Notte e giorno

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Titolo originale: Night and Day
Edizione e-book: gennaio 2012
©1996 Newton & Compton editori s.r.l
©2012 Newton Compton editori s.r.l
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-3906-0
Edizione digitale a cura di geco srl
Virginia Woolf
Notte e Giorno
Introduzione di Armanda Guiducci
Cura e traduzione di Pietro Meneghelli
Edizione integrale

Il percorso creativo di Virginia Woolf
Nel nostro secolo tanto ricco di ottime scrittrici (pensiamo solo a Karen Blixen, Marina Cvetaeva, Anna Achmatova, Katharine Mansfield, Simone de Beauvoir, Marguerite Yourcenar, tanto per una veloce citazione), Virginia Woolf resta, e resterà per qualche secolo di là dal «confine» del Duemila, la più grande scrittrice d'avanguardia del Novecento europeo fra Proust (che amava) e Joyce (che aborriva). Amava Proust (la cui lettura le era stata proposta in anteprima culturale dalla sua cerchia veramente progressista di Bloomsbury) per l’ampia gamma sottile e vibratile delle rifrazioni psicologiche nelle quali si dissolveva il personaggio tradizionale a contorni perfettamente chiusi, realistici, inafferrabile, ahimè, nella sua interiorità.
«L’aspetto individuale, i segni caratteristici sono realtà puerili. Sotto di essi tutto è buio, diffuso, insondabilmente profondo» (Gita al faro). Aborriva Joyce per i suoi «vortici di oscenità». L'amica scrittrice K. Mansfield le aveva portato da visionare l’Ulysses informa di scartafaccio, convinta si trattasse di un testo straordinario.
Una attività critica intensa e ininterrotta, iniziata fin da giovanissima, la condusse a meditare sui problemi della letteratura e a chiarire a se stessa le ragioni della propria poetica, commisurandola sul solido blocco della tradizione letteraria inglese, e la portò ben presto alla audace convinzione che il romanzo tradizionale di fattura ottocentesca non corrispondesse più né alla realtà mutata del Novecento né, soprattutto, all'essere umano mutato. «Il carattere umano è mutato», scriveva nel dicembre 1910, «si è fatto frammentario ed elusivo. »
Nel '22 Virginia ruppe gli ormeggi, si lanciò; e scrisse, dedicato a Thoby, l’amato fratello morto, La camera di Giacobbe. Aveva già dolorosamente varato (sette stesure fra una minaccia e l'altra di follia), forse con l'occhio a Jane Austen, che ammirava, un romanzo del tutto tradizionale: La crociera e, poco dopo, Notte e giorno, uscito a filo con la guerra mondiale, nel 1919, il cui tradizionalismo indignò molto K. Mansfield (non era più possibile scrivere così, dopo una guerra che aveva sconvolto il mondo!), ma che per lei, Virginia, rappresentarono un banco di prova, una sfida estrema al grande romanzo realistico, per lei incarnato al suo top in Tolstoj: era lei in grado di padroneggiare la tradizione realistica classica del romanzo inglese? Può essere anche che quel rifarsi alla tradizione realistica classica dei suoi esordi abbia rappresentato per lei una solida sporgenza cui aggrapparsi nelle crisi depressivo-maniacali che la perseguitarono dal '13 al '15, per due anni dopo il matrimonio con Léonard Woolf.
La crociera e Notte e giorno, anche se prolissi (specie Notte e giorno) tutt'altro che privi di bellezza alla lettura, specie La crociera con le sue scene di delirio allucinatorio, vanno considerati due fasi del pervicace, ostinato processo di autorealizzazione di Virginia in scrittrice fra una crisi e l’altra a tendenza suicida. Sotto questo aspetto, essa fu, fino al fatale 1941, un'eroina: presentiva tutto l'orrore della perdita della lucidità, la terrifica minaccia della follia disgregatrice, lottò sempre con il costruirsi una identità di scrittrice sempre più salda e mediante la creatività. «Il pieno uso delle nostre facoltà significa felicità. »
Gli anni fra il '15 e il '22 furono dunque un periodo cruciale di trasformazione della Woolf da aspirante scrittrice in scrittrice. Allorché scrisse secondo il realismo tradizionale i suoi primi due libri era tuttavia già in pieno conflitto con se stessa. Mentre scriveva Notte e giorno si era chiesta -a proposito dei romanzi impeccabilmente confezionati secondo verosimiglianza - «fatica sprecata giacché oscura e tarpa la luce dell'ispirazione» -: «E’ proprio così la vita? Devono essere proprio così i romanzi?».
