Essa riceve una miriade di impressioni — banali, fantastiche, evanescenti o scolpite da una punta d'acciaio - che le provengono da tutte le parti. È come una pioggia incessante di atomi... Registriamo gli atomi così come essi cadono sulla mente e nell'ordine in cui cadono, tracciamo il disegno, per quanto sconnesso o incoerente sia all'apparenza, che ogni immagine o incidente incide sulla coscienza».

La forma non era dunque prescrivibile e, infatti, la Woolf continuava: «Se lo scrittore potesse basare il suo lavoro sui suoi sentimenti e non sulle convenzioni, non ci sarebbero più trame né commedie, né tragedie, né storie d'amore, né catastrofi, alla maniera precostituita. La vita non è una serie di lampioni piantati in forma simmetrica, è un alone luminoso semitrasparente che avvolge la nostra coscienza dall'inizio alla fine. E non è forse compito del romanziere saper rendere questa qualità fluttuante, inconoscibile, inafferrabile, con il minimo intervento di ciò che è sempre esterno ed estraneo?».

Intorno al '24 Virginia giunse all'acme della ribellione contro il romanzo tradizionale modellato da tutta una stirpe maschile, e nel contempo prese piena, orgogliosa coscienza che il suo talento era decisamente femminile, poetico e lirico, con radici in una ipersensibilità in grado di folgorarla in momenti eccezionali con piccole epifanie, piccole rivelazioni del «disegno nascosto» dietro il non essere, cioè dietro l'ottuso spessore delle apparenze della realtà quotidiana. Scrivere era per lei la «grande gioia» di poter rendere reale per mezzo di parole il disegno celato dietro il non essere - disegno nel quale tutti noi esseri umani rientriamo in quanto parte del mondo, mondo che «è un'opera d'arte» di cui «noi siamo le parole, siamo la musica». Presa coscienza della natura, femminile e poetica, del proprio talento, Virginia decise di scrivere secondo quanto lei, donna e «sopraffatta dalla poesia della vita», sentiva la vita: «un alone luminoso avvolgente la coscienza», senza più farsi ricattare, per sfide concorrenziali di parità con l'uomo, dai modelli maschili di romanzo.

Frattanto fin dal '23 aveva preso sempre più vita nella sua immaginazione una figura femminile: Clarissa Dalloway. Clarissa, una signora dei quartieri alti londinesi, le richiamava tutta una serie di amiche aristocratiche che l'avevano affascinata per la loro grazia, elegante disinvoltura, «quasi esseri che si muovessero in un mondo superiore». La signora Dalloway fu per la Woolf una tappa di grande importanza: fu il primo romanzo nel quale, senza più problemi o complessi d'inferiorità, essa attinse alla grande riserva della sua esperienza femminile, e si abbandonò alla propria vena lirica, anzi elegiaca. In Clarissa Dalloway, sulla cinquantina, che, indebolita da una malattia, avverte dolorosamente il passare del tempo e della vita, vita che lei ama intensamente, la Woolf trasfuse il proprio senso di estasi di fronte alla vita e la propria intensa consapevolezza di ogni attimo vissuto. Clarissa si appiglia con tutti i sensi alla pienezza di ogni attimo vissuto per combattere il doloroso sentimento della vita come un graduale processo di perdita e di compromesso. Dedica una giornata alfine di creare una serata di vita splendida - informa di ricevimento - per i suoi amici: una creatività tipica della vita femminile tutta tesa a intessere rapporti.

Nel clou del suo ricevimento serale, Clarissa, vestita di verde e di argento, si muove come una sirena nelle onde e, in quel felice fluttuare fra la gente, riconosce dentro di sé con gioia: «ancora possedeva quel dono: di essere, esistere, e tutto riunire nell'attimo fuggente».

A non gran distanza dal risplendente salotto di Clarissa si aggira, disperato, in preda alle forze del caos e della follia, a visioni allucinatorie, un certo Septimius Warren Smith, reduce di guerra. Il romanzo è costruito sulla continua contrapposizione fra l'amore estatico di Clarissa per la vita e l'impulso di morte di Septimius - e nasce di qui la sua straordinaria ricchezza.

La signora Dalloway continua il ricevimento anche dopo avere saputo del suicidio di Septimius, non già per cinismo ma per riaffermare la vita e la creatività contro la morte e la distruzione. In La signora Dalloway Virginia inaugurò il suo personale e originale modo di narrare: la pioggia impressionistica degli atomi sulla mente umana.

Quasi tutto quello che narrava era un riflesso di piccoli fatti insignificanti sulla coscienza ondeggiante e cangiante dei personaggi, la quale, come un prisma toccato dalla luce, rimandava rifrazioni e dissolvenze. Ne sortiva davvero un senso della vita come di un palpitante alone luminoso. Il tempo non ha offuscato questa scrittura così leggera, ritmata sull'onda, screziata di immagini. Quando l'ebbe terminato di scrivere, la Woolf annotò sul suo diario: «Ora posso scrivere, e scrivere e scrivere». Aveva ormai abbracciato in pieno, sentiva, il proprio punto di vista femminile.

