«Lei è un sudicio animale pieno di Spirito, con un sudicio sguardo pieno di ributtante Spirito», lo insulta Pinsuto, inconsapevolmente parafrasando la polemica del Thomas Mann "impolitico" contro gli italiani, «spaghettanti dello spirito».

Ma si preclude, da laico, la comprensione di quell'impasto di peccato e di coscienza del peccato, di prepotente lussuria e di balbettante spiritualità che può suggerire all'immeritevole Paolo di percepire «la parte di se stesso che s'immedesimava con l'eterno, e nella quale la parola io si disegnava con un'ombra di D davanti» (se ne ricorderà lo Sciascia del Cavaliere e la morte: «Ma era già, eterno e ineffabile, il pensiero della mente in cui la sua si era sciolta»), e di contrappuntare la preghiera evangelica, in uno sconcertante montaggio incrociato, con le immagini adescatrici della «carne viva» offerta dalle prostitute.

Per Pinsuto tutto questo è "barocco", è insomma quel cocktail di sofismi e di nevrosi che sarebbe tipico dei siciliani.

Di quel barocchismo Brancati aveva scritto a proposito del proprio maestro, Borgese, imputandogli «di non seguire a pieno le leggi della tortuosità e dell'abbondanza, e nello stesso tempo di non dare precisione epigrammatica a quei brevi passaggi in cui il barocco, uscendo da un ghirigoro per entrare in un altro, corre su una linea diritta», che è quello che fa, viceversa, l'autore di Paolo il caldo, mai così perfettamente definito come in questa dissimulata autoanalisi.

Un "barocco", dunque, non esornativo ma funzionale a una volontà costruttiva, a una verità da dire. Una verità complessa, problematica, in divenire, e affilata come un paradosso: come quello del «complesso di Cristo» esposto al culmine della narrazione interrotta, sul margine cruento della ferita che la recide. Si sarebbe verificato, cioè, un ribaltamento che ha relegato Cristo nell'inconscio, come «istinto esso stesso, il più forte di tutti», promuovendo ai livelli superiori della coscienza la «moralità tirannica {…} che vuole costringerci alla libertà sessuale, al culto di noi stessi e dei nostri bisogni fisici, all'egoismo e al narcisismo, alla durezza e all'orgoglio». Analisi lucidissima e presaga, questa del Cristo «rimosso» («Sa che cosa ho rimosso io, invece, che cosa ho scacciato fuori della coscienza, e buttato nelle fogne di me stesso? {…} Gesù Cristo in persona!») e del disincantamento edonistico ed egotista del mondo, non atto di fede. Che Paolo il caldo abroghi le certezze del razionalismo illuministico, responsabile fra l'altro di quella secolarizzazione, non v'è dubbio, né che inauguri una ricerca dagli esiti certo imprevedibili, ma verosimilmente destinata a rimanere aperta, laicamente disponibile ed inappagabile.

Ricerca che è altro, tuttavia, dalla disperazione e dalla resa, dal gorgo in cui Brancati è stato visto precipitare da una critica cattolicamente incline a ravvisare nella sconfitta e nel peccato, nel dubbio e nel conflitto, il perentorio verdetto della dannazione, invece di riconoscervi la condizione permanente dell'uomo "peccatore e giusto", e magari di identificare in Paolo Castorini il dilacerato, patetico, impuro testimone dell'incessante, inconciliabile ressa fra luce e tenebra, fra la materia viva di palpitante corruzione ed il Deus remotus: remoto e rimosso.

La tensione religiosa e il richiamo della "luce", intermittenti tentazioni del laico coerentemente dubbioso dalla pièce giovanile Il viaggiatore dello sleeping n. 7 era forse Dio? a Singolare avventura di viaggio e poi al Bell'Antonio, dove lo zio Ermenegildo gridava il suo disperato bisogno di credere, e alla Governante, dove un'umanità priva della Grazia è ritratta con tinte calvinistiche (e non si dimentichi che «Il Mondo» di Pannunzio, ovvero il laboratorio intellettuale del Brancati "romano", dove vedranno la luce le prime anticipazioni del romanzo postumo, aveva ereditato dal liberalismo gobettiano l'attenzione alla questione morale come tristo lascito della mancata Riforma protestante in Italia), si manifestano fino all'insostenibile in Paolo il caldo, che l'ultima, tronca sezione, saldandosi al registro diaristico e meditativo del primo e tutt'altro che irrelato capitolo, conferma come un'ininterrotta riflessione compiuta sull'estrema soglia di una vita individuale e di quella terrena.

Una partita aperta, certo, che a Brancati non fu concesso comunque di finire: ma nel Diario romano, in occasione del suo quarantesimo compleanno, entro l'insolita cornice di una lirica egli ne aveva annotato la posta in gioco:

«Ormai non resta che il bisogno / Di sapere chi è l'Altro in questo giuoco».

