Passando dall'aria umida della strada a quella asciutta e odorosa di cibi della casa, si fregavano le mani. Quel giorno ci sarebbero stati due ospiti. Uno era il marchese Carandola, un uomo alto, magro e silenzioso, che aveva vinto parecchie gare di scherma, ma a cui la fama di spadaccino non aveva evitato un calcio nel sedere da parte del cavaliere Mazzaglia, un gigantesco viveur che una notte, preso a rivoltellate da alcuni mafiosi, li aveva inseguiti e cercati dentro un portone buio, facendosi luce cogli zolfanelli della pipa, al cui riverbero il suo faccione stravolto dall'ira, se da una parte si offriva quale comodo bersaglio, dall'altra toglieva a chiunque il coraggio di premere il grilletto. Il marchese ed il cavaliere, scesi sul terreno, s'erano riconciliati al terzo assalto senza ferirsi, perché il marchese non era riuscito, coi suoi veloci e furibondi colpi di terza e quarta, a spostare d'un millimetro la spada dell'avversario sostenuta immobilmente da quel tronco d'albero ch'era il braccio destro disteso. Adesso tutti e due erano stati invitati a pranzo dai Castorini. Tardavano ad arrivare, e i loro nomignoli, Asparagioscotto per il marchese, e Nottedicarnevale per il cavaliere, circolavano da una stanza all'altra, mettendo l'allegria perfino nei bambini del portiere che, manovrando scope, tegami e strofinacci, si ripetevano piano all'orecchio: «Asparagio scotto… Notte di Carnevale…» e subito si ponevano un dito sulla bocca comprimendo una risatina.
Poco dopo l'arrivo del barone Paolo e di Edmondo, scoppiò nel salotto una canzone d'operetta. La cantavano Edmondo, Paolo e il fratello minore Luigi; l'accompagnava sulla chitarra il barone che, inseguendo le note sui tasti d'avorio e tenendole per un momento sotto i polpastrelli nervosi, si contorceva dal piacere ed abbassava la testa fino ad appoggiare la guancia sul manico, poi la risollevava di scatto, rosso, con gli occhi chiusi, la bocca spalancata ronzante del motivo che gli altri cantavano a squarciagola. La gamba sinistra del nonno, stesa indietro come in un a fondo di scherma, era andata a finire sotto la sedia; la destra invece segnava il tempo con rabbiosi calci sul pavimento.
Lùna tu, nòn sai dìrmi cos'è…
Ad ogni battuta di tempo, si scaricava una violenza a cui la musica era un comodo espediente per uscire non vista, confusa con le note.
Lùna tu, Nòn sai dìrmi perché…
Il canto, per un eccesso di gioia, diventava un urlo generale che, arrivando in cucina, metteva in agitazione la cuoca, le due serve, la famiglia del portiere, tutti quanti felici di avere per padroni degli esseri così fragorosi e scoppianti di vitalità. Anche la signora Marietta, la madre di Paolo, canticchiava dentro il vapore delle pentole che andava scoperchiando una dopo l'altra. Non abbiamo ancora descritto questo personaggio. La signora Marietta era una donna alta e florida, straordinariamente bella e turbante da giovane, quando non solo i suoi occhi ridevano in una cordiale involontaria allusione allo scopo cui mirava tanta avvenenza, non solo rideva, sulla sua bocca dischiusa dal sonno, la peluria del labbro superiore, ma anche il sangue, nel suo rapido pulsare, sembrava mandare il suono di un riso lontano e felice.
Qualcuno insinuava ch'ella avesse avuto un amante; molti invece sostenevano ch'ella era stata fedele al marito.
«Non ha bisogno di andare a letto per tradirlo». L'uomo spiritoso, che aveva detto questa frase al circolo dei nobili, ne spiegò anche il significato. La signora Marietta non tradiva il marito coi fatti, e nemmeno col pensiero. Lo tradiva coi gesti, senza accorgersene. In quella fronte bruna, non c'era nessun desiderio di altri uomini, nessuna immaginazione colpevole. Ma ella non aveva desideri perché, senza saperlo, li sfogava tutti. Col riso, cogli occhi, coi movimenti delle mani e delle gambe, parlando continuamente di sé e mettendo a nudo sentimenti nel momento stesso in cui li concepiva, sotto la sua onestà e illibatezza, era in realtà molto vicina a una donna pubblica. Si sapeva tutto di lei, i mal di capo notturni, le orticarie sul petto, i peli che s'era rasati dalle caviglie, il gusto snervante che aveva provato nell'acqua calda del bagno, gli amori per il marito, per i figli, per il padre, per il cognato, le apprensioni e i pensieri.
Diceva bello! ai belli davanti a tutti, con un grido di rapimento che dava una scossa agli uomini e poi li faceva sorridere con indulgenza; s'inteneriva al pallore di un giovanotto ch'ella intuiva subito provocato da una notte d'amore, distinguendo al primo sguardo le stanchezze dovute alla malattia da quelle provocate da un omaggio generoso al sesso di cui ella era regina. Subito la tenerezza e la gratitudine le riempivano gli occhi e, più che gli occhi, le mani che si lanciavano sul giovane, passandogli rapidamente dalle ginocchia alle guance, dalle guance alle spalle, dalle spalle ai fianchi, e là, dove s'erano posate con disinvoltura e noncuranza, dopo un minuto affiorava un brivido voluttuoso, come quegli effetti di calore che, sotto un cerotto, succedono dopo qualche tempo alla prima impressione di freschezza.
