Otello
WILLIAM SHAKESPEARE
OTELLO
Tragedia in 5 atti
Traduzione e note di Goffredo Raponi
Titolo originale: “OTHELLO, THE MOOR OF VENISE”
NOTE PRELIMINARI
1) Il testo inglese adottato per la traduzione è quello dell’edizione curata dal prof. Peter Alexander (William Shakespeare, The Complete Works, Collins, London & Glasgow, 1960), con qualche variante suggerita da altri testi, in particolare quello della più recente edizione dell’“Oxford Shakespeare” curato da G. Wells e G. Taylor per la Oxford University Press, New York, 1988/94. Questa comprende anche “I due cugini” (“The Two Kinsmen”) che manca nell’Alexander.
2) Alcune didascalie e indicazioni sceniche (“stage instructions”) sono state aggiunte dal traduttore per la migliore comprensione dell’azione scenica alla lettura, cui questa traduzione è essenzialmente intesa ed ordinata. Si è lasciato comunque invariata, rispettivamente all’inizio e alla fine di ciascuna scena, la rituale indicazione “Exit/Exeunt”, avvertendo peraltro che non sempre essa indica movimenti di entrata e uscita, potendosi dare che i personaggi cui si riferisce o si trovino già in scena all’inizio di questa, o vi restino al termine.
3) Il metro è l’endecasillabo sciolto, alternato da settenari. Altro metro si è adottato qua e là per canzoni, strofette, citazioni di diversa natura, particolari linguaggi dei protagonisti, ecc., dovunque, insomma, si doveva far sentire, anche in armonia col testo, uno scarto di stile.
4) I nomi dei personaggi sono tutti italiani nel testo dell’“Otello”, e quindi non esiste qui, come invece in tutte le altre opere teatrali di Shakespeare, il problema della loro italianizzazione.
5) Dalla detta edizione dell’Alexander è anche riprodotta la divisione in atti e scene (che, com’è noto, non si trova nell’in-folio, ma è stata elaborata, con l’elenco dei personaggi, da diversi curatori nel tempo, con varianti talvolta cospicue).
6) Il traduttore riconosce di essersi avvalso di traduzione precedenti, in particolare della prima traduzione poetica di Giulio Carcano (Bietti, Firenze, 1858), di quelle del Lodovici (Einaudi, 1960), del Bandini (Rizzoli, 1963-1981), e del Melchiori (Mondadori, 1976-1989), dalle quali ha preso in prestito, oltre alla interpretazione di passi controversi, intere frasi e costrutti, dandone opportuno credito in nota.
PERSONAGGI
IL DOGE DI VENEZIA
BRABANZIO, senatore, padre di Desdemona
GRAZIANO, fratello di Brabanzio, nobile veneziano
LODOVICO, parente di Brabanzio, nobile veneziano
OTELLO, detto “Il Moro”, condottiero al servizio della Repubblica veneta
CASSIO, suo luogotenente
JAGO, suo alfiere
RODERIGO, giovane gentiluomo veneziano
MONTANO, predecessore di Otello al governo di Cipro
Un BUFFONE, al servizio di Otello
DESDEMONA, figlia di Brabanzio
EMILIA, moglie di Jago
BIANCA, prostituta, amante di Cassio
Un ARALDO
Senatori (membri del Consiglio dei Dieci), gentiluomini di Cipro, marinai, ufficiali, messaggeri, musici, persone del seguito.
SCENA: a Venezia il primo atto, a Cipro gli altri.
ATTO PRIMO
SCENA I
Venezia, una strada. Notte.
Entrano JAGO e RODERIGO
RODERIGO - Non dirmelo. L’ho assai per male, Jago,
che tu, ch’hai sempre avuto la mia borsa
a tua disposizione, come tua,([1])
sapevi questo, e me l’hai sottaciuto.
JAGO - Sangue di Cristo,([2]) ascoltami, ti prego,
Roderigo: se avessi sol sognato
che avesse mai a succedere tanto,
avresti pur ragione di schifarmi.
RODERIGO - M’hai detto sempre che l’avevi in odio.
JAGO - E se non è così, sputami in faccia!
Tre grossi calibri della città
si sono scomodati di persona
per andare umilmente a supplicarlo,
e facendogli tanto di cappello,
che mi facesse suo luogotenente;
e io so quanto valgo, in fede d’uomo,
e che non merito meno di tanto.