 

Antonio Di Grado

Cronologia

1907. Il 24 luglio Vitaliano Brancati nasce a Pachino, nell'estremo lembo meridionale della Sicilia, dall'avvocato Rosario e da Antonietta Ciàvola.

 

1920. La famiglia Brancati si trasferisce a Catania, la città che ispirerà la produzione matura dello scrittore offrendogli la scena teatrale delle sue vie e piazze barocche. Vitaliano studia al liceo "Spedalieri", dov'è allievo - e in futuro sarà amico - del grecista e poeta Francesco Guglielmino, amico a sua volta di Verga e De Roberto e tramite tra diverse generazioni intellettuali.

 

1924. Brancati si iscrive al partito fascista e fonda la rivista «Ebe», in cui riversa il suo adolescenziale dannunzianesimo.

 

1928. Pubblica Fedor, poema drammatico, e scrive Everest, "mito" in un atto, ispirato al duce del fascismo.

 

1929. Si laurea in lettere con una tesi su Federico De Roberto, critico, psicologo e novelliere, da cui ha inizio un interesse crescente per l'autore dei Vicerè, che era morto due anni prima e che avrebbe sempre incarnato, agli occhi di Brancati, le virtù di rigore intellettuale e morale del secolo precedente. Comincia a collaborare con il quotidiano «Tevere» diretto da Telesio Interlandi, fascistissimo protettore di letterati siciliani nella Roma delle redazioni e dei salotti letterari (e del duce, che nel '31 riceverà il giovane Brancati).

 

1930. Incontra Borgese, lo scrittore-intellettuale che influirà decisivamente sulla sua successiva formazione e sulla sua conversione all'antifascismo. Intanto scrive su giornali e riviste, come «Critica fascista» di Bottai, «Convegno» e «Il Popolo d'Italia», e nel '33 diverrà redattore-capo di «Quadrivio», fondata da Interlandi e Chiarini.

 

1932. Pubblica il suo primo romanzo, L'amico del vincitore, e inoltre Piave (un dramma messo in scena da Bragaglia) e Il viaggiatore dello sleeping n. 7 era forse Dio?

 

1934. Esce Singolare avventura di viaggio, l'acre e sensuale romanzo sulla gioventù fascista (censurato dal regime e stroncato da Chiarini su «Quadrivio», da cui Brancati si dimetterà) che fa da cerniera tra la produzione giovanile, successivamente ripudiata, e quella matura, iniziata con Gli anni perduti, che Brancati inizia ora a scrivere. Ormai convinto di dover mutare radicalmente il proprio pensiero e il proprio stile, l'anno successivo il giovane scrittore abbandona Roma per tornare in Sicilia, ricominciando da capo nell'esilio autopunitivo della "noia" provinciale e dell'insegnamento negli istituti magistrali.

 

1937. Brancati insegna a Caltanissetta, in quel Magistrale dove il giovane Leonardo Sciascia lo ammirerà a distanza senza avere il coraggio di rivolgerglisi. Intanto ha cominciato a collaborare a «Omnibus» di Longanesi, fucina di anticonformismo politico e letterario, di pungente satira di costume (e infatti Brancati vi pubblica le sue memorabili Lettere al direttore).

 

1938. Pubblica la commedia Questo matrimonio si deve fare e il romanzo breve Sogno di un valzer, mentre su «Omnibus» esce a puntate Gli anni perduti, amara elegia sullo spreco esistenziale e sulle irrealizzabili chimere della gioventù etnea.

 

1941. Pubblica Don Giovanni in Sicilia, scritto a Zafferana, rifugio prediletto alle falde dell'Etna. E' la satira del patetico "gallismo" isolano, ma anche del velleitario tentativo di sottrarsi alle pigre abitudini e ai logori pregiudizi della provincia. Di nuovo a Roma, frequentando ambienti teatrali, Brancati incontra la giovane attrice Anna Proclemer e se ne innamora. Pubblica anche un'antologia dello Zibaldone leopardiano e, nel '42, un'altra dalle Memorie d'oltretomba di Chateaubriand.

 

1943. Pubblica I piaceri, agili essais in cui condensa il suo pensiero e i suoi umori. Bragaglia mette in scena la commedia brancatiana Don Giovanni involontario, sospesa alla quinta replica dalla censura fascista.

 

1945. Esce la raccolta di racconti Il vecchio con gli stivali, tra i quali spicca il racconto omonimo, tragicomico apologo sul trasformismo delle classi dirigenti tra fascismo e post-fascismo.

 

1946. Sposa Anna Proclemer.