In quello sguardo, tramontava rapidamente per lei il sole della vita.

Con la scusa di fargli una carezza, ella alzò una mano e gliela premette sugli occhi. Ma fu lei questa volta che, al riparo dallo sguardo di Paolo, si osservò freddamente la mano; e convenne che quei cinque ossi, ricoperti di pelle fibrosa, non potevano suscitare il desiderio di nessuno. Tanto meno di un signore fine come Paolo. Al pensiero di quanto fine, delicato, forte, istruito, bello era stato il suo amante, ella si commosse. Che fortuna era toccata a un povero essere pagato tre lire al mese! Si mise a piangere, e, togliendo la mano dagli occhi di Paolo, si riposò finalmente dallo sforzo che compiva da tanti giorni per simulare la salute e la bellezza. Che la guardasse pure mentre piangeva, e la vedesse bene com'era diventata.

«Perché piangi?», fece Paolo, tenendosi involontariamente un po' alla larga come da una persona che potesse contagiarlo. «Perché stai piangendo?».

Ma mentre le rivolgeva quella domanda, fu assalito da una strana e indeterminata speranza. Piano piano egli sperò ch'ella potesse dirgli, ed ella infatti, contemporaneamente al chiarirsi della speranza di lui, gli stava realmente dicendo: «Noi non possiamo vederci più». Come un fragore produce in chi dorme un sogno che, nella sua fulmineità, è una lunga storia terminante proprio con quel fragore. «Non possiamo vederci più».

«Perché?», azzardò egli, raschiando con la gola per liberare l'ultima sillaba dalla raucedine che aveva soffocato la prima. E con voce troppo forte per essere naturale, ripeté: «Dimmelo almeno, perché?».

Giovanna abbassò la testa. Immergeva continuamente una mano nella paglia sollevandone alcuni fili che ricadevano attraverso le dita divaricate. In quella ragazza analfabeta, la percezione della verità, invece di prendere la via delle parole, aggravava subito quel silenzio stupito, quel sentimento d'inferiorità e di vergogna che i manifesti, i libri, le insegne dei negozi, i titoli dei giornali, le lettere lasciate aperte sui tavoli, le infondevano continuamente. Era proprio quando capitava qualcosa che si ricordava del rimprovero:

«Non capisci nulla» che anche i bambini di sei anni le rivolgevano con un sorriso, dopo averle messo sotto gli occhi un foglio stampato. «Non capisci nulla!». Tutta la sua mente s'intirizziva e contraeva. Adesso per esempio: essa aveva sentito che bisognava dire quella frase: «Non possiamo vederci più», e l'aveva detta due volte, ma la domanda di Paolo che, essendo un'esortazione a spiegarsi, portava con sé la terribile frase: «Non capisci nulla» invece di convincerla a rispondere e chiarire a se stessa il motivo di una tale risoluzione, le serrava di più il cervello, in una morsa dolorosa.

«Non possiamo vederci più», ripeté per la terza volta.

Egli finse di arrabbiarsi: «Che modo di ragionare!… Mi dici: non possiamo vederci più, e non mi spieghi nemmeno perché… Mi licenzi come una serva…».

A questa parola, in cui si era racchiusa l'essenza della sua vita, ella fece un moto impercettibile con le sopracciglia.

«Mi licenzi su due piedi, senza darmi nemmeno il preavviso!».

Vedendo che non correva il pericolo di convincerla, egli finì coll'arrabbiarsi veramente: «Sei una mula, ecco cosa sei, una mula».

Le fece il verso con una smorfia sguaiata, in cui ella, fissando gli occhi per un attimo, si vide con vergogna come in uno specchio: «Non possiamo vederci più, non possiamo vederci più… E va bene, non vediamoci più… Se lo vuoi, non ci vedremo più!». Si alzò pieno di sdegno: «Non vediamoci più… Tu ancora non mi conosci… Io ti prendo sulla parola… Non mi vedrai più nemmeno da lontano!…

E ricòrdati che, dopo, sarà troppo tardi. Anche se mi manderai a chiamare col prete che ti porta i Sacramenti, io non verrò più!».

