Si tinge

Ella ed imbianca, e in se tutta si stringe.

 

 

25

 

E disse al conte: Per guardar ch'io faccia,

Legittimo potere io qui non trovo.

Da molti eletto, acciò che il resto io taccia,

Ricever per legato io non approvo.

Poscia com'un che dal veder discaccia

Scandalo o mostro obbrobrioso e novo.

Tor si fe' quindi i topi, ed in catene

Chiuder sotterra e custodir ben bene.

 

 

26

 

Fatto questo, mandò significando

Al proprio re per la più corta via

L'impensata occorrenza, e supplicando

Che comandasse quel che gli aggradia.

Era quel re, per quanto investigando

Ritrovo, un della terza dinastia

Detta de' Senzacapi, e in su quel trono

Sedea di nome tal decimonono.

 

 

27

 

Rispose adunque il re, che nello stato

Della sedia vacante era l'eletto

Del campo ad accettar come legato;

Tosto quel regno o volontario o stretto

Creasse altro signor; nessun trattato

Egli giammai, se non con tal precetto,

Conchiudesse con lor; d'ogni altro punto

Facesse quel che gli era prima ingiunto.

 

 

28

 

Questo comando al General pervenne

Là 've lui ritrovato aveva il conte,

Perché quivi aspettando egli sostenne

Quel che ordinasse del poter la fonte,

Al cui voler, com'ei l'avviso ottenne,

L'opere seguitàr concordi e pronte;

Trasse i cattivi di sotterra e sciolse,

E sciolto il conte in sua presenza accolse.

 

 

29

 

Il qual, ricerco, espose al Generale

Di sua venuta le ragioni e il fine,

Chiedendo qual destin, qual forza o quale

Violazion di stato o di confine,

Qual danno della roba o personale,

Qual patto o lega, o qual errore alfine

Avesse ai topi sprovveduti e stanchi

Tratto in sul capo il tempestar de' granchi.

 

 

30

 

Sputò, mirossi intorno e si compose

Il General dell'incrostata gente;

E con montana gravita rispose

In questa forma, ovver poco altramente:

Signor topo, di tutte quelle cose

Che tu dimandi, non sappiam niente,

Ma i granchi, dando alle ranocchie aiuto,

Per servar l'equilibrio han combattuto.

 

 

31

 

Che vuol dir questo? ripigliava il conte:

L'acque forse del lago o del pantano,

O del fosso o del fiume o della fonte

Perder lo stato ed inondare il piano,

O venir manco, o ritornare al monte,

O patir altro più dannoso e strano

Sospettavate, in caso che la schiatta

Delle rane da noi fosse disfatta?

 

 

32

 

Non equilibrio d'acqua ma di terra,

Rispose il granchio, è di pugnar cagione,

E il dritto della pace e della guerra

Che spiegherò per via d'un paragone.

Il mondo inter con quanti egli rinserra

Dei pensar che somigli a un bilancione,

Non con un guscio o due, ma con un branco

Rispondenti fra lor, più grandi e manco.

 

 

33

 

Ciaschedun guscio un'animal raccetta,

Che vuol dir della terra un potentato.

In questo un topo, in quello una civetta,

In quell'altro un ranocchio è collocato,

Qui dentro un granchio, e quivi una cutretta

L'uno animal con l'altro equilibrato,

In guisa tal che con diversi pesi

Fanno equilibrio insiem tutti i paesi.

 

 

34

 

Or quando un animal divien più grosso

D'altrui roba o di sua che non soleva,

E un altro a caso o pur da lui percosso

Dimagra sì che in alto si solleva,

Convien subito al primo essere addosso,

Dico a colui che la sua parte aggreva,

E tagliandoli i piè, la coda o l'ali,

Far le bilance ritornare uguali.

 

 

35

 

Queste membra tagliate a quei son porte

Che dimagrando scemo era di peso,

O le si mangia un animal più forte,

Ch'a un altro ancor non sia buon contrappeso,

O che, mangiate, ne divien di sorte

Che può star su due gusci a un tempo steso,

E l'equilibrio mantenervi salvo

Quinci col deretan quindi con l'alvo.

 

 

36

 

Date sien queste cose e non concesse,

Rispose al granchio il conte Leccafondi,

Ma qual nume ordinò che presedesse

All'equilibrio general de' mondi

La nazion de' granchi e ch'attendesse

A guardar se più larghi o se più tondi

Fosser che non dovean topi o ranocchi

Per trar loro o le polpe o il naso o gli occhi?

 

 

37

 

Noi, disse il General, siam birri appunto

D'Europa e boia e professiam quest'arte.

Nota, saggio lettor, ch'io non so punto

Se d'Europa dicesse o d'altra parte,

Perché, confesso il ver, mai non son giunto

Per molto rivoltar le antiche carte

A discoprir la regione e il clima

Dove i casi seguìr ch'io pongo in rima.

 

 

38

 

Ma detto ho dell'Europa seguitando

Del parlar nostro la comune usanza;

Ora al parlar del granchio ritornando,

In nostra guardia, aggiunse, è la costanza

Degli animai nell'esser primo, e quando

Di novità s'accorge o discrepanza

Dove che sia, là corre il granchio armato

E ritorna le cose al primo stato.

 

 

39

 

Chi tal carco vi diè? richiese il conte:

La crosta, disse, di che siam vestiti,

E l'esser senza né cervel né fronte,

Sicuri, invariabili, impietriti

Quanto il corallo ed il cristal di monte

Per durezza famosi in tutti i liti:

Questo ci fa colonne e fondamenti

Della stabilità dell'altre genti.

 

 

40

 

Or lasciam le ragioni e le parole,

Soggiunse l'altro, e discendiamo ai fatti.

Da' topi il re de' granchi oggi che vuole?

Vuole ancor guerra e strage, a tutti i patti?

O consente egli pur, com'altri suole,

Che qui d'accordo e d'amistà si tratti?

E quale, in caso tal, condizione

D'accordo e d'amistà ci si propone?

 

 

41

 

Sputò di nuovo e posesi in assetto

Il General de' granchi, e così disse:

Dalla tua razza immantinente eletto

Sia novello signor. Guerre né risse

Aver con le ranocchie a lui disdetto

Per sempre sia. Le sorti a color fisse

Saran dal nostro, a cui ricever piacque

Nella tutela sua lor terre ed acque.

 

 

42

 

Un presidio in Topaia alloggerete

Di trentamila granchi, ed in lor cura

Il castello con l'altro riporrete,

S'altro v'ha di munito entro le mura.

Da mangiare e da ber giusta la sete

Con quanto è di bisogno a lor natura

E doppia paga avran per ciascun giorno

Da voi, finché tra voi faran soggiorno.

 

 

43

 

Dicendo il conte allor che non aveva

Poter da' suoi d'acconsentire a tanto,

E che tregua fermar si richiedeva

Per poter quelli ragguagliare intanto,

Rispose il General che concedeva

Tempo quindici dì, né dal suo canto

Moveria l'oste; e quel passato invano,

Ver Topaia verrebbe armata mano.

 

 

44

 

Così di Leccafondi e del guerriero

Brancaforte il colloquio si disciolse:

E senza indugio alcuno il messaggero

De' topi a ritornar l'animo volse,

All'uso della tregua ogni pensiero

Avendo inteso; e tosto i suoi raccolse.

Nel partir poche rane ebbe vedute

Per negozi nel campo allor venute.

 

 

45

 

Le riconobbe, che nel lor paese

Contezza ebbe di lor quando oratore

Là ritrovossi, ed or da quelle intese

L'amorevole studio e il gran favore

Che prestava ai ranocchi a loro spese

Il re de' granchi, il qual sotto colore

Di protegger da' topi amico stato,

Ogni cosa in sua forza avea recato.

 

 

46

 

E che d'oro giammai sazio non era,

Né si dava al re lor veruno ascolto.

Pietà ne prese il conte, e con sincera

Loquela i patrii dei ringraziò molto,

Che dell'altrui protezion men fera

Calamità su i topi avean rivolto.

Poi dalle rane accommiatato, il calle

Libero prese, e il campo ebbe alle spalle.

 

 

 

CANTO TERZO

 

1

 

Intanto Rubatocchi avea ridotte

Le sue schiere in Topaia a salvamento,

Dove per più d'un giorno e d'una notte

Misto fu gran dolor con gran contento.

Chi gode in riveder, chi con dirotte

Lacrime chiama il suo fratello spento,

Altri il padre o il marito, altri la prole,

Altri del regno e dell'onor si dole.

 

 

2

 

Era Topaia, acciò che la figura

E il sito della terra io vi descriva,

Tutta con ammirabile struttura

Murata dentro d'una roccia viva,

La qual era per arte o per natura

Cavata sì che una capace riva

Al Sol per sempre ed alle stelle ascosta

Nell'utero tenea come riposta.

 

 

3

 

Ricordivi a ciascun se la montagna

Che d'Asdrubale il nome anche ritiene,

Là 've Livio e Neron per la campagna

Sparser dell'Affrican l'armi e la spene,

Varcaste per la strada ove compagna

L'eterea luce al viator non viene,

Sotterranea, sonora, onde a grand'arte

Schiuso è il monte dall'una all'altra parte:

 

 

4

 

O se a Napoli presso, ove la tomba

Pon di Virgilio un'amorosa fede,

Vedeste il varco che del tuon rimbomba

Spesso che dal Vesuvio intorno fiede,

Colà dove all'entrar subito piomba

Notte in sul capo al passegger che vede

Quasi un punto lontan d'un lume incerto

L'altra bocca onde poi riede all'aperto:

 

 

5

 

E queste avrete immagini bastanti

Del loco ove Topaia era fondata,

La qual per quattro bocche a quattro canti

Della montagna posta avea l'entrata,

Cui turando con arte a tutti quanti

Chiusa non sol ma rimanea celata,

In guisa tal che la città di fuore

Accusar non potea se non l'odore.

 

 

6

 

Dentro palagi e fabbriche reali

Sorgean di molto buona architettura,

Collegi senza fine ed ospedali

Vòti sempre, ma grandi oltre misura,

Statue, colonne ed archi trionfali,

E monumenti alfin d'ogni natura.

Sopra un masso ritondo era il castello

Forte di sito a maraviglia e bello.

 

 

7

 

Come chi d'Apennin varcato il dorso

Presso Fuligno, per la culta valle

Cui rompe il monte di Spoleto il corso

Prende l'aperto e dilettoso calle,

Se il guardo lieto in su la manca scorso

Leva d'un sasso alle scoscese spalle,

Bianco, nudato d'ogni fior, d'ogni erba,

Vede cosa onde poi memoria serba,

 

 

8

 

Di Trevi la città, che con iscena

D'aerei tetti la ventosa cima

Tien sì che a cerchio con l'estrema schiena

Degli estremi edifizi il piè s'adima;

Pur siede in vista limpida e serena

E quasi incanto il viator l'estima,

Brillan templi e palagi al chiaro giorno,

E sfavillan finestre intorno intorno;

 

 

9

 

Cotal, ma privo del diurno lume

Veduto avreste quel di ch'io favello,

Del polito macigno in sul cacume

Fondato solidissimo castello.

Ch'al margine affacciato oltre il costume

Quasi precipitar parea con quello.

Da un lato sol per un'angusta via

Con ansia e con sudor vi si salia.

 

 

10

 

Luce ai topi non molto esser mestieri

Vede ciascun di noi nella sua stanza,

Che chiusi negli armadi e nei panieri

Fare ogni lor faccenda han per usanza,

E spente le lucerne e i candelieri

Vengon poi fuor la notte alla lor danza.

Pur se luce colà si richiedea

Talor, con faci ognun si provvedea.

 

 

11

 

D'Ercolano così sotto Resina,

Che d'ignobili case e di taverne

Copre la nobilissima ruina,

Al tremolar di pallide lucerne

Scende a veder la gente pellegrina

Le membra afflitte e pur di fama eterne,

Magioni e scene e templi e colonnati

Allo splendor del giorno ancor negati.

 

 

12

 

Certo se un suol germanico o britanno

Queste ruine nostre ricoprisse,

Di faci a visitar l'antico danno

Più non bisogneria ch'uom si servisse,

E d'ogni spesa in onta e d'ogni affanno

Pompei, ch'ad ugual sorte il fato addisse,

All'aspetto del Sol tornata ancora

Tutta, e non pur sì poca parte fora.

 

 

13

 

Vergogna sempiterna e vitupero,

D'Italia non dirò, ma di chi prezza

Disonesto tesor più che il mistero

Dell'aurea antichità porre in chiarezza,

E riscossa di terra allo straniero,

Mostrare ancor l'italica grandezza.

Lor sia data dal ciel giusta mercede,

Se pur ciò non indarno al ciel si chiede.

 

 

14

 

E mercé s'abbia non di riso e d'ira,

Di ch'ebbe sempre assai, ma d'altri danni

L'ipocrita canaglia, onde sospira

L'Europa tutta invan tanti e tanti anni

I papiri ove cauta ella delira,

Scacciando ognun, su i mercenari scanni;

Razza a cagion di cui mi dorrebb'anco

Se boia e forche ci venisser manco.

 

 

15

 

Tornando ai topi, a cui dagli scaffali

Di questi furbi agevole è il ritorno,

Vincea Topaia allor le principali

Città dal tramontano al mezzogiorno,

O rare assai fra quelle aveva uguali,

Proprio de' topi e natural soggiorno,

Là dove consistea massimamente

Il regno e il fior della topesca gente.

 

 

16

 

Perché lunge di là stabil dimora

Avean pochi o nessun di lor legnaggio,

Salvo in colonie, ove soleano allora

Finir le genti or questo or quel viaggio.

Ciò ben sapete lungo tempo ancora

Più d'un popolo usò civile e saggio:

Chiudea sola una cerchia un regno intero,

Che per colonie distendea l'impero.