Ma, compreso com’è dalla sua boria
e da chissà quali secondi fini,
egli sfugge abilmente alla richiesta
con ampollosi giri di parole
imbottiti di termini guerreschi;
e insomma, rende non luogo a procedere
le suppliche dei miei patrocinanti.([3])
“Il mio secondo - dice - l’ho già scelto”([4])
E chi è costui?... Un insigne contabile,([5])
tale Michele Cassio, fiorentino,
uno che si baratterebbe l’anima
per correr dietro ad una bella moglie;([6])
uno che non ha mai schierato in campo
una manciata d’uomini,
e sa studiare un piano di battaglia
non più di quanto sappia una zitella.
Conosce le teorie scritte nei libri
su cui sa dissertare come lui
un qualunque togato consigliere:([7])
tutte parole, ma nessuna pratica.
È tutta qui la sua perizia bellica;
e intanto, caro mio, è lui il prescelto.
Ed io, che il Moro ha visto coi suoi occhi
alla prova dell’armi a Rodi, a Cipro,
e in altre terre cristiane e pagane,
debbo star sottovento ed in bonaccia([8])
agli ordini d’un vile conta-soldi,
d’un libro mastro del dare e l’avere.
Lui senz’arte né parte,
dev’esser fatto suo luogotenente,
e il sottoscritto, che Dio ci abbia in gloria, ([9])
resta l’alfiere di Sua Negreria.([10])
RODERIGO - Il boia che gli metta il cappio al collo
avrei voluto essere, piuttosto!
JAGO - Mah, che voi farci, ormai non c’è rimedio.
È la maledizione del servizio:
la promozione si fa per scartoffie,
per simpatia, non già, come una volta,
per un criterio di gradualità
onde il secondo succedeva al primo.
Perciò, mio caro, giudica da te
se esista un ragionevole motivo
ch’io mi possa sentir legato al Moro.
RODERIGO - Se fossi in te, non lo seguirei più.
JAGO - Ah, se mi curo ancora di seguirlo,
puoi star sicuro, è solo per rivalsa.
Tutti non si può essere padroni;
ma non è manco detto che i padroni
si debbano seguire fedelmente.
Li avrai visti anche tu certi bricconi
leccapiedi dalle ginocchia a uncino,([11])
fanatici di fare ognora mostra
del lor cerimonioso servilismo,
che vivon consumando tutto il tempo
a fare gli asini dei lor padroni
per una brancatella di foraggio,
e, appena vecchi, sono licenziati.
Questi onesti babbei, per conto mio,
si meritano solo le frustate.
Ce n’è però di tutta un’altra tacca,
che, azzimati e attillati,
il volto sempre atteggiato all’ossequio,
son bravissimi a farsi i fatti loro;
essi, sbattendo in faccia ai lor padroni
solo la mostra dei loro servigi,
si fanno prosperi alle loro spalle;
e, quando si son bene impannucciati,
badano solo ad ossequiar se stessi.
Quelli sì che son gente di carattere;
ed io mi sento d’essere dei loro:
ché, com’è vero che sei Roderigo,
così è sicuro che s’io fossi il Moro,
non vorrei esser Jago.([12])
A seguir lui, seguo solo me stesso;
e lo faccio - mi sia giudice il Cielo -
non certo per amore o per dovere,
anche se all’apparenza sia così,
ma per mio tornaconto personale;
ché se l’esterno mio comportamento
dovesse rivelar gli interni moti
e la vera natura del mio animo,
non passerebbe molto, t’assicuro,
che porterei cucito sulla manica
il cuore, a farmelo beccar dai corvi.
Io non son dentro quel che sembro fuori.([13])
RODERIGO - Che fortuna però, questo labbrone,([14])
che gli riesce tutto così bene!
JAGO - Va’ dal padre di lei, chiamalo, sveglialo,
montalo contro il Moro,
avvelena a costui la sua goduria!
Gridalo per le strade a sua vergogna!
Infiammagli l’intero parentado,
infestagli di mosche fastidiose
il dolce clima ch’egli ora respira!
Mettigli addosso tanti grattacapi
da fargli perdere un po’ di colore.
RODERIGO - Suo padre abita qui. Ora lo chiamo.
JAGO - Sì, con voce allarmata e urlando forte,
come di chi scoprisse all’improvviso
divampare un incendio in piena notte,
in una gran città, che sia scoppiato
per colpa d’una qualche negligenza.
RODERIGO - (Chiamando sotto la finestra di Brabanzio)
Ohi, Brabanzio! Oh, oh, signor([15]) Brabanzio!
Svegliatevi, Brabanzio! Al ladro! Al ladro!
Guardatevi la casa e vostra figlia,
ed i vostri forzieri! Al ladro, al ladro!
Appare BRABANZIO alla finestra
BRABANZIO - Che bailamme è questo? Che succede?
Che è questa chiamata?
JAGO - Le vostre porte sono ben serrate?
