Bisogna innanzitutto vivere e lavorare.
Mi è venuta l’idea di parlare del vino e dell’hascisc nello stesso articolo, perché in effetti c’è in loro qualcosa di comune: l’eccessivo sviluppo poetico dell’uomo. L’inclinazione frenetica dell’uomo per tutte le sostanze, salutari o rischiose, che esaltano la sua personalità, testimonia della sua grandezza. Perché aspira sempre a riaccendere le proprie speranze e a elevarsi verso l’infinito. Ma bisogna vedere i risultati. Ecco un liquore che attiva la digestione, fortifica i muscoli e arricchisce il sangue. Preso anche in gran quantità, non causa che disordini momentanei. Ecco una sostanza che interrompe le funzioni digestive, che indebolisce le membra e che può causare un’ebbrezza di ventiquattr’ore. Il vino esalta la volontà, l’hascisc l’annienta. Il vino è un supporto fisico, l’hascisc è un arma per il suicidio. Il vino rende buoni e socievoli. L’hascisc isola. L’uno, per così dire è operoso, l’altro è essenzialmente pigro. Per che cosa, infatti, lavorare, faticare, scrivere, fabbricare qualsiasi cosa, quando si può in un solo istante conquistare il paradiso? Infine il vino è fatto per il popolo che lavora e che merita di berne. L’hascisc appartiene alla classe delle gioie solitarie; è fatto per i miserabili oziosi. Il vino è utile, produce risultati fruttuosi. L’hascisc è inutile e pericoloso.*
* Occorre menzionare solo a titolo di curiosità il tentativo fatto recentemente di applicare l’hascisc alla cura della follia. Il folle che assume l’hascisc contrae una follia che scaccia l’altra, e quando l’ebbrezza è passata, la vera pazzia, che è lo stato normale del folle, riprende il sopravvento, come la ragione e la salute in noi. Qualcuno si è dato la pena di scrivere un libro su questo argomento. Il medico che ha inventato questo bel sistema non è per niente filosofo. C.B.
VII
Termino quest’articolo con alcune belle parole che non sono mie, ma di un eccellente filosofo poco conosciuto, Barbereau, teorico di musica, e professore al Conservatorio. Ero accanto a lui in un gruppo di cui alcune persone avevano preso il felice veleno, e mi parlò con un accento di indicibile disprezzo: «Non capisco perché l’uomo razionale e spirituale si serva di mezzi artificiali per raggiungere la beatitudine poetica, dal momento che l’entusiasmo e la volontà sono sufficienti a innalzarlo a un’esistenza soprannaturale. I grandi poeti, i filosofi, i profeti sono esseri che con il puro e libero esercizio della volontà giungono a uno stato in cui sono contemporaneamente causa ed effetto, soggetto e oggetto, ipnotizzatore e sonnambulo».
La penso esattamente come lui.
I PARADISI ARTIFICIALI
OPPIO E HASCISC
(1860)
A
J. G. F.
Mia cara amica,
Il buon senso ci dice quanto labili siano le cose della terra e che la vera realtà vive solo nei sogni. Per digerire la felicità naturale, come l’artificiale, occorre prima di tutto avere il coraggio di ingoiarla, e quelli che forse meriterebbero la felicità, sono proprio coloro ai quali lo stato di beatitudine, così come la concepiscono i mortali, ha sempre fatto l’effetto di un emetico.
A delle anime sciocche apparirà strano e anche insolente che un quadro di voluttà artificiali sia dedicato a una donna, la più comune sorgente delle più naturali voluttà. Tuttavia è evidente che come il mondo naturale irrompe in quello spirituale, gli serve da nutrimento, e concorre così a operare quell’indefinibile amalgama che noi chiamiamo la nostra individualità, così la donna è l’essere che proietta la più ampia ombra o la più ampia luce nei nostri sogni. La donna è fatalmente suggestiva; vive di un’altra vita più che della propria; vive spiritualmente nelle fantasie che abita e feconda.
D’altronde poco importa che la ragione di questa dedica venga capita. È poi così necessario, per il godimento dell’autore, che un libro qualsiasi sia capito, se non da quello o da quella per cui è stato scritto? Per concludere, infine, è così indispensabile che sia stato scritto per qualcuno? Per quanto mi riguarda, sono così poco preso dal gusto per il mondo vivente che, simile a quelle donne sensibili e oziose che spediscono, si dice, per posta, le loro confidenze ad amici immaginari, volentieri scriverei soltanto per i morti.
Ma non è a una morta che dedico questo piccolo libro, bensì a una che, pur malata, è sempre attiva e viva in me, e che ora volge tutti i suoi sguardi al cielo, luogo di tutte le trasfigurazioni. Perché l’essere umano gode di questo privilegio, di poter impadronirsi di nuove e sottili gioie anche dal dolore, dalla catastrofe e dalla fatalità così come le trae da una temibile droga.
In questo quadro scorgerai un viandante fosco e solitario, immerso nel fluire oscillante delle moltitudini, che volge il cuore e il pensiero a un’Elettra lontana che un tempo asciugava la sua fronte bagnata di sudore e rinfrescava le sue labbra scosse dalla febbre; e tu indovinerai la gratitudine di un altro Oreste di cui spesso hai vigilato gli incubi, e del quale dissipavi, con mano leggera e materna, lo spaventoso sonno.
C.B.
IL POEMA DELL’HASCISC
_I · IL GUSTO DELL’INFINITO
Coloro che sono capaci di osservare se stessi e conservano la memoria delle loro impressioni, coloro che hanno saputo, come Hoffmann, costruire il loro barometro spirituale, hanno, avuto a volte l’occasione di notare-nell’osservatorio del loro pensiero-belle stagioni, felici giornate, deliziosi minuti. Ci sono giorni in cui l’uomo si desta con un genio vergine e vigoroso.
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