 

 

17

 

Potete immaginar quale infinita

Turba albergò Topaia entro sue mura.

Di Statistica ancor non s'era udita

La parola a quei dì per isventura,

Ma di più milioni aver compita

Color la quantità s'ha per sicura

Sentenza, e con Topaia oggi si noma

Ninive e Babilonia e Menfi e Roma.

 

 

18

 

Tornato dunque, come sopra ho detto,

L'esercito de' topi alla cittade,

E cessato il picchiar le palme e il petto

Pei caffè, per le case e per le strade,

Cedendo all'amor patrio ogni altro affetto,

Od al timor, come più spesso accade,

Del ritorno a cercar del messaggero

Fu volto con le lingue ogni pensiero.

 

 

19

 

Perché parea che nel saper l'intento

Degl'inimici consistesse il tutto,

E fosse senza tal conoscimento

Ogni consiglio a caso e senza frutto,

Né trattar del durabil reggimento

Del regno aver potesse alcun costrutto,

Se la tempesta pria non si quetasse

Ch'ogni estremo parea che minacciasse.

 

 

20

 

Ma per quei giorni sospirata invano

La tornata del conte alla sua terra,

Il qual, venuto a fera gente in mano,

Regii cenni attendea prigion sotterra,

Crescendo dell'ignoto e del lontano

L'ansia e la tema, ed a patir la guerra

Parendo pur, se guerra anco s'avesse,

Che lo stato ordinar si richiedesse;

 

 

21

 

Giudicò Rubatocchi e i principali

Della città con lui, di non frapporre

Più tempo, né dar loco a novi mali,

Ma prestamente il popolo raccorre,

E le gravi materie e capitali

Del reggimento in pubblico proporre,

Sì ch'ai rischi di fuor tornando l'oste

Dentro le cose pria fosser composte.

 

 

22

 

Ben avria Rubatocchi, e per le molte

Parentele sue nobili e potenti,

E perché de' soldati in lui rivolte

Con amor da gran tempo eran le menti,

E per quel braccio che dal mondo tolte

Cotante avea delle nemiche genti,

Potuto ritener quel già sovrano

Poter che il fato gli avea posto in mano.

 

 

23

 

E spontanei non pochi a lui venendo

Capi dell'armi e principi e baroni,

Confortandolo giano ed offerendo

Se pronti a sostener le sue ragioni.

Ma ributtò l'eroe con istupendo

Valor le vili altrui persuasioni,

E il dar forma allo stato e il proprio impero

Nell'arbitrio comun rimise intero.

 

 

24

 

Degno perciò d'eterna lode, al quale

Non ha l'antica e la moderna istoria

Altro da somigliar non ch'altro uguale,

Quanto or so rinvenir con la memoria,

Fuor tre d'inclita fama ed immortale,

Timoleon corintio ed Andrea Doria,

In sul fianco di qua dall'oceano,

E Washington dal lato americano.

 

 

25

 

Dei quali per pudor, per leggiadria

Vera di fatti e probità d'ingegno,

Negar non vo né vo tacer che sia

Quantunque italian Doria il men degno,

Ma perfetta bontà non consentia

Quel secolo infelice, ov'ebbe regno

Ferocia con arcano avvolgimento,

E viltà di pensier con ardimento.

 

 

26

 

Deserto è la sua storia, ove nessuno

D'incorrotta virtude atto si scopre,

Cagion che sopra ogni altra a ciascheduno

Fa grato il riandar successi ed opre;

Tedio il resto ed obblio, salvo quest'uno

Sol degli eroici fatti alfin ricopre,

Del cui santo splendor non è beato

Il deserto ch'io dico in alcun lato.

 

 

27

 

Maraviglia è colà che s'appresenti

Maurizio di Sassonia alla tua vista,

Che con mille vergogne e tradimenti

Gran parte a' suoi di libertade acquista,

Egmont, Orange, a lor grandezza intenti

Lor patria liberando oppressa e trista,

E quel miglior che invia con braccio forte

Il primo duca di Firenze a morte.

 

 

28

 

Né loco d'ammirar vi si ritrova,

Se d'ammirar colui non vi par degno,

Che redando grandezze antiche innova,

Non già virtudi, e che di tanto regno

Se minor dimostrando in ogni prova,

Par che mirar non sappia ad alcun segno,

Cittadi alternamente acquista e perde,

E il fior d'Europa in Affrica disperde.

 

 

29

 

Non di cor generoso e non abbietto,

Non infedel né pio, crudo né mite,

Non dell'iniquo amante e non del retto,

Or servate promesse ed or tradite,

Al grande, al bel non mai volto l'affetto,

Non agevoli imprese e non ardite,

Due prenci imprigionati in suo potere

Né liberi sa far, né ritenere.

 

 

30

 

Alfin di tanto suon, tanta possanza

Nessuno effetto riuscir si vede,

Anzi il gran fascio che sue forze avanza

Gitta egli stesso e volontario cede,

La cui mole che invan passò l'usanza

Divide e perde infra più d'uno erede;

Poi chiuso in monacali abiti involto

Gode prima che morto esser sepolto.

 

 

31

 

O costanza, o valor de' prischi tempi!

Far gran cose di nulla era vostr'arte,

Nulla far di gran cose età di scempi

Apprese da quel dì che il nostro marte

Costantin, pari ai più nefandi esempi,

Donò col nostro scettro ad altra parte.

Tal differenza insiem han del romano

Vero imperio gli effetti, e del germano.

 

 

32

 

Non d'onore appo noi, ma d'odio e sdegno

Han gara i sommi di quel secol bruno.

Né facilmente a chi dovuto il regno

Dell'odio sia giudicherebbe alcuno,

Se tu, portento di superbia e pegno

D'ira del ciel, non superassi ognuno,

O secondo Filippo, austriaca pianta,

Di cui Satan maestro ancor si vanta.

 

 

33

 

Tant'odio quanto è sul tuo capo accolto

De' tuoi pari di tempo e de' nepoti,

Altro mai non portò vivo o sepolto,

O ne' prossimi giorni o ne' remoti.

Tu nominato ogni benigno volto

Innaspri ed ogni cor placido scoti,

Stupendo in ricercar nell'ira umana

La più vivace ed intima fontana.

 

 

34

 

Dopo te quel grandissimo incorono

Duca d'Alba che quasi emulo ardisce

Contender teco, e il general perdono,

Tutti escludendo, ai Batavi bandisce.

Nobile esempio e salutar, che al trono

De' successori tuoi tanto aggradisce,

A cui d'Olanda il novo sdegno e il tanto

Valor si debbe ed il tuo giogo infranto.

 

 

35

 

Ma di troppo gran tratto allontanato

Son da Topaia, e là ritorno in fretta,

Dove accolto, o lettori, in sul mercato

Un infinito popolo m'aspetta,

Che un infinito cicalar di stato

Ode o presume udir, loda o rigetta,

E si consiglia o consigliarsi crede,

E fa leggi o di farle ha certa fede.

 

 

36

 

Chi dir potria le pratiche, i maneggi,

Le discordie, il romor, le fazioni

Che soglion accader quando le greggi

Procedono a sì fatte elezioni,

Per empier qual si sia specie di seggi,

Non che sforniti rifornire i troni?

Tutto ciò fra coloro intervenia,

E da me volentier si passa via.

 

 

37

 

E la conclusion sola toccando,

Dico che dopo un tenzonare eterno

All'alba ed alle squille, or disputando

Dello stato di fuori, or dell'interno,

Novella monarchia fu per comando

Del popol destinata al lor governo:

Una di quelle che temprate in parte

Son da statuti che si chiaman carte.

 

 

38

 

Se d'Inghilterra più s'assomigliasse

Allo statuto o costituzione,

Com'oggi il nominiamo, o s'accostasse

A quel di Francia o d'altra nazione,

Con parlamenti o corti alte o pur basse,

Di pubblica o di regia elezione,

Doppio o semplice alfin, come in Ispagna,

Lo statuto de' topi o carta magna,

 

 

39

 

Da tutto quel che degli antichi ho letto

Dintorno a ciò, raccor non si potria.

Questo solo affermar senza sospetto

D'ignoranza si può né di bugia,

Essere stato il prence allora eletto

Da' topi, e la novella signoria,

Quel che, se in verso non istesse male,

Avrei chiamato costituzionale.

 

 

40

 

Deputato a regnar fu Rodipane,

Genero al morto re Mangiaprosciutti.

Così quando Priamo alle troiane

Genti e di sua radice i tanti frutti

Mancàr, fuggendo a regioni estrane

Sotto il genero Enea convenner tutti:

Perché di regno alfin sola ci piace

La famiglia real creder capace.

 

 

41

 

E quella estinta, i prossimi di sangue

E poscia ad uno ad un gli altri parenti

Cerchiam di grado in grado insin che langue

Il regio umor negli ultimi attenenti.

Né questo in pace sol, ma quando esangue

Il regno è omai per aspri trattamenti,

Allor per aspra e sanguinosa via

Ricorre in armi a nova dinastia.

 

 

42

 

E quando per qualunque altra occorrenza

Mutando stato il pristino disgombra,

Di qualche pianta di real semenza

Sempre s'accoglie desioso all'ombra.

Qual pargoletto che rimasto senza

La gonna che il sostiene e che l'adombra,

Dopo breve ondeggiar tosto col piede,

Gridando, e con la man sopra vi riede.

 

 

43

 

O come ardita e fervida cavalla

Che di mano al cocchier per gioco uscita,

A gran salti ritorna alla sua stalla,

Dove sferza, e baston forse, l'invita;

O come augello il vol subito avvalla

Dalle altezze negate alla sua vita,

Ed alla fida gabbia ove soggiorna

Dagli anni acerbi, volontario torna.

 

 

44

 

Re cortese, per altro, amante e buono

Veggo questo in antico esser tenuto,

Memore ognor di quanto appiè del trono

Soggetto infra soggetti era vissuto:

Al popol in comun per lo cui dono,

E non del cielo, al regno era venuto,

Riconoscente; e non de' mali ignaro

Di questo o quel, né di soccorso avaro.

 

 

45

 

E lo statuto o patto che accettato

Dai cittadini avea con giuramento,

Trovo che incontro allo straniero armato

Difese con sincero intendimento,

Né perché loco gliene fosse dato,

Di restarsene sciolto ebbe talento.

Di questo, poi che la credenza eccede,

Interpongo l'altrui, non la mia fede.

 

 

 

 

CANTO QUARTO

 

1

 

Maraviglia talor per avventura,

Leggitori onorandi e leggitrici,

Cagionato v'avrà questa lettura.

E come son degli uomini i giudici

Facili per usanza e per natura,

Forse, benché benevoli ed amici,

Più d'un pensiero in mente avrete accolto,

Ch'essere io deggia o menzognero o stolto,

 

 

2

 

Perché le cose del topesco regno,

Che son per vetustà da noi lontane

Tanto che come appar da più d'un segno,

Agguaglian le antichissime indiane,

I costumi, il parlar, l'opre, l'ingegno,

E l'infime faccende e le sovrane,

Quasi ieri o l'altr'ier fossero state,

Simili a queste nostre ho figurate.

 

 

3

 

Ma con la maraviglia ogni sospetto

Come una nebbia vi torrà di mente

Il legger, s'anco non avete letto,

Quel che i savi han trovato ultimamente,

Speculando col semplice intelletto

Sopra la sorte dell'umana gente,

Che d'Europa il civil presente stato

Debbe ancor primitivo esser chiamato.

 

 

4

 

E che quei che selvaggi il volgo appella

Che nei più caldi e nei più freddi liti

Ignudi al sole, al vento, alla procella,

E sol di tetto natural forniti,

Contenti son da poi che la mammella

Lasciàr, d'erbe e di vermi esser nutriti,

Temon l'aure, le frondi, e che disciolta

Dal Sol non caggia la celeste volta;

 

 

5

 

Non vita naturale e primitiva

Menan, come fin qui furon creduti,

Ma per corruzion sì difettiva,

Da una perfetta civiltà caduti,

Nella qual come in propria ed in nativa

I padri de' lor padri eran vissuti:

Perché stato sì reo, come il selvaggio,

Estimar natural non è da saggio:

 

 

6

 

Non potendo mai star che la natura,

Che al ben degli animali è sempre intenta,

E più dell'uom che principal fattura

Esser di quella par che si consenta

Da tutti noi, sì povera e sì dura

Vita ove pur pensando ei si sgomenta,

Come propria e richiesta e conformata

Abbia al genere uman determinata.

 

 

7

 

Né manco sembra che possibil sia

Che lo stato dell'uom vero e perfetto

Sia posto in capo di sì lunga via

Quanta a farsi civile appar costretto

Il gener nostro a misurare in pria,

U' son cent'anni un dì quanto all'effetto:

Sì lento è il suo cammin per quelle strade

Che il conducon dal bosco a civiltade.

 

 

8

 

Perché ingiusto e crudel sarebbe stato,

Né per modo nessun conveniente,

Che all'infelicità predestinato,

Non per suo vizio o colpa anzi innocente,

Per ordin primo e natural suo fato

Fosse un numero tal d'umana gente,

Quanta nascer convenne, e che morisse

Prima che a civiltà si pervenisse.

 

 

9

 

Resta che il viver zotico e ferino

Corruzion si creda e non natura,

E che ingiuria facendo al suo destino

Caggia quivi il mortal da grande altura,

Dico dal civil grado, ove il divino

Senno avea di locarlo avuto cura:

Perché se al ciel non vogliam fare oltraggio,

Civile ei nasce, e poi divien selvaggio.

 

 

10

 

Questa conclusion che ancor che bella

Parravvi alquanto inusitata e strana,

Non d'altronde provien se non da quella

Forma di ragionar diritta e sana

Ch'a priori in iscola ancora s'appella,

Appo cui ciascun'altra oggi par vana,

La qual per certo alcun principio pone,

E tutto l'altro a quel piega e compone.