BRABANZIO - Perché? Perché volete saper questo?
JAGO - Sangue di Cristo,([16]) v’hanno derubato!
Su, mettetevi addosso qualche cosa,
santa decenza!... Vi scoppierà il cuore,
ché v’hanno svaligiato di mezz’anima.
In questo istante, adesso proprio adesso,
un vecchio capro nero di colore
sta montando la vostra bianca agnella!
Sveglia! Sveglia, suonate la campana,
svegliate tutta la città che russa,
prima che il diavolo vi faccia nonno...
Alzatevi, vi dico, su, alla svelta!
BRABANZIO - Si può sapere, insomma, che succede?
Siete pazzi?
RODERIGO - Onorevole signore,
non la riconoscete la mia voce?
BRABANZIO - Io, no. Chi sei?
RODERIGO - Mi chiamo Roderigo.
BRABANZIO - Che ti colga il peggiore dei malanni!
T’ho già detto che non vo’ più vederti
a ronzare qui intorno a casa mia;
e t’ho pure avvertito, chiaro e tondo,
che mia figlia non è roba per te!
E adesso tu, con le budella sazie
di cibo e d’eccitanti libagioni
te ne vieni a turbare la mia quiete
con questa tua maliziosa bravata!
RODERIGO - Ma, signor mio... signore...
BRABANZIO - Bada, veh,
che col mio spirito ed il mio rango,([17])
posso ben fartela pagare cara!
RODERIGO - Pazienza, buon signore...
BRABANZIO - Di quali ladrerie vai blaterando?
Questa è Venezia, e questa è la mia casa,
non una masseria fuori di mano.
RODERIGO - Reverendissimo signor Brabanzio,
dovete credermi, vengo da voi
in purità e semplicità di cuore.
JAGO - Per le piaghe di Cristo, monsignore,
voi siete, a quanto pare, uno di quelli
che si rifiutan di servire Dio
solo perché gliel’ha ordinato il diavolo!
Poiché veniamo a rendervi un servigio,
e voi ci ritenete dei furfanti,
correte il rischio d’aver vostra figlia
copulata da uno stallone berbero,
e ritrovarvi intorno dei nipoti
che vi faranno tanti bei nitriti,
e puledri e ginnetti per parenti.
BRABANZIO - Oh, sboccato villano! E tu chi sei?
JAGO - Son uno ch’è venuto ad avvertirvi
che vostra figlia e il Moro, in questo istante,
stanno facendo la bestia a due groppe.
BRABANZIO - Sei un villano!
JAGO - E voi un senatore.
BRABANZIO - Roderigo, dovrai rendermi conto
di questo, perché io conosco te.
RODERIGO - Son pronto a rendervi conto di tutto;
ma ditemi, vi supplico, signore,
s’è col vostro paterno beneplacito
e col vostro savissimo consenso
- come mi pare di poter pensare -
che vostra figlia se ne vada fuori
in quest’incerta e buia ora notturna,
da non migliore scorta accompagnata
che quella d’un birbante prezzolato,
un gondoliere, e si vada a concedere
ai turpi amplessi d’un lascivo moro.
Se di tanto voi siete a conoscenza,
e ne siete perfino consenziente,
allora noi v’abbiamo fatto torto,
da gente spudorata ed importuna.
Ma se ne siete del tutto all’oscuro,
allora le civili mie maniere
mi dicono che avete torto voi
a trattarci con una tal sgridata.
Non crediate che, contro ogni creanza,
mi prenderei l’ardire di scherzare
alle spese di vostra reverenza.
Vi dico e vi ripeto: vostra figlia,
se non le avete dato voi licenza,
ha commesso una turpe ribellione,
legando i suoi doveri d’obbedienza,
la sua beltà, il suo cuore, le sue sorti
ad un avventuriero vagabondo
ch’oggi sta qui, domani non si sa.
Sinceratevi subito voi stesso:
e se trovate ch’è nella sua camera,
o in qualsiasi altra parte della casa,
sguinzagliatemi contro la giustizia,
perché v’avrò così turlupinato.
BRABANZIO - (Gridando all’interno)
Ehi, là, battete l’esca! Luce! Presto!
Lumi, lumi! Svegliate tutti in casa!
Questa storia m’ha l’aria, in verità,
di conferma d’un mio presentimento;
e solo il credere che ciò sia vero
già mi dà l’oppressione... Luce, dico!
(Si ritira)
JAGO - Roderigo, ti debbo ora lasciare.
