi sul verde dei prati, gli stessi tipi di sognatori attorno allo specchio verdastro della fontana: ma Lia si sentiva mutata e le pareva che l’autunno fosse dentro lei. Quante illusioni cadute!

Chiudendo gli occhi le sembrava di vedere la figura della zia Gaina, sotto il palmizio, e ne ascoltava ancora le profezie.

A un tratto, però, una fiamma le colorì il viso e il suo cuore cominciò a battere con violenza.

Salvador correva verso di lei e in fondo al viale sparso di foglie dorate si avanzava la figura attesa tante volte invano. Il bambino saltò sul sedile e le disse:

- Sono col mio papà: ti cercavano ed io sapevo ch’eri qui!

Lia lo strinse a sè mormorò qualche parola, ma senza sapere quello che si dicesse, colta da un senso di spavento. Le pareva di sognare: Justo le si era fermato davanti, l’aveva salutata, s’era seduto accanto a lei. Ella vedeva come attraverso un velo i grandi occhi di lui, d’un nero verdognolo, fissarla con curiosità e con bontà, distingueva le labbra di lui, un po’ pallide, i denti bianchi e forti ma alquanto irregolari, e pensava con terrore a quel che avrebbe detto lo zio Asquer se avesse saputo…

Ma a poco a poco si rinfrancò: Justo le parlava di cose indifferenti, le diceva che la governante aveva la febbre reumatica e che quindi gli toccava di farne le veci.

La sua voce velata e cadenzata e il suo accento che rassomigliava alquanto a quello dei veneti sembravano a Lia ironici e benevoli nel medesimo tempo, e non le dispiacevano.

- Non le pare che ci sia troppo umido, qui, signorina?

Ella si guardò attorno e rispose gravemente:

- Sì, forse c’è troppo umido.

Justo parve allarmarsi, come per un imminente pericolo; guardò Salvador e disse:

- Cerchiamo un altro posto.

Ma Lia non si mosse, fredda e rassegnata.

- Dovunque vada, in questa stagione c’è umido da per tutto…

- Le viene spesso qui, signorina?

- Sì… cioè no… Qualche volta!

- Questo è il suo posto favorito?

Ella pensò ancora allo zio Asquer, ebbe paura, poi si fece coraggio.

- Sì, - disse sottovoce.