 

 

11

 

Per certo si suppon che intenta sia

Natura sempre al ben degli animali,

E che gli ami di cor come la pia

Chioccia fa del pulcin che ha sotto l'ali:

E vedendosi al tutto acerba e ria

La vita esser che al bosco hanno i mortali,

Per forza si conchiude in buon latino

Che la città fu pria del cittadino.

 

 

12

 

Se libere le menti e preparate

Fossero a ciò che i fatti e la ragione

Sapessero insegnar, non inchinate

A questa più che a quella opinione,

Se natura chiamar d'ogni pietate

E di qual s'è cortese affezione

Sapesser priva, e de' suoi figli antica

E capital carnefice e nemica;

 

 

13

 

O se piuttosto ad ogni fin rivolta,

Che al nostro che diciamo o bene o male;

E confessar che de' suoi fini è tolta

La vista al riguardar nostro mortale,

Anzi il saper se non da fini sciolta

Sia veramente, e se ben v'abbia, e quale;

Diremmo ancor con ciascun'altra etade

Che il cittadin fu pria della cittade.

 

 

14

 

Non è filosofia se non un'arte

La qual di ciò che l'uomo è risoluto

Di creder circa a qualsivoglia parte,

Come meglio alla fin l'è conceduto,

Le ragioni assegnando empie le carte

O le orecchie talor per instituto,

Con più d'ingegno o men, giusta il potere

Che il maestro o l'autor si trova avere.

 

 

15

 

Quella filosofia dico che impera

Nel secol nostro senza guerra alcuna,

E che con guerra più o men leggera

Ebbe negli altri non minor fortuna,

Fuor nel prossimo a questo, ove se intera

La mia mente oso dir, portò ciascuna

Facoltà nostra a quelle cime il passo

Onde tosto inchinar l'è forza al basso.

 

 

16

 

In quell'età, d'un'aspra guerra in onta,

Altra filosofia regnar fu vista,

A cui dinanzi valorosa e pronta

L'età nostra arretrossi appena avvista

Di ciò che più le spiace e che più monta,

Esser quella in sostanza amara e trista;

Non che i principii in lei né le premesse

Mostrar false da se ben ben sapesse.

 

 

17

 

Ma false o vere, ma disformi o belle

Esser queste si fosse o no mostrato,

Le conseguenze lor non eran quelle

Che l'uom d'aver per ferme ha decretato,

E che per ferme avrà fin che le stelle

D'orto in occaso andran pel cerchio usato:

Perché tal fede in tali o veri o sogni

Per sua quiete par che gli bisogni.

 

 

18

 

Ed ancor più, perché da lunga pezza

È la sua mente a cotal fede usata,

Ed ogni fede a che sia quella avvezza

Prodotta par da coscienza innata:

Che come suol con grande agevolezza

l'usanza con natura esser cangiata,

Così vien facilmente alle persone

Presa l'usanza lor per la ragione.

 

 

19

 

Ed imparar cred'io che le più volte

Altro non sia, se ben vi si guardasse,

Che un avvedersi di credenze stolte

Che per lungo portar l'alma contrasse,

E del fanciullo racquistar con molte

Cure il saper ch'a noi l'età sottrasse;

Il qual già più di noi non sa né vede,

Ma di veder né di saper non crede.

 

 

20

 

Ma noi, s'è fuor dell'uso, ogni pensiero

Assurdo giudichiam tosto in effetto,

Né pensiam ch'un assurdo il mondo e il vero

Esser potrebbe al fral nostro intelletto:

E mistero gridiam, perch'a mistero

Riesce ancor qualunque uman concetto,

Ma i misteri e gli assurdi entro il cervello

Vogliam foggiarci come a noi par bello.

 

 

21

 

Or, leggitori miei, scendendo al punto

Al qual per lunga e tortuosa via

Sempre pure intendendo, ecco son giunto,

Potete ormai veder che non per mia

Frode o sciocchezza avvien che tali appunto

Si pingan nella vostra fantasia

De' topi gli antichissimi parenti

Quali i popoli son che abbiam presenti:

 

 

22

 

Ma procede da ciò, che il nostro stato

Antico è veramente e primitivo

Non degli uomini sol, ma in ogni lato

D'ogni animal che in aria o in terra è vivo.

Perché ingiusto saria che condannato

Fosse di sua natura a un viver privo

Quasi d'ogni contento e pien di mali

L'interminato stuol degli animali.

 

 

23

 

Per tanto in civiltà, data secondo

Il grado naturale a ciascheduna,

Tutte le specie lor vennero al mondo,

E tutte poscia da cotal fortuna

Per lor proprio fallir caddero in fondo,

E infelici son or; né causa alcuna

Ha il ciel però dell'esser lor sì tristo

Il qual bene al bisogno avea provvisto.

 

 

24

 

E se colma d'angoscia e di paura

Del topolin la vita ci apparisce,

Il qual mirando mai non s'assicura,

Fugge e per ogni crollo inorridisce,

Corruzion si creda e non natura

La miseria che il topo oggi patisce,

A cui forse il menàr quei casi in parte

Che seguitando narran queste carte.

 

 

25

 

E la dispersion della sua schiatta

Ebbe forse d'allor cominciamento,

La qual raminga in su la terra è fatta.

Perduto il primo e proprio alloggiamento.

Come il popol giudeo, che mal s'adatta

Esule, sparso, a cento sedi, e cento,

E di Solima il tempio e le campagne

Di Palestina si rammenta e piagne.

 

 

26

 

Ma il novello signor giurato ch'ebbe

Servar esso e gli eredi eterno il patto,

Incoronato fu come si debbe,

E il manto si vestì di pel di gatto,

E lo scettro impugnò, che d'auro crebbe,

Nella cui punta il mondo era ritratto,

Perché credeva allor del mondo intero

La specie soricina aver l'impero.

 

 

27

 

Dato alla plebe fu cacio con polta,

E vin vecchio gittàr molte fontane,

Gridando ella per tutto allegra e folta

Viva la carta e viva Rodipane,

Tal ch'eccheggiando quell'alpestre volta

Carta per tutto ripeteva e pane,

Cose al governo delle culte genti,

Chi le sa ministrar, sufficienti.

 

 

28

 

Re de' topi costui con nuovo nome,

O suo trovato fosse o de' soggetti.

S'intitolò, non di Topaia, come

Propriamente in addietro s'eran detti

I portatori di quell'auree some.

Cosa molto a notar, che negli effetti

Differisce d'assai, benché non paia,

S'alcun sia re de' topi o di Topaia.

 

 

29

 

La noto ancor, però che facilmente

Nella cronologia non poco errato

Potrebbe andar chi non ponesse mente

A questo metafisico trovato,

E creder che costui primieramente

Rodipan fra quei re fosse nomato,

Quando un Rodipan terzo avanti a questo

Da libri e da monete è manifesto,

 

 

30

 

Primo fra' re de' topi, ma contando

Quei di Topaia ancor, s'io bene estimo,

Fu quarto Rodipan. Questo ignorando

Può la cronologia da sommo ad imo

Andar sossopra. A ciò dunque ovviando

Notate che costui Rodipan primo,

E il notin gli eruditi e i filotopi,

Fra i re de' topi fu, non fra i re topi.

 

 

31

 

Non era il festeggiar finito ancora

Quando giunse dal campo il messaggero,

Non aspettato ormai, che la dimora

Sua lunga aveane sgombro ogni pensiero;

Né desiato più, che insino allora

Soleano i sogni più gradir che il vero.

Sogni eran gli ozi brevi e l'allegria,

Ver ciò che il conte a rapportar venia.

 

 

32

 

Immantinente poi che divulgato

Fu per fama in Topaia il suo ritorno,

Interrotto il concorso ed acchetato

Il giulivo romor fu d'ogni intorno.

Tristo annunzio parea quel che bramato

E sospirato avean pur l'altro giorno,

Perché già per obblio fatte sicure

Destava l'alme ai dubbi ed alle cure.

 

 

33

 

Prestamente il legato a Rodipane

L'umor del granchio e l'aspre leggi espose,

E nel maggior consiglio la dimane

Per mandato del re l'affar propose.

Parver l'esposte leggi inique e strane,

Fatti sopra vi fur comenti e chiose,

Alfin per pace aver dentro e di fuore

A tutto consentir parve il migliore.

 

 

34

 

Tornò nel campo ai rigidi contratti

Il conte con famigli e con arnesi,

E l'accordo fermò secondo i patti

Che già per le mie rime avete intesi.

Soscriver non sapea, né legger gli atti

Il granchio, arti discare a' suoi paesi;

Ma lesse e confermò con la sua mano

Un ranocchio che allor gli era scrivano.

 

 

35

 

Ratto uno stuol di trentamila lanzi

Ver Topaia lietissimo si mosse,

A doppie paghe e più che doppi pranzi,

Benché rato l'accordo ancor non fosse,

E nella terra entrò, dietro e dinanzi

Schernito per le vie con le più grosse

Beffe che immaginar sapea ciascuno,

Non s'avvedendo quelli in modo alcuno.

 

 

36

 

Nel superbo castel furo introdotti,

Dove l'insegna lor piantata, e sciolta,

Poser mano a votar paiuoli e botti,

E sperar pace i topi un'altra volta.

Lieti i giorni tornàr, liete le notti,

Ch'ambo sovente illuminar con molta

Spesa fece il comun per l'allegria

Dell'acquistata nuova monarchia.

 

 

37

 

Ma quel che più rileva, a far lo stato

Prospero quanto più far si potesse

Del popolo in comune e del privato

Fama è che cordialmente il re si desse.

Il qual subito poi che ritornato

Fu Leccafondi, consiglier lo elesse,

Ministro dell'interno e principale

Strumento dell'impero in generale.

 

 

38

 

Questi a rimover l'ombra ed all'aumento

Di civiltà rivolse ogni sua cura,

Sapendo che con altro fondamento

Prosperità di regni in piè non dura,

E che civile e saggia, il suo contento

La plebe stessa ed il suo ben procura

Meglio d'ogni altro, né favor né dono,

Fuor ch'esser franca, l'è mestier dal trono.

 

 

39

 

E bramò che sapesse il popol tutto

Leggere e computar per disciplina

Stimando ciò, cred'io, maggior costrutto,

Che non d'Enrico quarto la gallina.

Quindi nella città fe' da per tutto

Tante scole ordinar, che la mattina

Piazze, portici e vie per molti dì

Non d'altro risonàr che d'a b c.

 

 

40

 

Crescer più d'una cattedra o lettura

Anco gli piacque a ciaschedun liceo,

Con più dote che mai per avventura

Non ebbe professor benché baggeo.

Dritto del topo, dritto di natura,

Ed ogni dritto antegiustinianeo,

E fuvvi col civil, col criminale

Esposto il dritto costituzionale.

 

 

41

 

E già per la fidanza ond'è cagione

All'alme un convenevol reggimento,

D'industria a rifiorir la nazione

Cominciava con presto accrescimento.

Compagnie di ricchissime persone

Cercar da grandi spese emolumento,

D'orti, bagni, ginnasi e ciascun giorno

Vedevi il loco novamente adorno.

 

 

42

 

Vendite nuove ed utili officine

Similmente ogni dì si vedean porre,

Merci del loco e merci pellegrine

In copia grande ai passeggeri esporre,

Stranie commodità far cittadine,

Nuovi teatri il popolo raccorre,

Qui strade a raccorciar la plebe intenta,

Là d'un palagio a por le fondamenta.

 

 

43

 

Concorde intanto la città con bianchi

Voti il convegno ricevuto avea,

E che di quello dal signor de' granchi

Fosse fatto altrettanto s'attendea.

Andando e ritornando eran già stanchi

Più messi, e nulla ancor si conchiudea,

Tanto che in fin dei principali in petto

Nascea, benché confuso, alcun sospetto.

 

 

44

 

Senzacapo re granchio il più superbo

De' prenci di quel tempo era tenuto,

Nemico ostinatissimo ed acerbo

Del nome sol di carta o di statuto,

Che il poter ch'era in lui senza riserbo

Partir con Giove indegno avria creduto.

Se carta alcun sognò dentro il suo regno

Egli in punirlo esercitò l'ingegno.

 

 

45

 

E cura avea che veramente fosse

Con perfetto rigor la pena inflitta,

Né dalle genti per pietà commosse

Qualche parte di lei fosse relitta,

E il numero e il tenor delle percosse

Ricordava e la verga a ciò prescritta.

Buon sonator per altro anzi divino

La corte il dichiarò di violino.

 

 

46

 

Questi poiché con involute e vaghe

Risposte ebbe gran tempo ascoso il vero,

Al capitan di quei che doppie paghe

Già da' topi esigean senza mistero

Ammessi senza pugna e senza piaghe,

Mandò, quando gli parve, un suo corriero.

Avea quel capitan fra i parlatori

Della gente de' granchi i primi onori.

 

 

47

 

Forte nei detti sì che per la forte

Loquela il dimandar Boccaferrata.

Il qual venuto alle reali porte

Chiese udienza insolita e privata.

Ed intromesso, fe', come di corte,

Riverenza per granchio assai garbata:

Poi disse quel che riposato alquanto

Racconterò, lettor, nell'altro canto.

 

 

 

CANTO QUINTO

 

1

 

Signor, disse, che tale esser chiamato

Dei pel sangue che porti entro le vene,

Il qual certo sappiam che derivato

Da sorgente real ne' tuoi perviene

E perché di sposar fosti degnato,

Colei che sola in vita ancor mantiene,

Caduti tutti gli altri augusti frutti,

La famiglia del re Mangiaprosciutti;

 

 

2

 

Degno quant'altro alcun di regio trono

T'estima il signor mio per ogni punto,

Ma il sentiero, a dir ver, crede non buono

Per cui lo scettro ad impugnar sei giunto.