Non mi sembra che sia né conveniente
né salutare alla mia posizione
esser chiamato come testimone
(come certo sarebbe se restassi)
a carico del Moro;
so bene che, se pur questa faccenda
gli possa procurar dei grattacapi,([18])
oggi lo Stato ha bisogno di lui,
e, pur volendo, non può sbarazzarsene
senza rischi alla propria sicurezza:([19])
ché egli è alla vigilia di salpare
per la guerra di Cipro ch’è già in atto,
sostenuto da sì gravi ragioni
che - per l’animo loro! - questi qui
non saprebbero poi chi nominare
al suo posto cui fare affidamento
per condurre a buon fine la campagna.
Sicché, per quanto io possa detestarlo
più delle pene dell’inferno, pure,
date le circostanze del momento,
mi tocca inalberare la bandiera
d’un apparente attaccamento a lui,
ch’è però sol per finta.
Se vuoi farlo scovare con certezza,
guida tu le ricerche al “Sagittario”.([20])
Là sarò io con lui. Arrivederci.
(Esce)
Entrano, uscendo dalla porta di casa, BRABANZIO, in vestaglia, e servi con torce.
BRABANZIO - Vero, vero, purtroppo: se n’è andata!
E quel che sol mi resta della vita
dopo un simile sfregio, è l’amarezza.
Ma, Roderigo, tu dove l’hai vista?
Col Moro, hai detto?... Sciagurata figlia!
(E chi vorrebbe mai esserle padre?...)
Ma sei certo che fosse proprio lei?..
(Ohimè, che delusione che mi dài,
più di quanto si possa immaginare!)
E che t’ha detto, eh?...
(Ai servi)
Torce! Altre torce!
Altre torce!... Svegliate tutti in casa!
(A Roderigo)
E tu che pensi, si sono sposati?
RODERIGO - Credo proprio di sì.
BRABANZIO - O santo cielo!
Ma come ha fatto a uscirsene di casa?
Oh, traditrice del suo stesso sangue!
Padri, non vi fidate, d’ora innanzi,
dei sentimenti delle vostre figlie,
dal modo come le vedete agire!
Che ci sia sotto un qualche incantamento
capace di travolger la virtù
e la verginità d’una fanciulla?
Non hai mai letto di cose del genere,
tu, Roderigo, eh?
RODERIGO - Io sì, signore.
BRABANZIO - (Ai servi)
Voi, andate a chiamare mio fratello.
(A Roderigo)
Oh, fossi stato tu ad averla in moglie!
(Ai servi)
Alcuni da una parte, altri dall’altra!
(A Roderigo)
E sai dove sorprenderla col Moro?
RODERIGO - Credo, sì, di poterli rintracciare,
se vi piaccia di darmi buona scorta,
e venire con me.
BRABANZIO - Certo che vengo.
E chiamerò la gente da ogni casa;
in quasi tutte c’è chi può seguirmi.
Ehi là, voialtri, mettetevi in armi!
Andiamo pure, mio buon Roderigo.
Compenserò a dovere il tuo disturbo.
(Escono)
SCENA II
Venezia, un’altra strada.
Entrano OTELLO, JAGO e servi con torce.
JAGO - Anche se nel mestiere di soldato
mi son trovato a dover ammazzare,
ho avuto sempre come punto fermo
esser cosa contraria alla coscienza
uccidere per volontà di uccidere.
Confesso che mi manca, molte volte,
l’iniquità che serve ad un tal atto.
M’è capitato nove o dieci volte
di frenarmi, mentre ero per colpirlo
quaggiù, sotto il costato...([21])
OTELLO - Meglio così.
JAGO - Eh, no, perché, imperterrito,
lui seguitava a sparlare di voi,
con parole sì sconce ed offensive
pel vostro onore, che col mio carattere,
m’era proprio penoso sopportarlo.
Ma di grazia, signore, se m’è lecito,
dite, vi siete davvero sposato?
Tenete in conto questo: che il Magnifico
gode a Venezia di molto favore,
ed ha voce in capitolo
almeno il doppio dello stesso Doge.
Vi farà divorziare, separare,
o v’imporrà tutte quelle pastoie
e tutti quei gravami che la legge,
con la forza ch’egli ha per applicarla,
gli darà modo di mettere in atto.
OTELLO - Che sfoghi come vuole il suo dispetto.
I servigi che ho reso alla Repubblica
parleranno più forte dei suoi lagni.
Nessuno sa, di quanti sono qui
- ed io mi tengo ancor dal proclamarlo
fino a quando non sarò più che certo
che tornerà a mio onore farne vanto -
ch’io traggo la mia vita ed il mio essere
da famiglia reale, e che i miei meriti
posson parlar da soli in faccia al mondo,
senza ch’io debba togliermi il cappello
davanti ad una sorta di grandezza
qual è quella cui ora son venuto;
perché io voglio che tu sappi, Jago,
che s’io non fossi tanto innamorato
della dolce Desdemona,
non m’indurrei a porre alcun confine
o restrizione alla mia libertà
d’uomo non accasato,
manco per tutti i tesori del mare.
