In villa, furono accolti con uno strepitoso sparo di mortaretti e grida festose e battimani. Ma l'aspetto e il contegno della sposa raggelarono tutti i convitati, per quanto ella si provasse anche a sorridere a quella buona gente, che intendeva farle festa a suo modo, come usa negli sposalizi. Chiese presto licenza di ritirarsi sola; ma nella camera in cui aveva dormito durante la villeggiatura, trovando apparecchiato il letto nuziale, s'arrestò di botto, su la soglia: - Lì? con lui? No! Mai! Mai! - E, presa da ribrezzo, scappò in un'altra camera: vi si chiuse a chiave; cadde a sedere su una seggiola, premendosi forte, forte, il volto con tutt'e due le mani. Le giungevano, attraverso l'uscio, le voci, le risa dei convitati, che aizzavano di là Gerlando, lodandogli, più che la sposa, il buon parentado che aveva fatto e la bella campagna. Gerlando se ne stava affacciato al balcone e, per tutta risposta, pieno d'onta, scrollava di tratto in tratto le poderose spalle. Onta sì, provava onta d'esser marito a quel modo, di quella signora: ecco! E tutta la colpa era del padre, il quale, per quella maledetta fissazione della scuola, lo aveva fatto trattare al modo d'un ragazzaccio stupido e inetto dalla signorina, venuta in villeggiatura, abilitandola a certi scherzi che lo avevano ferito. Ed ecco, intanto, quel che n'era venuto. Il padre non pensava che alla bella campagna. Ma lui, come avrebbe vissuto d'ora in poi, con quella donna che gl'incuteva tanta soggezione, e che certo gliene voleva per la vergogna e il disonore? Come avrebbe ardito d'alzar gli occhi in faccia a lei? E, per giunta, il padre pretendeva ch'egli seguitasse a frequentar la scuola! Figurarsi la baja che gli avrebbero data i compagni! Aveva venti anni più di lui, la moglie, e pareva una montagna, pareva... Mentre Gerlando si travagliava con queste riflessioni, il padre e la madre attendevano a gli ultimi preparativi del pranzo. Finalmente l'uno e l'altra entrarono trionfanti nella sala, dove già la mensa era apparecchiata. Il servizio da tavola era stato fornito per l'avvenimento da un trattore della città che aveva anche inviato un cuoco e due camerieri per servire il pranzo. Il mezzadro venne a trovar Gerlando al balcone e gli disse: - Va' ad avvertire tua moglie che a momenti sarà pronto. - Non ci vado, gnornò! - grugnì Gerlando, pestando un piede. - Andateci voi. - Spetta a te, somarone! - gli gridò il padre. - Tu sei il marito: va'! - Grazie tante... Gnornò! non ci vado! - ripeté Gerlando, cocciuto, schermendosi. Allora il padre, irato, lo tirò per il bavero della giacca e gli diede uno spintone. - Ti vergogni, bestione? Ti ci sei messo, prima? E ora ti vergogni? Va'! È tua moglie! I convitati accorsero a metter pace, a persuadere Gerlando a andare. - Che male c'è? Le dirai che venga a prendere un boccone... - Ma se non so neppure come debba chiamarla! - gridò Gerlando, esasperato. Alcuni convitati scoppiarono a ridere, altri furono pronti a trattenere il mezzadro che s'era lanciato per schiaffeggiare il figlio imbecille che gli guastava così la festa preparata con tanta solennità e tanta spesa. - La chiamerai col suo nome di battesimo, - gli diceva intanto, piano e persuasiva, la madre. - Come si chiama? Eleonora, è vero? e tu chiamala Eleonora. Non è tua moglie? Va', figlio mio, va'... E, così dicendo, lo avviò alla camera nuziale. Gerlando andò a picchiare all'uscio. Picchiò una prima volta, piano. Attese.
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