Tai che a poter ben darlo atti non sono,

T'hanno ai ben meritati onori assunto.

Ma re fare o disfar, come ben sai,

Altro ch'a' re non s'appartenne mai.

 

 

3

 

Se vedovo per morte il seggio resta

Che legittimamente era tenuto,

Né la succession sia manifesta

Per discendenza o regio altro statuto,

Né men per testamento in quella o in questa

Forma dal morto re sia provveduto,

Spontaneamente al derelitto regno

S'adopran gli altri re di por sostegno.

 

 

4

 

O un successore è dato a quella sede

Che sia da lor concordemente eletto,

O partono essi re pieni di fede

L'orbo stato fra lor con pari affetto,

O chi primo il può far primo succede

Per lo più chi più forte è con effetto,

Cause genealogiche allegando,

E per lo più con l'arme autenticando.

 

 

5

 

Re novo, di lor man pesato e scosso,

Dare i sudditi a se mai non fur visti,

Né fora assurdo al mio parer men grosso

Che se qualche lavor de' nostri artisti,

Come orologio da portare indosso

O cosa tal che per danar s'acquisti,

Il compratore elegger si vedesse,

Che lei portare e posseder potesse.

 

 

6

 

Negli scettri non han ragione o voto

I popoli nessuno o ne' diademi,

Ch'essi non fer, ma Dio, siccome è noto.

Anzi s'anco talvolta in casi estremi

Resta il soglio deserto non che vòto

Per popolari fremiti e per semi

D'ire o per non so qual malinconia,

Onde spenta riman la monarchia,

 

 

7

 

Al popol che di lei fu distruttore

Cercan rimedio ancor l'altre corone,

E legittimo far quel mal umore

Quasi e rettificar l'intenzione

Destinato da lor novo signore

Dando a quel con le triste o con le buone,

Né sopportan giammai che da se stesso

Costituirsi un re gli sia conesso.

 

 

8

 

Che se pur fu da Brancaforte ingiunto

A' tuoi di provveder d'un re novello,

Non volea questo dir ch'eletto a punto

Fosse il creato re questo né quello,

Ma non altro dar lor se non l'assunto

Che i più capaci del real mantello

Proponessero a' piè de' potentati,

Che gli avriano a bell'agio esaminati.

 

 

9

 

Or dunque avendo alla virtù rispetto,

Signor, che manifesta in te dimora,

E sopra tutto a quei che prima ho detto

Pregi onde teco il gener tuo s'onora,

Non della elezion solo il difetto

Supplire ed emendar, ma vuole ancora

La maestà del mio padrone un segno

Darti dell'amor suo forse più degno.

 

 

10

 

Perché non pur con suo real diploma

Che valevol fia sempre ancor che tardo,

E di color che collegati ei noma

Che il daran prontamente a suo riguardo,

Riponendoti il serto in su la chioma

Legittimo farà quel ch'è bastardo,

Che legittimità, cosa volante,

Vien dal cielo o vi riede in un istante:

 

 

11

 

Ma il poco onesto e non portabil patto

Che il popolo a ricever ti costrinse,

A cui ben vede il mio signor che un atto

Discorde assai dal tuo voler t'avvinse,

Sconcio a dir vero e tal che quasi affatto

La maestà di questo trono estinse,

A potere annullar de' topi in onta

Compagnia t'offerisce utile e pronta.

 

 

12

 

Non solo i nostri trentamila forti

Che nel suo nome tengono il castello

Alla bell'opra ti saran consorti

Di render lustro al tuo real cappello,

Ma cinquecentomila che ne' porti

De' ranocchi hanno stanza, io vo dir quello

Esercito già noto a voi che sotto

Brancaforte in quei lochi or s'è ridotto,

 

 

13

 

E che per volontà del signor nostro

Così fermato in prossime contrade

Aspetta per veder nel regno vostro

Che movimento o cosa nova accade,

Tosto che un cenno tuo gli sarà mostro,

Il cammin prenderà della cittade,

Dove i topi o ravvisti o con lor danno

A servir prestamente torneranno.

 

 

14

 

Fatto questo, il diploma a te spedito

Sarà, di quel tenor che si conviene.

E un patto fra' due re fia stabilito

Quale ambedue giudicherete bene.

Ma troppo oggi, saria diminuito

L'onor che fra' re tutti il mio ritiene

Se un accordo da lui si confermasse

Che con suddita plebe altri contrasse.

 

 

15

 

Né certo ei sosterrà che d'aver fatto

Onta agli scettri il popol tuo si vanti,

E che che avvenga, il disdicevol patto

Che tutti offender sembra i dominanti

Combatterà finché sarà disfatto,

Tornando la città qual era innanti.

Questa presso che ostil conclusione

Ebbe del capitan l'orazione.

 

 

16

 

Rispose Rodipan, che udir solea

Che stil de' granchi era cangiare aspetto

Secondo i tempi, e che di ciò vedea

Chiara testimonianza or per effetto,

Essendo certo che richiesto avea

Senzacapo che un re subito eletto

Fosse da' topi allor che avea temenza

D'altra più scandalosa esperienza.

 

 

17

 

Che stato franco avessero anteposto

A monarchia di qualsivoglia sorte,

E che l'esempio loro avesse posto

Desiderio in altrui d'un'ugual sorte,

La qual sospizion come più tosto

S'avea tolto dal cor, di Brancaforte

Condannava i trattati, e i chiari detti

Torceva a inopinabili concetti.

 

 

18

 

Privo l'accordo del real suggello

Né re de' topi alcun riconosciuto

A se poco gravar, ma che il castello

Con maraviglia grande avria veduto

Da genti granchie ritener, che in quello

Entrar per solo accordo avean potuto,

Se non sapesse ai popoli presenti

Esser negati i dritti delle genti.

 

 

19

 

Anzi i dritti comuni e di natura:

Perché frode, perfidia e qual si sia

Pretta solenne autentica impostura

È cosa verso lor lecita e pia,

E quelli soppiantar può con sicura

Mente ogni estrania o patria monarchia,

Che popolo e nessun tornan tutt'uno,

Se intier l'ammazzi, non ammazzi alcuno.

 

 

20

 

Quanto al proposto affar, che interrogato

Capo per capo avria la nazione,

Non essendo in sua man circa lo stato

Prender da se deliberazione,

E che quel che da lei fosse ordinato

Faria come per propria elezione,

Caro avendo osservar, poi che giurollo,

Lo statuto. E ciò detto, accommiatollo.

 

 

21

 

L'altra mattina al general consiglio

Il tutto riferì personalmente,

E la grandezza del comun periglio

Espose e ragionò distesamente,

E trovar qualche via, qualche consiglio,

Qualche provvision conveniente

Spesse volte inculcò, quasi sapesse

Egli una via, ma dir non la volesse.

 

 

22

 

Arse d'ira ogni petto, arse ogni sguardo,

E come per l'aperta ingiuria suole

Che negl'imi precordii anche il codardo

Fere là dove certo il ferir dole,

Parve ancora al più vile esser gagliardo

Vera vendetta a far non di parole.

Guerra scelta da tutti e risoluto

Fu da tutti morir per lo statuto.

 

 

23

 

Commendò Rodipan questo concorde

Voler del popol suo con molte lodi,

Morte imprecando a quelle bestie sorde

Dell'intelletto e pur destre alle frodi;

Purché, disse, nessun da se discorde

Segua il parlar, non poi gli atti de' prodi:

E soldatesche ed armi e l'altre cose

Spettanti a guerra ad apprestar si pose.

 

 

24

 

Di suo vero od al ver più somigliante

Sentir, del quale ogni scrittore è muto,

Dirovvi il parer mio da mal pensante

Qual da non molto in qua son divenuto,

Che per indole prima io rette e sante

Le volontà gran tempo avea creduto,

Né d'appormi così m'accadde mai,

Né di fallar poi che il contrario usai.

 

 

25

 

Dico che Rodipan di porre sciolta

La causa sua dalla comun de' topi

In man de' granchi, avea per cosa stolta,

Veduto, si può dir, con gli occhi propi

Tanta perfidia in quelle genti accolta,

Quanta sparsa è dagl'Indi agli Etiopi,

E potendo pensar che dopo il patto

Similmente lui stesso avrian disfatto.

 

 

26

 

Ma desiato avria che lo spavento

Della guerra de' granchi avesse indotto

Il popolo a volere esser contento

Che il seggio dato a lui non fosse rotto,

Sì che spargendo volontario al vento

La fragil carta, senza più far motto,

Fosse stato a veder se mai piacesse

Al re granchio adempir le sue promesse.

 

 

27

 

Così re senza guerra e senza patto

Forse trovato in breve ei si saria,

Da doppio impaccio sciolto in un sol tratto

E radicata ben la dinastia,

Né questo per alcun suo tristo fatto,

Per tradimento o per baratteria,

Né violato avendo in alcun lato

Il giuramento alla città giurato.

 

 

28

 

Queste cose, cred'io, tra se volgendo

Meno eroica la plebe avria voluta.

Per congetture mie queste vi vendo,

Che in ciò la storia, come ho detto, è muta.

Se vi paresser frasche, non intendo

Tor fama alla virtù sua conosciuta.

Visto il voler de' suoi, per lo migliore

La guerra apparecchiò con grande ardore.

 

 

29

 

Guerra tonar per tutte le concioni

Udito avreste tutti gli oratori,

Leonidi, Temistocli e Cimoni,

Muzi Scevola, Fabi dittatori,

Deci, Aristidi, Codri e Scipioni,

E somiglianti eroi de' lor maggiori

Iterar ne' consigli e tutto il giorno

Per le bocche del volgo andare attorno.

 

 

30

 

Guerra sonar canzoni e canzoncine

Che il popolo a cantar prendea diletto,

Guerra ripeter tutte le officine

Ciascuna al modo suo col proprio effetto.

Lampeggiavan per tutte le fucine

Lancioni, armi del capo, armi del petto,

E sonore minacce in tutti i canti

S'udiano, e d'amor patrio ardori e vanti.

 

 

31

 

Primo fatto di guerra, a tal fatica

Movendo Rubatocchi i cittadini,

Fu di torri e steccati alla nemica

Gente su del castel tutti i confini

Chiuder donde colei giù dall'aprica

Vetta precipitar sopra i vicini

Poteva ad ogn'istante, e nella terra

Improvvisa portar tempesta e guerra.

 

 

32

 

Poi dubitato fu se al maggior nerbo

De' granchi che verrebbe ormai di fuore

Come torrente rapido e superbo

Opporsi a mezza via fosse il migliore,

Ovver nella città con buon riserbo

Schernir, chiuse le porte, il lor furore.

Questo ai vecchi piacea, ma parve quello

Ai damerini della patria bello.

 

 

33

 

Come Aiace quel dì che di tenebre

Cinte da Giove fur le greche schiere,

Che di servar Patroclo alla funebre

Cura fean battagliando ogni potere,

Al nume supplicò che alle palpebre

Dei figli degli Achei desse il vedere,

Riconducesse il dì, poi se volesse

Nell'aperto splendor li distruggesse;

 

 

34

 

Così quei prodi il popolar consiglio

Pregàr che la virtù delle lor destre

Risplender manifesta ad ogni ciglio

Potesse in parte lucida e campestre,

Né celato restasse il lor periglio

Nel buio sen di quella grotta alpestre.

Vinse l'alta sentenza, e per partito

Fuori il granchio affrontar fu stabilito.

 

 

35

 

E già dai regni a rimembrar beati

Degli amici ranocchi che per forza

Gli aveano insino allor bene albergati

Movevan quei dalla petrosa scorza

Brancaforte co' suoi fidi soldati,

Per quel voler ch'ogni volere sforza

Del lor padrone e re che di gir tosto

Sopra Topaia aveva al duce imposto.

 

 

36

 

Dall'altra parte orrenda ne' sembianti

Da Topaia movea la cittadina

Falange che di numero di fanti

A un milione e mezzo era vicina.

Serse in Europa non passò con tanti

Quando varcata a piè fu la marina.

Coperto era sì lunge ogni sentiero

Che la veduta si perdea nel nero.

 

 

37

 

Venuti erano al loco ove diè fine

Alla fuga degli altri il Miratondo,

Loco per praticelli e per colline

E per quiete amabile e giocondo.

Era il tempo che l'ore mattutine

Cedono al mezzodì le vie del mondo,

Quando assai di lontan parve rimpetto

All'esercito alzarsi un nugoletto.

 

 

38

 

Un nugoletto il qual di mano in mano

Con prestezza mirabile crescea

Tanto che tutto ricoprire il piano

Dover fra poco e intenebrar parea,

Come nebbia talor cui di lontano

Fiume o palude in bassa valle crea,

Che per soffio procede e la sua notte

Campi e villaggi a mano a mano inghiotte.

 

 

39

 

Conobber facilmente i principali

Quel di che il bianco nugolo era segno,

Che dai passi nascea degli animali

Che venieno avversari al misto regno.

Però tempo ben parve ai generali

Di mostrar la virtù del loro ingegno,

E qui fermato il piè, le ardite schiere

A battaglia ordinàr con gran sapere.

 

 

40

 

Al lago che di sopra io ricordai,

Ch'or limpido e brillando al chiaro giorno

Spargea del Sol meridiano i rai,

Appoggiàr delle squadre il destro corno,

L'altro al poggio che innanzi anco narrai

Alto ed eretto, e quanti erano intorno

Lochi angusti e boscosi ed eminenti

Tutti fero occupar dalle lor genti.

 

 

41

 

Già per mezzo all'instabil polverio

Si discernea de' granchi il popol duro,

Che quetamente e senza romorio

Nella sua gravita venia sicuro.