Ma guarda là: che sono quelle fiaccole?
Entra CASSIO con alcuni ufficiali con torce
JAGO - Sono suo padre e i suoi, servi e parenti,
tutti svegliati a mezzo della notte.
Forse fareste bene a rincasare.
OTELLO - Per niente. Voglio invece che mi trovino.
Il mio rango, le mie benemerenze
e la coscienza mia, del tutto a posto,
mi dovranno mostrar per quel che sono.
Ma son loro?
JAGO - Per Giano,([22]) non mi pare!
OTELLO - Infatti sono gli uomini del Doge,
ed è con loro il mio luogotenente.
Felice notte, amici! Quali nuove?
CASSIO - Il Doge vi saluta, generale,([23])
e sollecita la presenza vostra
con la massima urgenza, anzi all’istante.
OTELLO - Sai tu di che si tratta?
CASSIO - Di qualcosa da Cipro, se indovino.
E dev’essere cosa assai scottante,
se le galee hanno sbarcato già
una mezza dozzina di corrieri
alle calcagna quasi l’un dell’altro,
e già diversi membri del Consiglio,
tratti fuori dal letto in piena notte,
son riuniti dal Doge. V’han cercato
con tutta urgenza prima a casa vostra,
e, non avendovi trovato là,
il Senato ha spedito, a rintracciarvi,
tre pattuglie per tutta la città.
OTELLO - È bene che sia stato tu a trovarmi,
Cassio... Il tempo di fare una parola
con questi qui di casa, e son con te.([24])
(Esce)
CASSIO - (A Jago)
Alfiere che ci fa qui il generale?
JAGO - Eh, stanotte ha abbordato una goletta
di terraferma, a dir la verità,
e se risulterà che quella preda
è legittimamente cosa sua,
s’è sistemato davvero per sempre.
CASSIO - Non capisco.
JAGO - Sì, insomma, s’è sposato.
CASSIO - Con chi?
JAGO - Eh, per la Vergine, con...
(S’interrompe vedendo tornare Otello)
Vogliamo andare, allora, capitano?
OTELLO - Eccomi, son con voi.
(Dal fondo entrano BRABANZIO, RODERIGO e altri con torce e armi)
CASSIO - Ecco un’altra pattuglia che vi cerca.
JAGO - Macché, è Brabanzio.
(A Otello)
Attento generale,
quello viene assai male intenzionato.
OTELLO - Ehi, fermi là!
RODERIGO - (A Brabanzio)
Ecco il Moro, signore.
BRABANZIO - (A Otello)
Ladro! Ladrone! Addosso, addosso al ladro!
(Si sguainano le spade da entrambe le parti)
JAGO - (Con la spada in pugno, verso Roderigo)
Roderigo, a noi due!
OTELLO - Rinfoderate quelle vostre spade
che son sì belle lucide,
se no la guazza ve le arrugginisce.
(A Brabanzio)
Voi, buon signore, più che con la spada,
meglio comanderete con l’età.
BRABANZIO - Sozzo ladrone, dove l’hai nascosta?
Dannato come sei,
sicuramente tu me l’hai stregata,
perché non c’è persona di cervello
che possa dire che una come lei,
una fanciulla bella e fortunata,
e così refrattaria a maritarsi
da rifiutare tutti i vagheggini
più ricchi e riccioluti di Venezia,
sarebbe mai sgusciata via da casa,
offrendosi al ludibrio della gente,
per correre al fuligginoso petto
di un coso come te, se non costretta
e incatenata da pratiche magiche,
alla paura, non certo al piacere!
Giudichi il mondo, se non sia palese
che devi aver usato su di lei
immondi sortilegi, profittando
della fragile sua giovane età
con turpi filtri e malefiche droghe,
che fiaccano qualsiasi resistenza.
Farò che questa storia
sia portata davanti alla giustizia;
perché è cosa non solo assai probabile,
ma palpabile, da toccar con mano.
Perciò io qui t’arresto,
sotto l’accusa di circonvenzione
mediante l’esercizio fraudolento
di pratiche vietate dalla legge.([25])
Arrestatelo, dunque; e se resiste,
lo si addomestichi a tutto suo rischio.
OTELLO - Tenga ciascuno qui le mani a posto:
voi che siete con me, e così gli altri!
Se avessi ritenuto esser mia parte
affrontarvi, l’avrei ben recitata,
senza bisogno di suggeritore.([26])
(A Brabanzio)
Dove volete ch’io vada a rispondere
di questa vostra imputazione?