Le mani erano la cosa più ingenua e insieme più turbante di quella donna statuaria. Nessuna premeditazione nei loro gesti, e forse nessuna sensazione vivace; ma da quei gesti ella liquidava fulmineamente tutti i suoi possibili peccati; la sensualità sfumava allo stato vaporoso di simpatia e felicità, priva di quelle compressioni, sia pure minime, che le sono necessarie per assumere il suo vero carattere; come un gas si esala da una valvola aperta lasciando perfettamente immobile la macchina che, compresso, sarebbe capace di lanciare a duecento chilometri all'ora insieme a un peso di parecchie tonnellate. Ella si liberava delle passioni prima di averle sentite. Ma gli uomini, in cui andavano a finire le scariche del suo cuore e dei suoi sensi, ne rimanevano sconvolti. Quelle carezze, che dalle mani di lei erano uscite ancora innocenti, sul corpo di chi le riceveva parevano maturarsi, come l'uovo di una gallina che diventi pulcino sotto il calore di un'altra gallina.
«Io non scrivo mai cartoline illustrate, soltanto lettere, e molto lunghe… Io, quando vedo una cosa simile, mi sento tirare la pelle delle mani… Io non ho mai tenuto un album, nemmeno al collegio… Io preferisco l'estate all'inverno…
Io non posso sentire piangere un bambino… Io ho una complessione forte, l'orticaria è l'unica mia malattia…
Io quando vado a Napoli, per prima cosa chiedo a mio marito di portarmi al Vomero… Il gelsomino sì, lo sopporto anche al capezzale del letto, una violetta, una sola, la sento a cento metri di distanza e non riesco a dormire… Io amo il mare, la montagna mi dà malinconia… Il caffè, lo devo prendere bollente… Il gelato me lo sciolgo in bocca e lo faccio diventare caldo, prima di inghiottirlo… Se una persona mi dice una menzogna, per me è come morta…».
Al minimo incentivo, anche trovandosi con una sconosciuta in treno, la signora Marietta sfoderava tutti i suoi segreti, la sua vera nudità abbagliante; abitudini, gusti, simpatie ed antipatie, venivano fuori, quello che accadeva a lei era importantissimo; un chiodo di scarpa, che le aveva pizzicato il piede a Venezia durante il viaggio di nozze, era ormai nel vocabolario della famiglia, era il chiodo di Venezia, in una frase indissolubile come una parola sola, per cui dire chiodo senza Venezia o Venezia senza chiodo era scorretto come balbettare due sillabe e piantarle lì senza significato. Ma più importante delle cose sgradevoli erano quelle gradevoli: i gelati di Palermo, la zuppa di pesce della Zì' Teresa a Napoli, la bistecca di Salvini a Firenze, il silenzio del Canal Grande, l'aria fresca dei fiumi dell'Alto Adige, le vasche da bagno dell'Hôtel Coccumela a Sorrento…
«Io le amo queste cose, mi piacciono… io le trovo stupende». Io… io… io… Il monosillabo usciva mielato di tutte le sensazioni prelibate, di tutti i godimenti meravigliosi in cui s'era avvoltolato prima di venire espulso in forma sonora da una bocca su cui tanta gente avrebbe voluto tenere a lungo la sua.
All'una in punto arrivarono gli ospiti. La signora Marietta non poté fare a meno di abbracciarli. Pensava con orrore che ciascuno aveva impugnato una spada acuminata dirigendone la punta contro l'altro. «Ah, monelli!», esclamò agitando la mano destra, «son cose che si fanno?». E intenerita dal pericolo che avevano corso, tornò ad abbracciarli.
«Michele!», si mise poi a chiamare, «Michelino! dove sei? vieni!».
Andò alla porta del salotto, l'aprì, e sporgendo la testa in una fuga di sale che terminava nella penombra, fra i libri di una biblioteca, gridò: «Michele, sono arrivati!».
La voce andò a scuotere un personaggio pallido e gracile che leggeva «La Storia comparata della musica», coi gomiti poggiati sulla scrivania, la fronte tra le mani, e i mignoli affondati sulle palpebre, nel gesto di chi comprime un dolore.
«Marietta, vengo subito», rispose il barone Michele, «un minuto solo e sono da voi».
E infatti, chiuso il libro, si alzò dalla sedia questo Michele Castorini, questo padre di Paolo, che colpiva per la sua estrema dissomiglianza dagli altri membri della famiglia.
Né si poteva dire che somigliasse alla propria madre, poiché anche questa, come il marito, era stata robusta, bruna ed esuberante. E tutti gli antenati di parte maschile e femminile, che si ricordassero in città o si affacciassero dai ritratti, erano robusti, bruni ed esuberanti.
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