Alzi qui la materia il canto mio

E chiaro il renda se fu prima oscuro,

Qui volentieri invocherei la musa

Se non che l'invocarla or più non s'usa.

 

 

42

 

Eran le due falangi a fronte a fronte

Già dispiegate ed a pugnar vicine,

Quando da tutto il pian, da tutto il monte

Diersi a fuggir le genti soricine.

Come non so, ma né ruscel né fonte

Balza né selva al corso lor diè fine.

Fuggirian credo ancor, se i fuggitivi

Tanto tempo il fuggir serbasse vivi.

 

 

43

 

Fuggiro al par del vento, al par del lampo

Fin dove narra la mia storia appresso.

Solo di tutti in sul deserto campo

Rubatocchi restò come cipresso

Diritto, immoto, di cercar suo scampo

Non estimando a cittadin concesso

Dopo l'atto de' suoi, dopo lo scorno

Di che principio ai topi era quel giorno.

 

 

44

 

In lui rivolta la nemica gente

Sentì del braccio suo l'erculea possa.

A salvarla da quel non fu possente

La crosta ancor che dura ancor che grossa.

Spezzavala cadendo ogni fendente

Di quella spada, e scricchiolar fea l'ossa,

E troncava le branche e di mal viva

E di gelida turba il suol copriva.

 

 

45

 

Così pugnando sol contro infiniti

Durò finché il veder non venne manco.

Poi che il Sol fu disceso ad altri liti,

Sentendo il mortal corpo afflitto e stanco,

E di punte acerbissime feriti

E laceri in più parti il petto e il fianco,

Lo scudo ove una selva orrida e fitta

D'aste e d'armi diverse era confitta,

 

 

46

 

Regger più non potendo, ove più folti

Gl'inimici sentia, scagliò lontano.

Storpiati e pesti ne restaron molti,

Altri schiacciati insucidaro il piano.

Poscia gli estremi spiriti raccolti,

Pugnando mai non riposò la mano

Finché densato della notte il velo,

Cadde, ma il suo cader non vide il cielo.

 

 

47

 

Bella virtù, qualor di te s'avvede,

Come per lieto avvenimento esulta

Lo spirto mio: né da sprezzar ti crede

Se in topi anche sii tu nutrita e culta.

Alla bellezza tua ch'ogni altra eccede,

O nota e chiara o ti ritrovi occulta,

Sempre si prostra: e non pur vera e salda,

Ma imaginata ancor, di te si scalda.

 

 

48

 

Ahi ma dove sei tu? sognata o finta

Sempre? vera nessun giammai ti vide?

O fosti già coi topi a un tempo estinta,

Né più fra noi la tua beltà sorride?

Ahi se d'allor non fosti invan dipinta,

Né con Teseo peristi o con Alcide,

Certo d'allora in qua fu ciascun giorno

Più raro il tuo sorriso e meno adorno.

 

 

 

CANTO SESTO

 

1

 

Meta al fuggir le inviolate schiere

Di Topaia ingombràr le quattro porte.

Non che ferir, potute anco vedere

Non ben le avea de' granchi il popol forte.

Cesar che vide e vinse, al mio parere,

Men formidabil fu di Brancaforte,

Al qual senza veder fu co' suoi fanti

Agevole a fugar tre volte tanti.

 

 

2

 

Tornata l'oste a' babbi intera e sana,

Se a qualcuno il fuggir non fu mortale,

Chiuse le porte fur della lor tana

Con diligenza alla paura uguale.

E per entrarvi lungamente vana

Stata ogni opra saria d'ogni animale,

Sì che molti anni in questo avria consunto

Brancaforte che là tosto fu giunto,

 

 

3

 

Se non era che quei che per nefando

Inganno del castello eran signori,

E ch'or più faci al vento sollevando

Sedean lassù nell'alto esploratori,

Visto il popolo attorno ir trepitando

E dentro ritornar quelli di fuori,

Indovinàr quel ch'era, e fatti arditi

I serragli sforzar mal custoditi.

 

 

4

 

E con sangue e terror corsa la terra

Aprir le porte alla compagna gente,

Che qual tigre dal carcer si disserra,

O da ramo si scaglia atro serpente,

Precipitaron dentro, e senza guerra

Tutto il loco ebber pieno immantinente.

Il rubare, il guastar d'una nemica

Vincitrice canaglia il cor vi dica.

 

 

5

 

Più giorni a militar forma d'impero

L'acquistata città fu sottoposta,

Brancaforte imperando, anzi nel vero

Quel ranocchin ch'egli avea seco a posta

A ciò che l'alfabetico mistero

Gli rivelasse in parte i dì di posta,

E sempre che bisogno era dell'arte

D'intendere o parlar per via di carte.

 

 

6

 

Tosto ogni atto, ogn'indizio, insegna o motto

Di mista monarchia fu sparso al vento,

Raso, abbattuto, trasformato o rotto.

Chi statuto nomava o parlamento

In carcere dai lanzi era condotto,

Che del parlar de' topi un solo accento

Più là non intendendo, in tal famiglia

Di parole eran dotti a maraviglia.

 

 

7

 

Leccafondi che noto era per vero

Amor di patria e del civil progresso,

Non sol privato fu del ministero

E del poter che il re gli avea concesso,

Ma dalla corte e dai maneggi intero

Bando sostenne per volere espresso

Di Senzacapo, e i giorni e le stagioni

A passar cominciò fra gli spioni.

 

 

8

 

Rodipan mi cred'io che volentieri

Precipitato i granchi avrian dal trono.

Ma trovar non potendo di leggeri

Chi per sangue a regnar fosse sì buono,

Spesi d'intorno a ciò molti pensieri,

Parve al re vincitor dargli perdono,

E re chiamarlo senza altro contratto,

Se per dritto non era almen per fatto.

 

 

9

 

Ma con nome e color d'ambasciatore

Inviogli il baron Camminatorto,

Faccendier grande e gran raggiratore

E in ogni opra di re dotto ed accorto,

Che per arte e per forza ebbe valore

Di prestamente far che per conforto

Suo si reggesse il regno, e ramo o foglia

Non si movesse in quel contro sua voglia.

 

 

10

 

Chiuso per suo comando il gabinetto,

Chiuse le scole fur che stabilito

Aveva il conte, come sopra ho detto,

E d'esser ne' caratteri erudito

Fu, com'ei volle, al popolo interdetto,

Se di licenza special munito

A ciò non fosse ognun: perché i re granchi

D'oppugnar l'abbiccì non fur mai stanchi.

 

 

11

 

Quindi i reami lor veracemente

Fur del mondo di sopra i regni bui.

Ed era ben ragion, che chiaramente

Dovean veder che la superbia in cui

La lor sopra ogni casa era eminente

Non altro avea che l'ignoranza altrui

Dove covar: che dal disprezzo, sgombra

Che fosse questa, non aveano altr'ombra.

 

 

12

 

Lascio molti e molti altri ordinamenti

Del saggio nunzio, e sol dirò che segno

Della bontà de' suoi provvedimenti

Fu l'industria languir per tutto il regno,

Crescer le usure, impoverir le genti,

Nascondersi dal Sol qualunque ingegno,

Sciocchi o ribaldi conosciuti e chiari

Cercar soli e trattar civili affari.

 

 

13

 

Il popolo avvilito e pien di spie

Di costumi ogni dì farsi peggiore,

Ricorrere agl'inganni, alle bugie,

Sfrontato divenendo e traditore,

Mal sicure da' ladri esser le vie

Per tutta la città non che di fuore;

L'or fuggendo e la fede entrar le liti,

Ed ir grassi i forensi ed infiniti.

 

 

14

 

Subito poi che l'orator fu giunto

Cui de' topi il governo era commesso

Dal re de' granchi, a Brancaforte ingiunto

Fu di partir co' suoi. Ma dallo stesso

Cresciuto insino a centomila appunto

Fu lo stuolo in castel male intromesso,

Il resto a trionfar di topi e rane

Tornò con Brancaforte alle sue tane.

 

 

15

 

Allor nacque fra' topi una follia

Degna di riso più che di pietade,

Una setta che andava e che venia

Congiurando a grand'agio per le strade,

Ragionando con forza e leggiadria

D'amor patrio, d'onor, di libertade,

Fermo ciascun, se si venisse all'atto,

Di fuggir come dianzi avevan fatto,

 

 

16

 

E certo quanto a se che pur col dito

Lanzi ei non toccheria né con la coda.

Pure a futuri eccidi amaro invito

O ricevere o dar con faccia soda

Massime all'età verde era gradito,

Perché di congiurar correa la moda,

E disegnar pericoli e sconquasso

Della città serviva lor di spasso.

 

 

17

 

Il pelame del muso e le basette

Nutrian folte e prolisse oltre misura,

Sperando, perché il pelo ardir promette,

D'avere, almeno ai topi, a far paura.

Pensosi in su i caffè, con le gazzette

Fra man, parlando della lor congiura,

Mostraronsi ogni giorno, e poi le sere

Cantando arie sospette ivano a schiere.

 

 

18

 

Al tutto si ridea Camminatorto

Di sì fatte commedie, e volentieri

Ai topi permettea questo conforto,

Che con saputa sua senza misteri,

Lui decretando or preso, or esser morto,

Gli congiurasser contro i lustri interi:

Ma non sostenne poi che capo e fonte

Di queste trame divenisse il conte.

 

 

19

 

Al quale i giovinastri andando in frotte

Offrian se per la patria a morir presti;

E disgombro giammai né dì né notte

Non era il tetto suo d'alcun di questi.

Egli, perché le genti ancorché dotte

E sagge e d'opre e di voleri onesti,

Di comandare altrui sempre son vaghe,

E più se in tempo alcun di ciò fur paghe;

 

 

20

 

Anche dal patrio nome e da quel vero

Amor sospinto ond'ei fu sempre specchio,

Inducevasi a dar, se non intero

Il sentimento, almen grato l'orecchio

Al dolce suon che lui nel ministero,

E che la patria ritornar nel vecchio

Onore e grado si venia vantando,

E con la speme il cor solleticando.

 

 

21

 

L'ambasciador, quantunque delle pie

Voglie del conte ancor poco temesse,

Pur com'era mestier che molte spie

Con buone paghe intorno gli tenesse,

Rivolger quei danari ad altre vie,

E torsi quella noia un giorno elesse,

E gentilmente e in forma di consiglio

Costrinse il conte a girsene in esiglio.

 

 

22

 

Peregrin per la terra il chiaro topo

Vide popoli assai, stati e costumi;

A quante bestie narrò poscia Esopo

Si condusse varcando or mari or fiumi,

Con gli occhi intenti sempre ad uno scopo

D'augumentar come si dice i lumi

Alle sue genti, e se gli fosse dato

Trovar soccorso al lor dolente stato.

 

 

23

 

Com'esule e com'un ch'era discaro

Al re granchio, al baron Camminatorto,

E ch'alfabeto e popolo avea caro,

Molte corti il guardàr con occhio torto.

Più d'un altro con lui fu meno avaro,

Più d'un ministro e re largo conforto

Gli porse di promesse, ed ei contento

Il cammin proseguia con questo vento.

 

 

24

 

Una notte d'autunno, andando ei molto

Di notte, come i topi han per costume,

Un temporal sopra il suo capo accolto

Oscurò delle stelle ogni barlume,

Gelato un nembo in turbine convolto

Colmò le piagge d'arenose spume,

Ed ai campi adeguò così la via,

Che seguirla impossibil divenia.

 

 

25

 

Il vento con furor precipitando

Schiantava i rami e gli arbori svellea,

E tratto tratto il fulmine piombando

Vicine rupi e querce scoscendea

Con altissimo suon, cui rimbombando

Ogni giogo, ogni valle rispondea,

E con tale un fulgor che tutto il loco

Parea subitamente empier di foco.

 

 

26

 

Non valse al conte aver la vista acuta,

E nel buio veder le cose appunto,

Che la strada assai presto ebbe perduta,

E dai seguaci si trovò disgiunto.

Per la campagna un lago or divenuta

Notava o sdrucciolava a ciascun punto.

Più volte d'affogar corse periglio,

E levò supplicando all'etra il ciglio.

 

 

27

 

Il vento ad or ad or mutando lato

Più volte indietro e innanzi il risospinse,

Talora il capovolse e nel gelato

Umor la coda e il dorso e il crin gli tinse,

E più volte a dir ver quell'apparato

Di tremende minacce il cor gli strinse,

Che di rado il timor, ma lo spavento

Vince spesso de' saggi il sentimento.

 

 

28

 

Cani pecore e buoi che sparsi al piano

O su pe' monti si trovàr di fuore,

Dalle correnti subite lontano

Ruzzolando fur tratti a gran furore

Insino ai fiumi, insino all'oceano,

Orbo lasciando il povero pastore.

Fortuna e delle membra il picciol pondo

Scamparo il conte dal rotare al fondo.

 

 

29

 

Già ristato era il nembo, ed alle oscure

Nubi affacciarsi or l'una or l'altra stella

Quasi timide ancora e mal sicure

Ed umide parean dalla procella.

Ma sommerse le valli e le pianure

Erano intorno, e come navicella

Vota fra l'onde, senza alcuna via

Il topo or qua or là notando gia.

 

 

30

 

E in suo cor sottentrata allo spavento

Era l'angoscia del presente stato.

Senza de' lochi aver conoscimento,

Solo e già stanco, e tutto era bagnato.

Messo s'era da borea un picciol vento

Freddo, di punte e di coltella armato,

Che dovunque, spirando, il percotea,

Pungere al vivo e cincischiar parea.

 

 

31

 

Sì che se alcun forame o s'alcun tetto

Non ritrovasse a fuggir l'acqua e il gelo,

E la notte passar senza ricetto

Dovesse, che salita a mezzo il cielo

Non era ancor, sentiva egli in effetto

Che innanzi l'alba lascerebbe il pelo.