BRABANZIO - In carcere,
finché a tempo dovuto dalla legge
non ti chiamino a renderne ragione.
OTELLO - Che, se obbedisco? Siete proprio certi
che ne sarebbe soddisfatto il Doge,
i cui messi son qui a fianco a me,
a prendermi ed accompagnarmi a lui
per impellenti ragioni di Stato?
UN UFFICIALE - (A Brabanzio)
È vero, mio degnissimo signore:
il Doge tiene in quest’ora Consiglio;
anzi, son certo che sarà richiesta
anche la vostra cortese presenza.
BRABANZIO - Il Doge tien Consiglio? Ed a quest’ora?
(Ai suoi)
Conducetelo via;
la mia non è una questione da nulla;
il Doge stesso e tutti i miei colleghi
del Consiglio non posson non sentirsi
anch’essi offesi da siffatto torto,
siccome fatto a ciascuno di loro.
Perché se si comincia a dar via libera
a certe azioni, schiavoni e pagani
saranno i nostri uomini di Stato.([27])
(Escono)
SCENA III
Venezia, la sala del Consiglio.
Entrano il DOGE, i SENATORI che vanno a sedere a un tavolo illuminato da torce;
seguono alcuni funzionari che restano in piedi.
DOGE - Le notizie son troppo discordanti
perché si possa prestar loro credito.
1° SENATORE - Sono diverse infatti;
le mie mi dicono le loro vele
cento e sette.
DOGE - Le mie centoquaranta.
2° SENATORE - Le mie duecento. Ma se c’è divario
nel numero, com’è molto frequente
quando si deve andar per congetture,
il fatto è ch’esse annunciano concordi
che una flotta ottomana è uscita al largo,
e dirige su Cipro.
DOGE - E tanto basta
per rendere plausibile la cosa;
né il divario nel numero
può fare ch’io non veda il fatto in sé
con un certo timore.
VOCE DI UN MARINAIO - (Da dentro)
Ehi, ho! Ehi, ho!
UN UFFICIALE - Un messaggero dalle galee.
Entra un MARINAIO
DOGE - Che c’è?
MARINAIO - La flotta turca dirige su Rodi.
Questo m’ha incaricato d’annunziare
a codesto Consiglio il signor Angelo.([28])
DOGE - Hanno mutato rotta. Che ne dite?
1° SENATORE - Impossibile, è contro ogni ragione.
Deve trattarsi d’una finta mossa,
per attirarci verso un falso scopo.
Ché, se appena ci diamo a valutare
l’importanza di Cipro per il Turco,
e solo che ci diamo a ripensare
ch’essa interessa al Turco più di Rodi,
perché più facile da conquistare
in quanto non munita di difese
e di tutti gli apprestamenti bellici
dei quali invece Rodi è ben provvista;
se, insomma, riflettiamo a tutto questo,
ci dobbiamo levare dalla testa
che il Turco sia talmente sprovveduto
da lasciare per ultima un’impresa
ch’è di primaria importanza per esso,
e che rinunci a fare un tentativo
di più facile esito e profitto,
per imbarcasi ad affrontare un rischio
da cui profitto non può certo trarre.
DOGE - È chiaro dunque che non mira a Rodi.
Entra un altro MARINAIO
UN UFFICIALE - Altre notizie.
MARINAIO - Altezza Serenissima,
gli Ottomani, tenendosi in diretta
sulla rotta dell’isola di Rodi,
si son congiunti con un’altra flotta.
1° SENATORE - Eh, come giustamente prevedevo!
E quante vele?
MARINAIO - Una trentina circa.
E tutte insieme invertono la rotta
rendendo chiara la loro intenzione
di puntare su Cipro.
Questo vi manda a dire, per mio mezzo,
il vostro prode e fido servitore
signor Montano, con i suoi saluti
e con preghiera di prestargli fede.
DOGE - Dunque è certo: dirigono su Cipro.
Marco Lucchese([29]) si trova in città?
1° SENATORE - No, è a Firenze.
DOGE - Scrivetegli subito,
a mio nome e spedite con urgenza.
Entrano BRABANZIO, OTELLO, CASSIO, JAGO, RODERIGO e alcuni ufficiali.
DOGE - Prode Otello, necessità c’impone
di usar di voi con la massima urgenza
contro il comune nemico ottomano.
(A Brabanzio)
Oh, non v’avevo visto!... Benvenuto,
magnifico signore. Questa notte
è mancato a noi tutti il vostro ausilio
ed il vostro consiglio.
BRABANZIO - Ed a me è mancato quello vostro.