Il libro uscì nel 1925 e nello stesso anno Virginia cominciò a scrivere Gita al faro, libro considerato il suo capolavoro e che uscì due anni dopo.

L'altro passo in avanti della Woolf fu di spezzare, mediante una satira fantastica, la rigida connessione sociale fra identità sessuale e ruolo. E lo fece col dipingere un brillante e rocambolesco ritratto di Orlando, ora uomo, ora donna, ritratto ispiratole da Vita Sackville-West, una aristocratica lesbica che si era presa di lei e la cui gran classe e casata la affascinavano. Ora uomo, ora donna, Orlando fra mille peripezie attraversa vari secoli della storia e cultura inglese dal tempo della regina Elisabetta al diciannovesimo secolo. L'autrice, in sostanza, in Orlando difese l'androginia dell'essere umano, la nostra ambiguità sessuale (gli aspetti maschili e femminili conviventi in ciascuno di noi).

Intarsiato di echi mimetici della letteratura inglese dagli elisabettiani in poi, ricco di ironia nel rappresentare gli effetti dei condizionamenti sociali sul comportamento umano ritenuto innato, il libro riuscì insieme divertente e prezioso e riscosse un successo che la Woolf non aveva mai avuto.

In Una camera tutta per sé Virginia impastò insieme nel '29 due conferenze sul tema: «Le donne e la narrativa», tenute nel '28 alle studentesse di Cambridge nelle quali aveva rivisto tutte le proprie incertezze giovanili. Disse loro duramente di procurarsi una indipendenza economica, 500 sterline al mese, e una camera tutta per sé al fine di scrivere con la concentrazione necessaria e trattò i limiti imposti alla creatività femminile dalla dipendenza economica e morale dall'uomo e dalla mancanza di cultura. Le esortò a scrivere in quanto donne, orgogliose di esserlo, ma (come avevano già detto Joyce ed Eliot) uscendo dal personale. Dovevano, sì, scrivere da donne, non dimenticando però che la mente dell'artista è androgina, come aveva sostenuto Coleridge. Il segno del femminile veniva dunque invertito: da qualifica (letteraria) degradante diventava quello «specifico femminile» che, pago di sé, distingue alla pari le creazioni della donna da quelle dell 'uomo. Era pubblicamente nata, a filo col Trenta e con il fascismo dilagante in Europa, la Woolf scrittrice femminista.

Virginia, figlia di una famiglia politicamente conservatrice dell'alta borghesia londinese, aveva acquisito una sensibilità femminista durante gli anni dal '10 al '20, età classica delle suffragette a Londra, a causa dei contatti con donne di varia estrazione sociale impegnate nella battaglia per il voto politico alle donne - e la spinta più decisiva le venne, ritengo, dalla sua modesta e adorata maestra di greco, Janet Case.

Il femminismo in lei attecchì su una sofferenza antica: il suo senso di esclusione, di oppressione, il suo odio per la società patriarcale, il suo essersi fin da ragazzina ritenuta una vittima di quest'ultima.

Perciò, nel 1933, scrivendo Flush, dipinse a meraviglia, tramite gli occhi di Flush, il cagnolino della grande poetessa Elizabeth Barrett-Browning reclusa domestica di un padre-patriarca oppressivo, quel mondo dell'oppressione patriarcale di cui lei stessa aveva tanto sofferto e vi espresse il proprio anelito alla fuga.

Nel '36-'37 mentre iniziava la guerra civile spagnola e si avvicinava l'incubo della guerra con la Germania nazista, Virginia congedò un nuovo romanzo: Le onde, questa volta non più basato sui monologhi interiori bensì sugli spazi mentali, espressi mediante «recitativi» o soliloqui drammatici, di sei personaggi ben distinti nella loro individualità, dall'autrice seguiti attraverso i vari stadi della vita per mostrarne gli elementi simili nella dinamica delle esistenze.

Il senso? Come un'onda è inseparabile dal mare, ciascuno di noi, unico ma inseparabile dal resto dell'umanità, è un'onda nello scorrere della vita e dell'eternità. Le onde rende il senso della vita, del tempo e del mutamento come lo intendeva la Woolf, e affronta il tema della mortalità. Echeggiando tutta la liquidità del mare, il romanzo, volutamente e totalmente privo di fatti e impersonale, è un grandioso intreccio polifonico di recitativi che, non distinguendosi l'uno dall'altro per accenti particolari, rischia tuttavia una certa monotonia. Nel suo romanzo successivo, Gli anni, con una brusca svolta dovuta forse al tragico imporsi della Storia e di una seconda guerra mondiale, Virginia si aggrappò a quei «fatti» che disprezzava tanto - «i crudi fatti» - e tentò una dimensione storica: il romanzo segue i figli del Colonnello e della signora Pargiter dal 1880, in piena età vittoriana e patriarcal-paterna, fino al 1936, e mostra come man mano la vita abbia perso i suoi caratteri convenzionali e come i due grandi fatti storici liberatori della oppressione patriarcale delle donne: la guerra e l’emancipazione femminile, le abbiano impresso una sorta di evoluzione. Ma la scrittura lirico-poetica della Woolf non era fatta per aggredire i fatti storici.