Ciò pensando, e mutando ognor cammino,

Vide molto di lungi un lumicino,

 

 

32

 

Che tra le siepi e gli arbori stillanti

Or gli appariva ed or parea fuggito.

Ma s'accorse egli ben passando avanti

Che immobile era quello e stabilito,

E di propor quel segno ai passi erranti,

O piuttosto al notar, prese partito:

E così fatto più d'un miglio a guazzo,

Si ritrovò dinanzi ad un palazzo.

 

 

33

 

Grande era questo e bello a dismisura,

Con logge intorno intorno e con veroni,

Davanti al qual s'udian per l'aria oscura

Piover due fonti con perenni suoni.

Vide il topo la mole e la figura

Questa aver che dell'uomo han le magioni.

Dal lume il qual d'una finestra uscia

Ch'abitata ella fosse anco apparia.

 

 

34

 

Però di fuor con cura e con fatica

Cercolla il topo stanco in ogni canto,

Per veder di trovar nova od antica

Fessura ov'ei posar potesse alquanto,

Non molto essendo alla sua specie amica

La nostra insin dalla stagion ch'io canto.

Ma per molto adoprarsi una fessura

Né un buco non trovò per quelle mura.

 

 

35

 

Strano questo vi par, ma certo il fato

Intento il conducea là dove udrete.

Che vedendosi omai la morte allato,

Che il Cesari chiamò mandar pel prete,

E sentendosi il conte esser dannato

D'ogni male a morir fuorché di sete

Se fuor durasse, di cangiar periglio,

D'osare e di picchiar prese consiglio.

 

 

36

 

E tratto all'uscio e tolto un sassolino,

Dievvi de' colpi a suo poter più d'uno.

Subito da un balcon fe' capolino

Un uom guardando, ma non vide alcuno.

Troppo quel che picchiava era piccino,

Né facil da veder per l'aer bruno.

Risospinse le imposte, e poco stante

Ecco tenue picchiar siccome avante.

 

 

37

 

Qui trasse fuori una lucerna accesa

L'abitator del solitario ostello,

E sporse il capo, e con la vista intesa

Mirando inverso l'uscio, innanzi a quello

Vide il topo che pur con la distesa

Zampa facea del sassolin martello.

Crederete che fuor mettesse il gatto,

Ma disceso ad aprir fu quegli a un tratto

 

 

38

 

E il pellegrin con modo assai cortese

Introdusse in dorati appartamenti,

Parlando della specie e del paese

Dei topi i veri e naturali accenti.

E vedutol così male in arnese,

E dal freddo di fuor battere i denti,

Ad un bagno il menò dove lavollo

Dalla mota egli stesso e riscaldollo.

 

 

39

 

Fatto questo, di noci e fichi secchi

Un pasto gli arrecò di regal sorte,

Formaggio parmegian, ma di quei vecchi,

Fette di lardo e confetture e torte,

Tutto di tal sapor che paglia e stecchi

Parve al conte ogni pasto avuto in corte.

Cenato ch'ebbe, il dimandò del nome

E quivi donde capitasse, e come.

 

 

40

 

A dire incominciò, siccome Enea

Nelle libiche sale, il peregrino.

Al dirimpetto l'altro gli sedea

Sur una scranna, ed ei sul tavolino

Con due zampe atteggiando, e gli pendea

Segno d'onor dal collo un cordoncino,

Che salvo egli a fatica avea dai flutti,

Dato dal morto re Mangiaprosciutti.

 

 

41

 

E dal principio il seme e i genitori

E l'esser suo narrò succintamente.

Poi discendendo ai sostenuti onori

Fecesi a ragionar della sua gente,

Narrò le rane ed i civili umori,

La carta e il granchio iniquo e prepotente,

Le due fughe narrò chinando il ciglio,

E le congiure, ed il non degno esiglio.

 

 

42

 

E conchiudendo, siccom'era usato,

Raccontò le speranze e le promesse

Che da più d'un possibile alleato

Raccolte avea autentiche ed espresse,

E l'ospite pregò che avesse dato

Soccorso anch'egli ai topi ove potesse.

Rari veleni d'erbe attive e pronte

Quegli offerì, ma ricusolli il conte.

 

 

43

 

Dicendo, ch'oltre al non poter sì fatto

Rimedio porsi agevolmente in opra,

A quell'intento saria vano affatto

Ch'egli ad ogni altro fin ponea di sopra,

Che il popol suo d'onor fosse rifatto,

Dal qual va lunge un ch'arti prave adopra.

Lodò l'altro i suoi detti e gli promesse

Che innanzi che dal sonno egli sorgesse,

 

 

44

 

Pensato avrebbe al caso intentamente

Per trovar, se potea, qualche partito.

Già l'aere s'imbiancava in oriente

E di più stelle il raggio era sparito,

E il seren puro tutto e tralucente

Promettea ch'un bel dì fora seguito.

Quasi sgombro dall'acque era il terreno,

E il soffio boreal venuto meno.

 

 

45

 

L'ospite ad un veron condusse il conte

Mostrando il tempo placido e tranquillo.

Sola i silenzi l'una e l'altra fonte

Rompea da presso, e da lontano il grillo.

Qualche raro balen di sopra il monte

Il nembo rammentava a chi soffrillo.

Poscia a un letto il guidò ben preparato,

E da lui per allor prese commiato.

 

 

 

CANTO SETTIMO

 

1

 

D'aggiunger mi scordai nell'altro canto

Che il topo ancor l'incognito richiese

Del nome e dello stato, e come tanto

Fosse ad un topo pellegrin cortese,

E da che libri ovver per quale incanto

Le soricine voci avesse apprese.

Parte l'altro gli disse, e il rimanente

Voler dir più con agio il dì seguente.

 

 

2

 

Dedalo egli ebbe nome, e fu per l'arte

Simile a quel che fece il laberinto.

Che il medesimo fosse antiche carte

Mostran la fama aver narrato o finto.

Se la ragion de' tempi in due li parte,

Non vo d'anacronismo esser convinto.

Gli anni non so di Creta o di Minosse:

Il Niebuhr li diria se vivo fosse.

 

 

3

 

Antichissima, come è manifesto,

Fu del nostro l'età. Però dichiaro,

Lettori e leggitrici, anzi protesto

Che il Dedalo per fama oggi sì chiaro

Forse e probabilmente non fu questo

Del quale a ragionarvi io mi preparo;

Ma più moderno io non saprei dir quanto:

Ed in via senza più torna il mio canto.

 

 

4

 

Quel Dedalo che al topo albergo diede.

Fu di ricca e gentil condizione

Da quei che il generàr lasciato erede,

E noiato non so per qual ragione

Degli uomini che pur, chi dritto vede,

In general son ottime persone,

Ridotto s'era solitario in villa

A condur vita libera e tranquilla.

 

 

5

 

Questi adunque, poiché più di quattr'ore

Alto il sole ebbe visto, al pellegrino

Che dall'alba dormia con gran sapore

Recò che molto innanzi era il mattino,

E levato il condusse ove in colore

Vario splendea tra l'oro il marrocchino,

Nello studio cioè, che intorno intorno

Era di libri preziosi adorno.

 

 

6

 

Ivi gli fe' veder molti volumi

D'autori topi antichi e di recenti:

I Delirii del gran Fiutaprofumi,

La Trappola, tragedia in atti venti,

Topaia innanzi l'uso de' salumi,

Gli Atti dell'Accademia de' Dormienti,

L'Amico de' famelici, ed un cantico

Per nascita reale in foglio atlantico.

 

 

7

 

La grammatica inoltre e il dizionario

Mostrogli della topica favella,

E più d'un altro libro necessario

A drittamente esercitarsi in quella,

Che con l'uso de' verbi alquanto vario

Alle lingue schiavone era sorella.

Indi fattol sedere, anch'ei s'assise,

Ed in un lungo ragionar si mise.

 

 

8

 

E disse com'ancor presso al confine

Di pubertà quel nido avendo eletto,

Di fisiche e meccaniche dottrine

Preso aveva in quegli ozi un gran diletto,

Tal che diverse cose e peregrine

Avea per mezzo lor poste ad effetto,

E correndo di poi molti paesi,

Molti novi trovati aveva appresi.

 

 

9

 

E sommamente divenuto esperto

Della storia che detta è naturale,

Ben già fin dal principio essendo certo

Dello stato civil d'ogni animale,

Gl'idiomi di molti avea scoperto

Quale ascoltando intentamente e quale

Per volumi trovati: ond'esso a quante

Bestie per caso gli venian davante,

 

 

10

 

Come a simili suoi, come a consorti,

Sempre in ciò che poteva era cortese.

Ma dopo aver così di molte sorti

E città d'animai le lingue apprese,

E quinci de' più frali e de' più forti

Le più riposte qualitadi intese,

Un desiderio in cor gli era spuntato

Che l'avea per molti anni esercitato.

 

 

11

 

Un desiderio di dovere, andando

Per tutto l'orbe, a qualche segno esterno,

Come il nostro scoprirò altri cercando,

Degli animali ritrovar l'inferno,

Cioè quel loco ove al morir passando

Vivesse l'io degli animali eterno,

Il qual ch'eterno fosse al par del nostro

Dal comun senso gli parea dimostro.

 

 

12

 

Perché, dicea, chiunque gli occhi al sole

Chiudere, o rinnegar la coscienza,

Ed a se stesso in se mentir non vuole,

Certo esser dee che dalla intelligenza

De' bruti a quella dell'umana prole

È qual da meno a più la differenza,

Non di genere tal che se rigetta

La materia un di lor, l'altro l'ammetta.

 

 

13

 

Che certo s'estimar materia frale

Dalla retta ragion mi si consente

L'io del topo, del can, d'altro mortale,

Che senta e pensi manifestamente,

Perché non possa il nostro esser cotale

Non veggo: e se non pensa in ver né sente

Il topo o il can, di dubitar concesso

M'è del sentire e del pensar mio stesso.

 

 

14

 

Così dicea. Ma che l'uman cervello

Ciò che d'aver per fermo ha stabilito

Creda talmente che dal creder quello

Nol rimova ragion forza o partito,

Due cose, parmi, che accoppiare è bello,

Mostran quant'altra mai quasi scolpito:

L'una, che poi che senza dubbio alcuno

Di Copernico il dogma approva ognuno,

 

 

15

 

Non però fermi e persuasi manco

Sono i popoli tutti e son le scole

Che l'uomo, in somma, senza uguali al fianco

Segga signor della creata mole,

Né con modo men lepido o men franco

Si ripetono ancor le antiche fole,

Che fan dell'esser nostro e de' costumi

Per nostro amor partecipare i numi.

 

 

16

 

L'altra, che quei che dell'umana mente

L'arcana essenza a ricercar procede,

La question delle bestie interamente

Lasciar da banda per lo più si vede

Quasi aliena alla sua con impudente

Dissimulazione e mala fede,

E conchiuder la sua per modo tale

Ch'all'altra assurdo sia, nulla gli cale.

 

 

17

 

Ma lasciam gli altri a cui per dritto senso

I topi anche moderni io pongo avanti.

A Dedalo torniamo ed all'intenso

Desio che il mosse a ricercar per quanti

Climi ha la terra e l'oceano immenso,

Come fer poscia i cavalieri erranti

Delle amate lor donne, in qual dimora

Le bestie morte fosser vive ancora.

 

 

18

 

Trovollo alfin veracemente e molte

Vide con gli occhi propri alme di bruti

Ignude, io dico da quei corpi sciolte

Che quassù per velami aveano avuti,

Se bene in quelli ancor pareano involte,

Come, non saprei dir, ma chi veduti

Spiriti ed alme ignude ha di presenza,

Sa che sempre di corpi hanno apparenza.

 

 

19

 

Dunque menarlo all'immortal soggiorno

De' topi estinti offerse al peregrino

Dedalo, accio che consultarli intorno

A Topaia potesse ed al destino:

Perché sappiam che chiusi gli occhi al giorno

Diventa ogni mortal quasi indovino,

E qual che fosse pria, dotto e prudente

Si rende sì che avanza ogni vivente.

 

 

20

 

Strana questa in principio e fera impresa

Al conte e piena di terror parea.

Non avean fatta simile discesa

Orfeo, Teseo, la Psiche, Ercole, Enea,

Che vantàr poscia, e forse l'arte appresa

Da topi o talpe alcun di loro avea.

Dedalo l'ammonì che denno i forti

Poco temere i vivi e nulla i morti.

 

 

21

 

E inanimito ed all'impresa indotto

Avendol facilmente, e confortato

D'alcun de' cibi di che il topo è ghiotto,

D'alucce armogli l'uno e l'altro lato.

Più non so dir, l'istoria non fa motto

Di quello onde l'ordigno era formato,

Non degl'ingegni e non dell'artifizio

Per la virtù del qual facea l'uffizio.

 

 

22

 

Palesemente dimostrò l'effetto

Che queste d'ali inusitate some

Di quell'altre non ebbero il difetto

Ond'Icaro volando al mar diè nome:

Di quelle, sia per incidenza detto,

Che venner men dal caldo io non so come,

Poiché nell'alta region del cielo

Non suole il caldo soverchiar ma il gelo.

 

 

23

 

Dedalo, io dico il nostro, ale si pose

Accomodate alla statura umana,

Dubitar non convien di queste cose

Perocché sien di specie alquanto strana.

Udiam fra molte che l'età nascose

La macchina vantar del padre Lana,

E il globo aerostatico ottien fede

Non per udir ma perocché si vede.

 

 

24

 

Così d'ali ambedue vestito il dosso,

Su pe' terrazzi del romito ostello

Il novo carco in pria tentato e scosso,

Preser le vie che proprie ebbe l'uccello.