Attese, volgendo le spalle, che ella dicesse qualcosa. Ma non sentiva che il fruscìo della paglia in cui la ragazza continuava ad immergere la mano.

«Addio».

Nessuno rispose. Egli si voltò e vide, al di là di una fronte curva e protésa, gli occhi di lei che, alzati in quel momento, davano la vertigine come squarci da cui si mostri l'interno sanguinoso del corpo con le sue pulsazioni.

Paolo tornò a voltarsi verso la porta: «Addio… Non vuoi nemmeno rispondermi? Ti sto salutando: addio…».

Abbassò la voce, sfiduciato: «E va bene, fa come vuoi…

Io ti ho salutato».

E uscì.

Dopo di lui, lenta, senza lacrime, incurante di essere sorpresa o semplicemente veduta, uscì Giovanna. Uscì un essere penosamente oscuro, come se, a vent'anni, ella avesse speso tutti i diritti a rivedere la luce del giorno che le spettavano in una lunga esistenza, e ora le rimanesse davanti una serie interminabile di notti, saldamente attaccate l'una all'altra, senza un filo d'alba.

Come una pietra rotola per un declivio, ella si avvicinò al pozzo, lo guardò senza né paura né desiderio, e vi si buttò.

Fu subito ripescata, e dopo due giorni d'incoscienza, una vita priva di sapore rifluì nel suo corpo. Con la stessa inerte semplicità con cui s'era buttata nel pozzo, continuò a vivere.

Capitolo terzo

Pioveva. Le case e le strade di Catania, tutte di pietra lavica, mandavano il luccichìo di un'incerata. Erano le dodici del venti marzo 1922, e le nuvole, invece di alzarsi e diradarsi, come soleva accadere sempre a quell'ora, si erano abbassate fin sopra i tetti, e correvano da un camino all'altro mescolandosi al fumo. Sopra queste nuvole biancastre e veloci si vedeva un cielo nero, pesante, di lavagna, che si spostava con faticosa lentezza nella stessa direzione dei vapori bassi.

Una fila di carrozze sostava nella piazza, sotto la casa dei Castorini. I cavalli, coperti malamente di vecchi cenci, avevano abbassato la testa e tenevano la zampa destra anteriore ripiegata e immobile, come se l'umidità l'avesse paralizzata.

I cocchieri s'erano rifugiati sotto l'arco del portone, da cui saliva a buffate il fumo delle pipe. Qualche ragazza con le spalle coperte da un sacco, usciva dalle porticine circostanti e andava a riempire la brocca alla fontanella pubblica, riportandola sulla testa con passo svelto d'acrobata.

La famiglia del portiere, che abitava nel seminterrato, stanata dall'acqua che scendeva dalle finestre, era salita nell'appartamento del barone, ove subito ciascuno dei componenti aveva ricevuto la sua incombenza. I vecchi, in cucina, aiutavano ad attizzare il fuoco e a sbucciare le patate; una delle ragazze era stata mandata al circolo dei nobili per portare l'ombrello blu al barone Paolo che giocava a carte e non sentiva la grossa cipolla d'argento segnare le dodici nel taschino del panciotto di velluto; un'altra alla Birreria svizzera per portare l'ombrello rossastro al cavaliere Edmondo ch'era rimasto sulla porta del caffè, a guardare un fiotto d'acqua che cadeva dal cornicione proprio davanti a lui, contorcendosi, vivo e violento, come un cefalo nella rete.

Ma eccoli che attraversano la piazza, seguiti dalle bambine che procedono a zig-zag, per immergere i piedi nudi dentro tutte le pozzanghere, la testa coperta con la vesticciola rovesciata.

Quando giunsero nell'anticamera, una folla di serve e aiutanti si buttò ai loro piedi, sfilando le calosce e asciugando il pavimento con segatura e strofinacci. La pioggia li aveva messi di buon umore.