Vogliate perdonarmi, Vostra Grazia,
ma a trarmi giù dal letto questa notte
non sono state né le mie funzioni
né altra cosa io possa aver a cuore
che riguardi lo Stato; né in quest’ora
il pensiero del pubblico interesse
può far alcuna presa sul mio animo;
l’affanno che l’opprime è così grande
e così ne trabocca il sacco in me,
da ingoiare e assorbire ogni altra cura;
e tale ed immutato è mentre parlo.
DOGE - Diamine! Che cos’è? Di che si tratta?
BRABANZIO - Mia figlia, oh! Mia figlia!
DOGE - Morta?
BRABANZIO - Sì,
morta per me: me l’hanno trafugata,
ingannata, corrotta, pervertita
con esorcismi e con stregati intrugli
acquistati da bassi ciarlatani;
ché non può la natura
lasciarsi sprofondar sì assurdamente
nel vizio (non essendo ella demente,
né cieca, né di senno vacillante)
senza intervento di stregoneria.
DOGE - Chiunque, con un sì perverso agire,
abbia potuto indurre vostra figlia
a truffar sé a se stessa ed essa a voi,
voi stesso applicherete a condannarlo
il libro della legge criminale
e nella forma di maggior rigore;
sì, si trattasse pure di mio figlio!
BRABANZIO - Umilmente ringrazio Vostra Grazia.
Ecco l’uomo che accuso: questo Moro,
che, come sembra, è stato qui chiamato
in seguito a speciale ordine vostro
per affari di Stato.
TUTTI - Ne siamo tutti molto dispiaciuti.
DOGE - (A Otello)
E voi che rispondete a questa accusa?
OTELLO - Potentissimi, gravi e reverendi
signori del Consiglio,
nobilissimi e buoni miei padroni,
ch’io abbia tratta via dalla sua casa
la figlia a questo vecchio, è verità;
vero altresì ch’io l’ho condotta in moglie.
Qui comincia e finisce la mia colpa.([30])
Non più di questo. Il mio parlare è rozzo,
ed assai scarsamente provveduto
del soffice fraseggio della pace;
dacché queste mie braccia, già dal tempo
che avevano il vigore dei sette anni
fino all’incirca a nove mesi fa,
hanno compiuto in un campo attendato
le loro azioni più impegnative;
ed io di questo nostro vasto mondo
posso dir poco che non sia materia
d’avvisaglie di guerra e fatti d’arme.
Perciò ben poco mi potrà giovare
ch’io parli a perorare in mia difesa.
Pure, con vostra graziosa licenza,
vi dirò, con parole disadorne,
il corso del mio amore, per intero;
con quali droghe, con quali incantesimi,
e scongiuri, e poteri d’arti magiche
- perché di tanto sono qui accusato -
io abbia vinto il cuore di sua figlia.
BRABANZIO - Una affatto procace giovinetta,
d’indole sì tranquilla e riservata,
da arrossire perfino di se stessa
ad ogni minimo moto dell’animo!
E, ad onta di codesta sua natura,
dell’età, dell’ambiente del paese,
della reputazione e tutto il resto,
andarsi a innamorare di qualcosa
che aveva fin paura di guardare!
Zoppo criterio ed imperfetto al massimo
è ritenere che la perfezione
possa lasciarsi andare nell’errore
contro ogni regola della natura;
perciò se questo è potuto accadere
non può spiegarsi che col ricercarvi
maligne e astute pratiche infernali.
Torno perciò a ripetere, signori,
che costui deve averla soggiogata
col mezzo di chi sa che arcano filtro
o potente mistura affatturata
ch’ebbe ad effetto di alterarne il sangue.
DOGE - Affermarlo però non è provarlo,
senza più valida testimonianza
che queste vostre magre congetture
e queste scarne verosimiglianze.
1° SENATORE - Parlate, dunque, Otello:
avete voi con subdole manovre
e con mezzi violenti ed indiretti
plagiato e avvelenato i sentimenti
di quella giovane? O tutto è nato
per spontanea richiesta da sua parte,
e per quel certo dolce colloquiare
che spinge un’anima verso un’altr’anima?
OTELLO - Vi supplico, mandate al “Sagittario”
a chiamare la dama: venga lei
a parlare di me davanti al padre.
E se risulterà, dal suo parlare,
ch’io son quell’uomo turpe ch’egli dice,
toglietemi l’ufficio e la fiducia
che da voi tengo; ma non solo questo:
fate altresì che la vostra condanna
ricada sopra la mia stessa vita.
DOGE - Va bene. Si conduca qui Desdemona.