Parea Dedalo appunto un uccel grosso,

L'altro al suo lato appunto un pipistrello;

Volàr per tratto immenso ed infiniti

Vider gioghi dall'alto e mari e liti.

 

 

25

 

Vider città di cui non pur l'aspetto,

Ma la memoria ancor copron le zolle,

E vider campo o fitta selva o letto

D'acque palustri limaccioso e molle

Ove ad altre città fu luogo eletto

Di poi, ch'anco fioriro, anco atterrolle

Il tempo, ed or del loro stato avanza

Peritura del par la rinomanza.

 

 

26

 

Non era Troia allor, non eran quelle

Ch'al terren l'adeguaro Argo e Micene,

Non le rivali due, d'onor sorelle,

Di fortuna non già, Sparta e Messene;

Né quell'altra era ancor che poi le stelle

Dovea stancar con la sua fama Atene,

Vòto era il porto, e dove or peregrina

La gente al tronco Partenon s'inchina.

 

 

27

 

Presso al Gange ed all'Indo eccelse mura

E popoli appariano a mano a mano.

Pagodi nella Cina, ed alla pura

Luce del Sol da presso e da lontano

Canali rifulgean, sopra misura

Vari di corso per lo verde piano,

Che di città lietissimo e di gente,

Di commerci e di danze era frequente.

 

 

28

 

La torre di Babel di sterminata

Ombra stampava la deserta landa;

E la terra premean dall'acque nata.

Le piramidi in questa o in quella banda.

Poco Italia a quel tempo era abitata,

Italia ch'al finir dell'ammiranda

Antichità per anni ultima viene,

E primi per virtù gli onori ottiene.

 

 

29

 

Sparsa era tutta di vulcani ardenti,

E incenerita in questo lato e in quello.

Fumavan gli Apennini allor frequenti

Come or fuman Vesuvio e Mongibello,

E di liquide pietre ignei torrenti

Al mar tosco ed all'Adria eran flagello;

Fumavan l'Alpi, e la nevosa schiena

Solcavan fiamme ed infocata arena.

 

 

30

 

Non era ai due volanti peregrini

Possibile drizzar tant'alto i vanni,

Che non ceneri pur ma sassolini

Non percotesser lor le membra e i panni:

Tali in sembianza di smodati pini

Sorgean diluvi inver gli eterni scanni

Da eccelsissimi gioghi, alto d'intorno

A terra e mare intenebrando il giorno.

 

 

31

 

Tonare i monti e rintronar s'udiva

Or l'illirica spiaggia ed or la sarda.

Né già, come al presente, era festiva

La veneta pianura e la lombarda,

Né tanti laghi allor né con sua riva

Il Lario l'abbellia né quel di Garda,

Nuda era e senza amenità nessuna

E per lave indurate orrida e bruna.

 

 

32

 

Sovra i colli ove Roma oggi dimora

Solitario pascea qualche destriero,

Errando al Sol tersissimo che indora

Quel loco al mondo sopra tutti altero.

Non conduceva ancor l'ardita prora

Per le fauci scillee smorto nocchiero,

Che di Calabria per terrestre via

Nel suol trinacrio il passegger venia.

 

 

33

 

Dall'altra parte aggiunto al gaditano

Era il lido ove poi Cartago nacque:

E già si discoprian di mano in mano

Fenicii legni qua e là per l'acque.

Anche apparia di fuor su l'oceano

Quella che poi sommersa entro vi giacque,

Atlantide chiamata, immensa terra

Di cui leggera fama or parla ed erra.

 

 

34

 

Per lei più facil varco aveasi allora

Ai lidi là di quell'altro emisfero

Che per l'artiche nevi e per l'aurora

Polar che avvampa in ciel maligno e nero,

Né di perigli pien così com'ora

Dritto fendendo l'oceano intero.

Di lei fra gli altri ragionò Platone,

E il viaggio del topo è testimone.

 

 

35

 

Per ogni dove andar bestie giganti

O posar si vedean su la verdura,

Maggiori assai degl'indici elefanti,

E di qual bestia enorme è di statura.

Parean dall'alto collinette erranti

O sorgenti di mezzo alla pianura.

Di sì fatti animai son le semente,

Come sapete, da gran tempo spente.

 

 

36

 

Reliquie lor le scole ed i musei

Soglion l'ossa serbar disotterrate.

Riconosciuta ancor da' nostri augei

L'umile roccia fu che la cittate

Copria de' topi, e quattro volte e sei

L'esule volator pien di pietate

La rimirò dall'alto e sospirando

Si volse indietro e si lagnò del bando.

 

 

37

 

Alfin dopo volare e veder tanto

Che con lingua seguir non si potria,

Scoprì la coppia della quale io canto

Un mar che senza termini apparia.

Forse fu quel cui della pace il vanto

Alcun che poi solcollo attribuia,

Detto da molti ancor meridiano,

Sopra tutti latissimo oceano.

 

 

38

 

Nel mezzo della lucida pianura

Videro un segno d'una macchia bruna,

Qual pare a riguardar, ma meno oscura

Questa o quell'ombra in su l'argentea luna.

E là drizzando il vol nell'aria pura

Che percotea del mar l'ampia laguna,

Videro immota e, come dir, confitta

Una nebbia stagnar putrida e fitta.

 

 

39

 

Qual di passeri un groppo o di pernici

Che s'atterri a beccar su qualche villa

Pare al pastor che su per le pendici

Pasce le capre al Sol quando più brilla,

Cotal dall'alto ai due volanti amici

Parve quella ch'eterna ivi distilla

Nebbia anzi notte, nella quale involta

Un'isola o piuttosto era sepolta.

 

 

40

 

Altissima in sul mar da tutti i lati

Quest'isola sorgea con tali sponde,

E scogli intorno a lor sì dirupati,

E voragini tante e sì profonde

Ove con tal furor, con tai latrati

Davano e sparse rimbalzavan l'onde,

Che di pure appressarsi a quella stanza

Mai notator né legno ebbe speranza.

 

 

41

 

Sola potea la region del vento

Dare al sordido lido alcuna via.

Ma gli augelli scacciava uno spavento

Ed un fetor che dalla nebbia uscia.

Pure ai nostri non fur d'impedimento

Queste cose, il cui volo ivi finia,

Che quel funereo padiglione eterno

Copria de' bruti il generale inferno.

 

 

42

 

Colà rompendo la selvaggia notte

Gli stanchi volatori abbassar l'ale

E quella terra calpestar che inghiotte

Puro e semplice l'io d'ogni animale,

E posersi a seder su le dirotte

Ripe ove il piè non porse altro mortale,

Levando gli occhi alla feral montagna

Che il mezzo empiea dell'arida campagna.

 

 

43

 

D'un metallo immortal massiccio e grave

Quel monte il dosso nuvoloso ergea,

Nero assai più che per versate lave

Non par da presso la montagna etnea,

Tornito e liscio e fra quell'ombre cave

Un monumento sepolcral parea:

Tali alcun sogno a noi per avventura

Spettacoli creò fuor di natura.

 

 

44

 

Girava il monte più di cento miglia

E per tutto il suo giro alle radici

Eran bocche diverse a maraviglia

Di grandezza tra lor ma non d'uffici.

Degli estinti animali ogni famiglia

Dalle balene ai piccoli lombrici,

Alle pulci, agl'insetti onde ogni umore

Han pieno altri animai dentro e di fuore,

 

 

45

 

Microscopici o in tutto anche nascosti

All'occhio uman quanto si voglia armato

Ha quivi la sua bocca. E son disposti

Quei fori sì che de' maggiori allato

I minori per ordine son posti.

Della maggior balena e smisurato

È il primo, e digradando a mano a mano

L'occhio s'aguzza in su gli estremi invano.

 

 

46

 

Porte son questi d'altrettanti inferni

Che ad altrettanti generi di bruti

Son ricetti durabili ed eterni

Dell'anime che i corpi hanno perduti.

Quivi però da tutti i lidi esterni

Venian radendo l'aria intenti e muti

Spirti d'ogni maniera, e quella bocca

Prendea ciascun ch'alla sua specie tocca.

 

 

47

 

Cervi, bufali, scimmie, orsi e cavalli,

Ostriche, seppie, muggini ed ombrine,

Oche, struzzi, pavoni e pappagalli,

Vipere e bacherozzi e chioccioline,

Forme affollate per gli aerei calli

Empiean del tetro loco ogni confine,

Volando, perché il volo anche è virtude

Propria dell'alme di lor membra ignude.

 

 

48

 

Ben quivi discernean Dedalo e il conte

Queste forme che al Sol non avean viste,

Bench'alle spalle ai fianchi ed alla fronte

Sempre al lor volo assai ne fur commiste,

Che d'ogni valle, o poggio, o selva, o fonte

Van per l'alto ad ogni ora anime triste,

Verso quel loco che l'eterna sorte

Lor seggio destinò dopo la morte.

 

 

49

 

Ma come solamente all'aure oscure

Del suo foco la lucciola si tinge,

E spariscono al Sol quelle figure

Che la lanterna magica dipinge,

Così le menti assottigliate e pure

Di quel vel che vivendo le costringe

Sparir naturalmente al troppo lume,

Né parer che nell'ombra han per costume.

 

 

50

 

E di qui forse avvien che le sepolte

Genti di notte comparir son use,

E che dal giorno, fuor che rade volte,

Soglion le visioni essere escluse.

Vuole alcun che le umane alme disciolte

In un di questi inferni anco sien chiuse,

Posto là come gli altri in quella sede

Che la grandezza in ordine richiede.

 

 

51

 

E che Virgilio e tutti quei che diero

All'uman seme un eremo in disparte

favoleggiasser seguitando Omero,

E lo stil proprio de' poeti e l'arte,

Essendo del mortal genere in vero

Più feconda che l'uom la maggior parte.

Io di questo per me non mi frammetto:

Però l'istoria a seguitar m'affretto.

 

 

 

 

 

 

CANTO OTTAVO

 

1

 

La ragion perché i morti ebber sotterra

L'albergo lor non m'è del tutto nota.

Dei corpi intendo ben, perch'alla terra

Riede la spoglia esanime ed immota;

Ma lo spirto immortal ch'indi si sferra

Non so ben perché al fondo anche percota.

Pur s'altre autorità non fosser pronte,

Ciò la leggenda attesteria del conte.

 

 

2

 

Attonito a mirar lunga fiata

La novità dell'infernal soggiorno

Stette il buon Leccafondi, e dell'andata

La cagione obbliava ed il ritorno.

Ma Dedalo il riscosse, e rigirata

Ch'ebbero in parte la montagna intorno,

La bocca ritrovàr là dove a torme

De' topi estinti concorrean le forme.

 

 

3

 

Ivi dinanzi all'inamabil soglia

Dipartirsi convenne ai due viventi,

Per non poter, benché n'avesse voglia,

Dedalo penetrar fra' topi spenti,

Non sol vivendo, ma né men se spoglia

Anima andasse fra le morte genti:

Che non cape pur mezza in quella porta

La figura dell'uom viva né morta.

 

 

4

Maggiori inferni e dalla sua statura

Ben visitati avea l'uom forte e saggio,

E vedutili, fuor nella misura,

Conformi esser tra lor, di quel viaggio

Predetta aveva al topo ogni avventura,

Ch'or gli ridisse, e fecegli coraggio,

E messol dentro al sempiterno orrore,

Ad aspettarlo si fermò di fuore.

 

 

5

 

Io vidi in Roma su le liete scene

Che il nome appresso il volgo han di Fiano,

In una grotta ove sonar catene

S'ode e un lamento pauroso e strano,

Discender Cassandrin dalle serene

Aure per forza con un lume in mano,

Che con tremule note in senso audace

Parlando, spegne per tremar la face.

 

 

6

 

Poco altrimenti all'infernal discesa

Posesi di Topaia il cavaliere,

Salvo che non avea lucerna accesa,

Ch'ai topi per veder non è mestiere;

Né minacciando gia, che in quella impresa

Vedeva il minacciar nulla valere,

E pur volendo, credo che a gran pena

Bastata a questo gli saria la lena.

 

 

7

 

Tacito discendeva in compagnia

Di molte larve i sotterranei fondi.

Senza precipitar quivi la via

Mena ai più ciechi abissi e più profondi.

Can Cerbero latrar non vi s'udia,

Sferze fischiar né rettili iracondi,

Non si vedevan barche e non paludi,

Né spiriti aspettar sull'erba ignudi.

 

 

8

 

Senza custode alcuno era l'entrata

Ed aperta la via perpetuamente,

Che da persone vive esser tentata

La non può mai che malagevolmente,

E per l'uso de' morti apparecchiata

Fu dal principio suo naturalmente,

Onde non è ragion farvisi altrui

Ostacolò al calar ne' regni bui.

 

 

9

 

E dell'uscir di là nessun desio

Provano i morti, se ben hanno il come;

Che spiccato che fu de' topi l'io,

Non si rappicca alle corporee some,

E ritornando dall'eterno obblio,

Sanno ben che rizzar farian le chiome;

E fuggiti da ognuno e maledetti

Sarian per giunta da' parenti stretti.

 

 

10

 

Premii né pene non trovò nel regno

De' morti il conte, ovver di ciò non danno

Le sue storie antichissime alcun segno,

E maraviglia in questo a me non fanno,

Che i morti aver quel ch'alla vita è degno,

Piacere eterno ovvero eterno affanno,

Tacque, anzi mai non seppe, a dire il vero,

Non che il prisco Israele, il dotto Omero.

 

 

11

 

Sapete che se in lui fu lungamente

Creduta ritrovar questa dottrina,

Avvenne ciò perché l'umana mente,

Quei dogmi ond'ella si nutrì bambina

Veri non crede sol ma d'ogni gente

Natii, quantunque antica o pellegrina.

Dianzi in Omero errar di ciò la fama

Scoprimmo: ed imparar questo si chiama.

