« Caro zio,

«Ho qui davanti la vostra letterina e non mi stanco di leggerla e di rileggerla. Non so dirvi l’impressione che provo, mi pare di sognare, e sono così felice che ho paura di svegliarmi. Caro zio, vi prego di non sorridere di me e di non credermi tanto semplice o tanto ambiziosa come sembro; l’idea di venire a Roma e di conoscere un parente come voi mi riempie di gioia, non perchè io aneli alla vita della grande città, ma perchè mi dà la fervida speranza di cominciare una nuova vita e di rendermi finalmente utile a me stessa ed agli altri.

«Voi non mi conoscete ancora; quando mi conoscerete non vi pentirete certo di essere stato buono e gentile con me. No, non sono ambiziosa, e neppure romantica; ma sebbene non abbia mai conosciuto altro mondo che questo, qui io mi sento come isolata e spostata, fra gente troppo povera, troppo affaticata nella lotta per la vita per potersi permettere il lusso di amare e di aiutare il prossimo. Qui noi viviamo come devono vivere i selvaggi nel deserto; ciascuno pensa a sè, e tutti ci sentiamo poveri e soli, come smarriti in una immensità desolata. Per dire il vero, la terra dove viviamo è ingrata, e per farla produrre occorrono continui sforzi di volontà e di fatica: questo spiega come qui l’uomo, in lotta con la natura, con gli elementi, con gli altri uomini, non abbia tempo di aiutare il prossimo. I più intelligenti cercano di andarsene, come avete fatto voi, zio, e qui rimangono i deboli, i più poveri; mio padre era nel numero, e non riuscì mai a migliorare la sua condizione di piccolo proprietario: quando morì, tutto il suo patrimonio consisteva in questa casupola ed in una vigna mal coltivata. Adesso la vigna è distrutta dalla filossera e la casa cade in rovina. Quando mio padre morì, un anno dopo la morte della mamma, io avevo dodici anni: ero intelligente, leggevo, desideravo studiare, seguire almeno l’esempio di una mia compagna che frequentava la Scuola normale di Sassari, e che adesso è maestra e si guadagna da vivere; ma la zia Gaina, vedova anche lei da poco e che mi aveva preso con sè, non mi permise d’assentarmi dal paese.

«Voi forse ricorderete questa donna generosa, rigida, buona in fondo, ma fatta troppo

«all’antica». Se degli antichi ha la rettitudine, lo spirito di giustizia, l’istinto ospitale, tutte le buone qualità insomma, ne ha però anche tutti i difetti. Odia tutto ciò che rappresenta la civiltà e il progresso. Come una donna medievale è piena di superstizioni e di paure. Per lei tutto è peccato, tutto è perdizione; i libri sono oggetti spaventevoli; il mare segna una specie di barriera tra il nostro piccolo mondo ove, a suo parere, si rifugia ancora un po’ di virtù, e il mondo vero e grande dove, secondo lei, tutto è corruzione e inganno. Io invece amo la vita, sogno i luoghi ove gli uomini lavorano e si amano: ho letto i pochi libri che appartenevano al mio babbo, e l’eco del mondo arriva qui, portato da qualche giornale, eco grandiosa e vittoriosa come il rombo del mare agitato: per ciò fra me e la zia da anni e anni dura una specie di conflitto; siamo come due mondi che si urtano ogni volta che s’incontrano, e mentre io cerco di evitare questi cataclismi, la zia Gaina prende gusto a ricercarli. Il suo silenzio, poi, è più terribile dei suoi brontolii. Stasera, per esempio, dopo l’arrivo della vostra lettera, essa non ha più aperto bocca; ma capisco già la sua ostilità che nulla varrà a vincere. Dal canto mio la mia decisione è presa: verrò!

«D’altronde la zia Gaina è l’unica persona che veramente mi ami e che io ami veramente.

Compatisco i suoi difetti, frutto della sua ignoranza e non del suo carattere, e il pensiero di doverla lasciare, tanto più contro il suo volere, mi riempie già l’anima di tristezza e di rimorso.

«Ma ella sarà felice quando mi saprà felice: ella non vuole che il mio bene, ella che i ha veduto crescere orfana e sola e mi ha accompagnato nei giorni della tristezza. Io sarei una ingrata se disconoscessi i suoi benefizî; ma d’altra parte capisco che rifiutando il vostro invito mancherei al primo dovere che è quello verso me stessa. Io, qui, sono un essere incompleto, inutile a me stessa e agli altri. Non faccio niente perchè nessuno vuol niente da me: qui, voi lo sapete, il lavoro intellettuale è considerato come un perditempo: il lavoro manuale quasi come una vergogna. Io volevo almeno far la sarta, poichè non ho potuto fare la maestra, ma anche questo lavoro mi è stato proibito. Quando ho messo in ordine la casa e fatto il pane e rammendate le calze, il mio compito è finito; non mi resta che andare in chiesa, e ci vado perchè sono credente e amo Dio, ma sento che non è giusto e neppure nobile domandare l’aiuto del cielo per tutte le nostre miserie quotidiane, mentre potremmo evitarne tante con un po’ di buona volontà e d’iniziativa personale. Io, del resto, vado poco in chiesa perchè amo pregare all’aperto; forse voi ricorderete che dietro la nostra casetta c’è un orticello aperto che confina con la brughiera della spiaggia, e quasi in mezzo all’orticello c’è un palmizio: ebbene, quella è la mia chiesa, ed io sto ore ed ore sotto l’arco delle fronde pittoresche, davanti al quadro del mare e della landa, e prego come non so farlo davanti agli altari. Il cielo mi sembra la vôlta di un tempio eterno, e il sole, la luna, gli astri, le sole luci degne di illuminare l’altare del Dio grande ed invisibile che noi tutti sentiamo entro di noi…

«La zia Gaina dice che io faccio questo perchè amo andare contro corrente e fare il contrario di quel che fanno gli altri. Forse è vero, e questo è il mio maggiore difetto, ma credo sia anche un difetto di famiglia. Vi assicuro però, caro zio, che se una cosa è irragionevole io non mi ostino a volerla, anche se ne ho vivo desiderio.