(Escono due o tre ufficiali)
OTELLO - (A Jago)
Va’ tu con loro, alfiere, ed indirizzali:
tu sai meglio di tutti qual è il luogo.
(Esce Jago)
Nel frattempo, e finché ella non giunga,
io, con la stessa libertà di spirito
con cui confesso le mie colpe al Cielo,
farò ascoltare ai vostri gravi orecchi
com’è successo ch’io sia prosperato
nell’amore di questa bella dama,
e com’ella nel mio.
DOGE - Ditelo, Otello.
OTELLO - Il padre suo m’aveva molto caro.
M’invitò spesso a casa, ed ogni volta
mi domandava che gli raccontassi
di me, della mia vita, d’anno in anno:
gli assedii, le battaglie, le fortune
attraverso le quali son passato.
Ed io ripercorrevo la mia storia
dai giorni della prima fanciullezza
fino al momento stesso ch’ero lì
con lui che mi chiedeva di narrarla:
e là mi dilungavo a raccontargli
delle mie sorti molto avventurose,
di commoventi fatti in mare e in terra:
di quando per un pelo ero sfuggito
all’imminente breccia della morte;
di quando, catturato prigioniero
da un nemico arrogante
e da questi venduto come schiavo,
mi riscattai, e quel che vidi e feci
nei casi occorsimi durante il viaggio:
antri profondi e preziosi deserti,
aspre pietraie, rupi, erte montagne
dalle cime che s’ergon fino al cielo
(ché tante furono le mie esperienze)
gli dovetti descrivere: e i cannibali,
che si sbranan fra loro, e gli antropofagi,
cui cresce il capo di sotto alle spalle.
Desdemona ascoltava seria e attenta
anch’ella; ma le succedeva spesso
d’esser distolta da cure domestiche;
e, poi che in fretta le avesse sbrigate,
tornava nuovamente ad ascoltare;
e divorava quasi con l’orecchio
quanto andavo dicendo: il che osservato,
io colsi un giorno l’attimo
per estrarle dal cuore la preghiera
ch’io volessi narrarle ancor daccapo
la storia delle mie peripezie
ch’ella aveva ascoltato solo a pezzi
ed a forza distolta. Acconsentii,
e spesso le truffai più d’una lacrima
col narrarle dei colpi di sventura
sofferti dalla mia giovane età.
E, terminato ch’ebbi la mia storia,
quasi a compenso di tante mie pene
ella mi offerse un mondo di sospiri;
giurò ch’era una storia molto strana,
meravigliosamente miserevole,
meravigliosamente commovente;
ella avrebbe voluto non udirla,
e tuttavia sentiva il desiderio
che il cielo avesse fatto lei tal uomo.([31])
Mi ringraziò e mi disse perentoria
che se mai avess’io per avventura
avuto tra gli amici miei qualcuno
che si fosse di lei innamorato,
gli insegnassi a narrarle la mia storia,
ché quello solo l’avrebbe sedotta...
A questo punto io mi dichiarai:
ella m’amò pei corsi miei perigli,
ed io l’amai per quella sua pietà.
Ecco: tutta la mia stregoneria,
gli incantesimi miei, è tutto qui.
Ma ella viene. Mi sia testimone.
Entrano DESDEMONA, JAGO e altri
DOGE - Una storia così, sono sicuro,
saprebbe conquistare anche mia figlia.
Buon Brabanzio, vedete se è possibile
aggiustar per il meglio questo affare
piuttosto squinternato:
spesso un’arma spuntata serve meglio
agli uomini che non le proprie mani.
BRABANZIO - Vi prego, udiamo quel che dice lei:
se confessa d’aver avuto anch’ella
la sua parte a metà in questa tresca,
s’abbatta su di me la distruzione
s’io vorrò far cadere su quest’uomo
il minimo mio biasimo.
(A Desdemona)
Vieni avanti, gentile damigella:
sei ancora capace di distinguere
in mezzo a quella degna compagnia
a chi devi la massima obbedienza?
DESDEMONA - Nobile padre mio,
io scorgo qui diviso per metà
un tal dovere: a voi son debitrice
della mia vita e dell’educazione:
l’una e l’altra m’insegnano il rispetto
per voi; voi siete del mio omaggio il re:
io sono fino ad ora vostra figlia;
ma questi è mio marito, e quanto ossequio
verso di voi mostrò la madre mia,
anteponendovi in ciò a suo padre,
io mantengo dover or professare
al Moro, mio signore.
BRABANZIO - Dio sia con te. Signori, io ho finito!
(Al Doge)
Vostra Grazia, vi piaccia di passare
senz’altro indugio agli affari di Stato.
Meglio avrei fatto ad adottare un figlio,
che a generarlo...
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