Nei racconti Lunedì o martedì del '21 che, con sua gran felicità, piacquero molto al suo amico poeta T.S. Eliot, aveva incominciato a costruire secondo quell'approccio lirico obliquo che avrebbe generato poi il sottile, inconfondibile tremito poetico delle sue pagine future. La propria voce la trovò in La camera di Giacobbe, dopo venti anni che l'andava cercando. Aveva ormai 40 anni.
Come Joyce, ma senza supporlo, Virginia considerava la «trama», tanto più se avvincente (come in Conrad), una «volgarità da giornalisti» e il primo suo passo in senso sperimentale fu ne La camera di Giacobbe il fratturare la trama. Scritto con l'evidente scopo di dimostrare che Jacob Flanders, il protagonista, era inconoscibile, il libro assembla una raccolta di frammenti-ricordo (attinti alla vita dell'amato fratello morto Thoby): Jacob bambino che gioca sulla spiaggia, Jacob a Cambridge, a pranzo, in Grecia, nella biblioteca del British Museum, e così via. Gli avvenimenti principali, come la morte di Jacob nella prima guerra mondiale, non vengono menzionati, devono essere dedotti dai loro effetti secondari: così, la madre di Jacob insieme all'amico di Jacob, Bonamy, ne svuotano la stanza e non sanno più che farsene delle sue scarpe. Nel destino di Jacob è implicita una domanda: ma dove conduce questa civiltà guerrafondaia? Dobbiamo accontentarci di frammenti e di ombre, vuole amaramente qui dirci la scrittrice, giacché noi non siamo che ombre e amiamo disperatamente esseri che non sono altro che ombre. «La vita non è che una processione di ombre e Dio solo sa perché le abbracciamo tanto ardentemente e le vediamo scomparire con tanta angoscia, dato che sono ombre.» La scrittrice vuole qui renderci visibile che dobbiamo accontentarci di ombre e di frammenti: tale è la condizione tragica del nostro amore sulla terra.
Verso il '20 la Woolf aveva già elaborato una propria visione della vita e dell'io, che comportarono la scelta formelle del monologo interiore, atto a fluidificare le rigide forme scandite del romanzo realistico e a umanizzarne i personaggi, permettendo al romanziere di penetrarne l'interiorità altrimenti inattingibile, celata com'era dietro il luccichio dei bottoni della giacca o dello sparato, celata cioè dietro l'aspetto esteriore dell'io tutto proteso sul mondo fisico e sociale. Esiste, pensava la Woolf, un aspetto esteriore dell'io, quasi fosse un guscio plasmato dalle passioni famigliari e personali, la personalità, affacciato sull'esperienza e sul tempo che lo cangiano e lo modificano, il passato premendo sul presente e il presente sul passato. Ma fluidi e cangianti sono in realtà i contorni dell'io. «Io sono fatta e rifatta continuamente», dice Susan ne Le onde. Secondo la Woolf i personaggi dei romanzi realistici tradizionali erano costruiti in base a una nozione troppo superficiale dell'io umano.
I personaggi di Virginia Woolf raramente sono racchiusi in contorni precisi. Aleggia intorno a loro un senso d'inesplicabile e di mistero. La Woolf intese simultaneamente esprimere sia il mutamento che la continuità dell'identità individuale - e li espresse nei Ramsay di Gita al faro, ne La signora Dalloway, nei sei personaggi de Le onde. Come in Joyce che, nonostante il parere contrario dell'amica K. Mansfield e del ben più autorevole amico T.S. Eliot, Virginia continuò tuttavia a disprezzare come «un manovale autodidatta che si schiaccia i brufoli», l'innovazione formale sostanziale della Woolf fu, in definitiva, quella del monologo interiore, del flusso di coscienza, che le permetteva meravigliosamente di esplorare l'interiorità dei personaggi: ricordi, desideri, sogni... I personaggi, con una duplice, e logorante, tensione della scrittrice, potevano adesso essere simultaneamente veduti sia nel loro aspetto esteriore che nella più difesa intimità del loro essere.
Questo modo di trattare i personaggi fu perfino più avanzato di quello di Joyce. «Noi siamo zebrati, multicolori», sosteneva la Woolf. E a ragione: molte presenze invisibili, a volte fantasmatiche, interferiscono con il nostro io più segreto, interiore, (e sono anzi proprio loro a stabilizzare la continuità della nostra identità), lo striano, lo zebrano, lo rendono multicolore.
Nell'uso del monologo interiore, da signora raffinata quale era e non amante della psicanalisi, scansò le melmose pozze dell'Es nelle quali Joyce aveva fatto profondamente affondare Leopold Bloom e Molly Bloom, generando quei «vortici d'oscenità» che lo avevano reso tanto sgradevole alla Woolf
E, quanto alla sua personale visione della vita, Virginia la espresse in un articolo del 19, oggi famosissimo: Modem Fiction: «Esaminiamo per un momento una mente comune in un giorno comune.
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