 

 

12

 

Né mai selvaggio alcun di premii o pene

Destinate agli spenti ebbe sentore,

Né già dopo il morir delle terrene

Membra l'alme credé viver di fuore.

Ma palpitare ancor le fredde vene,

E in somma non morir colui che more.

Perch'un rozzo del tutto e quasi infante

La morte a concepir non è bastante.

 

 

13

 

Però questa caduca e corporale

Vita, non altra, e il breve uman viaggio

In modi e luoghi incogniti immortale

Dopo il fato durar crede il selvaggio

E lo stato i sepolti anco aver tale,

Qual ebber quei di sopra al lor passaggio,

Tali i bisogni e non in parte alcuna

Gli esercizi mutati o la fortuna.

 

 

14

 

Ond'ei sotterra con l'esangue spoglia

Ripon cibi e ricchezze e vestimenti,

Chiude le donne e i servi acciò non toglia

Il sepolcro al defunto i suoi contenti,

Cani, frecce ed arnesi a qualsivoglia

Arte ch'egli adoprasse appartenenti,

Massime se il destin gli avea prescritto

Che con la man si procacciasse il vitto.

 

 

15

 

E questo è quello universal consenso

Che in testimon della futura vita

Con eloquenza e con sapere immenso

Da dottori gravissimi si cita,

D'ogni popol più rozzo e più milenso,

D'ogni mente infingarda e inerudita:

Il non poter nell'orba fantasia

La morte immaginar che cosa sia.

 

 

16

 

Son laggiù nel profondo immense file

Di seggi ove non può lima o scarpello,

Seggono i morti in ciaschedun sedile

Con le mani appoggiate a un bastoncello,

Confusi insiem l'ignobile e il gentile

Come di mano in man gli ebbe l'avello.

Poi ch'una fila è piena, immantinente

Da più novi occupata è la seguente.

 

 

17

 

Nessun guarda il vicino o gli fa motto.

Se visto avete mai qualche pittura

Di quelle usate farsi innanzi a Giotto,

O statua antica in qualche sepoltura

Gotica, come dice il volgo indotto,

Di quelle che a mirar fanno paura,

Con le facce allungate e sonnolenti

E l'altre membra pendule e cadenti,

 

 

18

 

Pensate che tal forma han per l'appunto

L'anime colaggiù nell'altro mondo,

E tali le trovò poi che fu giunto

Il topo nostro eroe nel più profondo.

Tremato sempre avea fino a quel punto

Per la discesa, il ver non vi nascondo,

Ma come vide quel funereo coro

Per poco non restò morto con loro.

 

 

19

 

Forse con tal, non già con tanto orrore

Visto avete in sua carne ed in suoi panni

Federico secondo imperatore

In Palermo giacer da secent'anni

Senza naso né labbra, e di colore

Quale il tempo può far con lunghi danni,

Ma col brando alla cinta e incoronato,

E con l'imago della terra allato.

 

 

20

 

Poscia che dal terror con gran fatica

A poco a poco ritornato il conte

Oso fu di mirar la schiera antica

Negli occhi mezzo chiusi e nella fronte,

Cercando se fra lor persona amica

Riconoscesse alle fattezze conte,

Gran tempo andò con le pupille errando

Di contanti nessun raffigurando.

 

 

21

 

Sì mutato d'ognuno era il sembiante,

E sì tra lor conformi apparian tutti,

Che a gran pena gli venne in sul davante

Riconosciuto in fin Mangiaprosciutti,

Rubatocchi e poche altre anime sante

Di cari amici suoi testè distrutti:

A cui principalmente il sermon volto

Narrò perché a cercarli avesse tolto.

 

 

22

 

Ma gli convenne incominciar dal primo

Assalto che dai granchi ebbero i suoi,

Novo agli scesi anzi quel tempo all'imo

Essendo quel che occorso era da poi.

Ben ciascun giorno dal terrestre limo

Discendon topi al mondo degli eroi,

Ma non fan motto, che alla gente morta

Questa vita di qua niente importa.

 

 

23

 

Narrato ch'ebbe alla distesa il tutto,

La tregua, il novo prence e lo statuto,

Il brutto inganno dei nemici, e il brutto

Galoppar dell'esercito barbuto,

Addimandò se la vergogna e il lutto

Ove il popol de' topi era caduto

Sgombro sarebbe per la man de' molti

Collegati da lui testè raccolti.

 

 

24

 

Non è l'estinto un animal risivo,

Anzi negata gli è per legge eterna

La virtù per la quale è dato al vivo

Che una sciocchezza insolita discerna,

Sfogar con un sonoro e convulsivo

Atto un prurito della parte interna.

Però, del conte la dimanda udita,

Non risero i passati all'altra vita.

 

 

25

 

Ma primamente allor su per la notte

Perpetua si diffuse un suon giocondo,

Che di secolo in secolo alle grotte

Più remote pervenne insino al fondo.

I destini tremàr non forse rotte

Fosser le leggi imposte all'altro mondo,

E non potente l'accigliato Eliso,

Udito il conte, a ritenere il riso.

 

 

26

 

Il conte, ancor che la paura avesse

De' suoi pensieri il principal governo,

Visto poco mancar che non ridesse

Di se l'antico tempo ed il moderno,

E tutto per tener le non concesse

Risa sudando travagliar l'inferno,

Arrossito saria, se col rossore

Mostrasse il topo il vergognar di fuore.

 

 

27

 

E confuso e di cor tutto smarrito,

Con voce il più che si poteva umile,

E in atto ancor dimesso e sbigottito,

Mutando al dimandar figura e stile,

Interrogò gli spirti a qual partito

Appigliar si dovesse un cor gentile

Per far dell'ignominia ov'era involta

La sua stirpe de' topi andar disciolta.

 

 

28

 

Come un liuto rugginoso e duro

Che sia molti anni già muto rimaso,

Risponde con un suon fioco ed oscuro

A chi lo tenta o lo percota a caso,

Tal con un profferir torbo ed impuro

Che fean mezzo le labbra e mezzo il naso,

Rompendo del tacer l'abito antico

Risposer l'ombre a quel del mondo aprico.

 

 

29

 

E gli ordinàr che riveduto il sole

Di penetrar fra' suoi trovasse via,

Che poi ch'entrar della terrestre mole

Potea nel cupo, anche colà potria.

Ivi in pensieri, in opre ed in parole

Seguisse quel che mostro gli saria

Per lavar di sua gente il disonore

Dal general di nome Assaggiatore.

 

 

30

 

Era questi un guerrier canuto e prode

Che per senno e virtù pregiato e culto

D'un vano perigliar la vana lode

Fuggia, vivendo a più potere occulto,

Trattar le ciance come cose sode

A genti di cervel non bene adulto

Lasciando, e sotto non superbo tetto

Schifando del servaggio il grave aspetto.

 

 

31

 

Infermo egli a giacer s'era trovato

Quando il granchio alle spalle ebbero i suoi,

Ed a congiure sceniche invitato

Chiusi sempre gli orecchi avea di poi,

Onde cattivo cittadin chiamato

Era talor dai fuggitivi eroi,

Ed ei, tranquillo in sua virtù, la poco

Saggia natura altrui prendeva in gioco.

 

 

32

 

Tale oracolo avuto alle superne

Contrade i passi ritorceva il conte,

Scritto portando delle valli inferne

Lo spavento negli atti e nella fronte.

Qual di Trofonio già nelle caverne

Agli arcani di Stige e d'Acheronte

Ammesso il volgo, in su l'aperta riva

Pallido e trasformato indi reddiva.

 

 

33

 

Presso alla soglia dell'avaro speco

Dedalo ritrovò che l'attendeva,

E poi ch'alquanto ragionando seco

Di quel che dentro là veduto aveva,

Riposato si fu sotto quel cieco

Vel di nebbia che mai non si solleva,

Rassettatesi l'ali in su la schiena

Con lui di novo abbandonò l'arena.

 

 

34

 

Riviver parve al semivivo, uscito

Che fu del buio a riveder le stelle.

Era notte e splendean per l'infinito

Ocean le volubili facelle,

Leggermente quel mar che non ha lito

Sferzavan l'auree fuggitive e snelle,

E s'andava a quel suono accompagnando

Il rombo che color facean volando.

 

 

35

 

Rapido sì che non cedeva al vento

Ver Topaia drizzàr subito il volo,

Portando l'occhio per seguire intento

I due lumi ch'ha sempre il nostro polo.

D'isole sparso il liquido elemento

Scoprian passando, e su l'oscuro suolo

Volare allocchi, e più d'un pipistrello

Che al topo s'accostò come fratello.

 

 

36

 

Valiche l'acque, valicàr gran tratto

Di terra ferma ed altro mar di poi,

E così come prima avevan fatto

La parte rivarcàr che abitiam noi.

Già di rincontro a lor nasceva e ratto

Si spandeva il mattin sui monti eoi,

Quando là di Topaia accanto al sasso

Chinàr Dedalo e il conte i vanni al basso.

 

 

37

 

Quivi non visti rintegràr le dome

Forze con bacche e con silvestri ghiande.

Poscia Dedalo, avuta io non so come

Una pelle di granchio in quelle bande,

L'altro coprì delle nemiche some

Tal che parve di poi tra le nefande

Bestie un granchio più ver che appresso i Franchi

Non paion delle donne i petti e i fianchi.

 

 

38

 

Alfin del conte alle onorate imprese

Fausto evento pregando e fortunato

L'ospite e duce e consiglier cortese,

Partendosi, da lui prese commiato.

Piangeva il topo, e con le braccia stese

Cor gli giurava eternamente grato.

Quei l'abbracciò come poteva, e solo

Poi verso il nido suo riprese il volo.

 

 

39

 

L'esule a rientrar nella dolente

Città non fe' dimora, e poi che l'ebbe

Con gli occhi intorno affettuosamente

Ricorsa, e con gli orecchi avido bebbe

Le patrie voci, a quel che alla sua gente

Udito avea che lume esser potrebbe,

Senza punto indugiarsi andò diritto,

Dico al guerrier di cui più sopra è scritto.

 

 

40

 

A conoscer si diede, e qual desire

Il movesse a venir fece palese.

Quegli onorollo assai, ma nulla udire

Volle di trame o di civili imprese.

Cercollo il conte orando ammorbidire,

Ma tacque il volo e l'infernal paese,

Perché temé da quel guerrier canuto

Per visionario e sciocco esser tenuto.

 

 

41

 

Più volte l'instancabile oratore

Or solo ed or con altra compagnia

Tornato era agli assalti, ed a quel core

Aperta non s'aveva alcuna via.

Ultimamente un dì che Assaggiatore

Con più giovani allato egli assalia,

Quei ragionò tra lor nella maniera

Che di qui recitar creduto io m'era.

 

 

42

 

Perché, se ben le antiche pergamene

Dietro le quali ho fino a qui condotta

La storia mia qui mancano, e se bene

Per tal modo la via m'era interrotta,

La leggenda che in quella si contiene

Altrove in qual si fosse lingua dotta

Sperai compiuta ritrovar: ma vòto

Ritornommi il pensiero e contro il voto

 

 

43

 

Questa in lingua sanscrita e tibetana

Indostanica, pahli e giapponese,

Arabica, rabbinica, persiana,

Etiopica, tartara e cinese,

Siriaca, caldaica, egiziana,

Mesogotica, sassone e gallese,

Finnica, serviana e dalmatina,

Valacca, provenzal, greca e latina,

 

 

44

 

Celata in molte biblioteche e molte

Di levante si trova e di ponente,

Che vidi io stesso o che per me rivolte

fur da più d'un amico intelligente.

Ma di tali scritture ivi sepolte

Nessuna al caso mio valse niente,

Che non v'ha testo alcun della leggenda

Ove più che nel nostro ella si stenda.

 

 

45

 

Però con gran dolor son qui costretto

Troncando abbandonar l'istoria mia,

Tutti mancando in fin, siccome ho detto,

I testi, qual che la cagion si sia:

Come viaggiator, cui per difetto

Di cavalli o di rote all'osteria

Restar sia forza, o qual nocchiero intento

Al corso suo, cui venga meno il vento.

 

 

46

 

Voi, leggitori miei, l'involontario

Mancamento imputar non mi dovete.

Se mai perfetto in qualche leggendario

Troverò quel che in parte inteso avete,

Al narrato dinanzi un corollario

Aggiungerò, se ancor legger vorrete.

Paghi del buon desio restate intanto,

E finiscasi qui l'ottavo canto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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E-text

Editoria, Web design, Multimedia

http://www.e-text.it/

 

QUESTO E-BOOK:

 

TITOLO: Paralipomeni della Batracomiomachia

AUTORE: Leopardi, Giacomo

TRADUTTORE:

CURATORE: Binni, Walter

NOTE:

 

DIRITTI D'AUTORE: no

 

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza

specificata al seguente indirizzo Internet:

http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/

 

TRATTO DA: Giacomo Leopardi, "Tutte le opere",

a cura di Walter Binni,

con la collaborazione di Enrico Ghidetti,

Sansoni Editore,

Firenze, 1983

 

CODICE ISBN: informazione non disponibile

 

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 16 luglio 2001

 

INDICE DI AFFIDABILITA': 1

0: affidabilità bassa

1: affidabilità media

2: affidabilità buona

3: affidabilità ottima

 

ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:

Vittorio Volpi, [email protected]

 

REVISIONE:

Stefano D'Urso, [email protected]

 

PUBBLICATO DA:

Alessia Cremonini

 

Informazioni sul "progetto Manuzio"

Il "progetto Manuzio" è una iniziativa dell'associazione culturale Liber Liber. Aperto a chiunque voglia collaborare, si pone come scopo la pubblicazione e la diffusione gratuita di opere letterarie in formato elettronico. Ulteriori informazioni sono disponibili sul sito Internet: http://www.liberliber.it/

 

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