Ma nessuno bada a lui.
Dopo attimi, lunghi come secoli, con la voce di sempre, annoiata e perentoria ad un tempo, la madre dice:
— Andrai tu, Pel di Carota, ogni sera, a chiudere il pollaio. E fa’ che non accada più che io debba rammentartelo.
* * *
Com’era e cos’era Pel di Carota?
Una curiosa combinazione di sfrontatezza e di pudore, di egoismo e di ge-nerosità, di infingardaggine e di solerzia. Così appariva a chi si fosse proposto di osservarlo e studiarlo, ma nessuno in casa Lepic si poneva problemi di questo genere e il bambino, poco vezzeggiato e meno seguito, amava lasciarsi cullare da queste sue alterne tendenze lasciando che, di volta in volta, luna o l’altra avesse il sopravvento.
E poiché, generalmente, le buone intenzioni non sono mai tali da porre in evidenza i sentimenti che le generano, soltanto le cattive attitudini sottolineano il carattere e il temperamento di un ragazzo: il che, per Pel di Carota, equivaleva ad una etichetta sfavorevole e allarmistica, posta come indice di pericolo sulla sua personcina insignificante, gracile e priva di qualunque attrattiva.
La stessa madre, se fosse stata interrogata in proposito, non avrebbe saputo dare miglior giudizio a carico di quel fanciullo tanto estroso e a volte svanito da farlo considerare meno dotato di intelligenza di quel che realmente fosse. A scuola se la cavava discretamente: senza infamia e senza onore.
Con i fratelli viveva in buona armonia, anzi ne subiva le angherìe, forse per amore, con una sottomissione che non deponeva a favore del suo amor proprio.
Nei giochi che giocano tutti i ragazzi non eccelleva mai. Si limitava ad eseguirli e basta: senza entusiasmo, come se si trattasse di una necessità a cui doveva sottoporsi, come ci si sottopone a tutte le cose che, in capo ad un giorno, i ragazzi debbono portare a termine.
Lui stesso, forse, non si capiva: tentava a volte di farlo, ma si perdeva in congetture tali che gli davano il capogiro.
Suo padre, il perfetto ed autorevole signor Lepic, era il più comune uomo fra gli uomini comuni di questa terra.
Lavorava, provvedeva alla famiglia nei limiti delle sue possibilità, senza slanci e senza fantasia. Amava la caccia e per udirlo parlare, seppure molto misuratamente, bastava chiedere qualche spiegazione sulle armi, sui passi dei volatili, sulle zone più favorevoli. Altri argomenti non occupavano la sua mente.
Pel di Carota, che un giorno, chissà per quale impulso, aveva battuto violentemente il capo di una pernice ferita, estratta dal carniere paterno, uccidendola, era salito di un gradino nella considerazione del signor Lepic che, giudicando il figliolo un essere freddo, duro, senza cuore, si compiaceva, ogni volta che rientrava dalla caccia, di obbligarlo a quell’ingrato compito cui Pel di Carota, con lo stomaco in subbuglio, si prestava unicamente perché vedeva, cosa assai rara, l’interesse di tutta la famiglia polarizzato su di lui.
E quando qualche uccello agitava ancora la testa in modo penoso e rabbrividiva agonizzando, la madre o il padre, a seconda di chi assisteva a quel pietoso spettacolo, si affrettava a dire:
— Dunque, Pel di Carota, che aspetti a finire quelle povere bestie?
E Pel di Carota, che rabbrividiva più della selvaggina morente, per un residuo di quella dignità che lo investiva come una dote di non comune merito, afferrava fra le manine sudate e gelide quei corpicini tiepidi, convulsi, con le ali palpitanti e compiva quella triste bisogna con un groppo in gola, sforzandosi di nascondere le lacrime che gli offuscavano la vista.
Felice ed Ernestina, quando accadevano queste cose, incrudelivano contro il fratellino con parole sferzanti:
— Sei peggio di un carnefice, tu! Un boia, sei, un boia!
Ma Pel di Carota, che li sapeva incapaci di fare altrettanto, vedeva nei loro occhi una scintilla di invidia e questo per la sua piccola anima, inconsapevole e compressa, era un premio che valeva la pena di guadagnare a così caro prezzo.
La stessa signora Lepic commentava questi fatti senza un briciolo di compassione per quel suo figliolo tanto piccolo e tanto crudele:
— È inaudito! Come faccia ad avere tanto sangue freddo e compiere gesti così stomachevoli con tanta indifferenza, non so spiegarmelo. In quei momenti non mi par neppure che possa essere mio figlio. Di che pasta sarà mai fatto? Dove trova tanto coraggio e tanta raffinata crudeltà?
Questi episodi, se pur non frequenti, mettevano attorno a Pel di Carota un curioso alone di distacco da tutti gli altri ragazzi della sua età. Qualunque cosa egli facesse o dicesse, perfettamente intonata alla sua giovinezza inesperta, assumeva, perché detta o fatta da lui, un tono diverso dal normale significato, come se tutto ciò che passava per il suo cervello dovesse colorirsi di colori speciali ed apparire sfocato o più nettamente delineato, agli occhi di chi lo giudicava, a seconda del proprio potere giudicante.
* * *
Piccoli fatti insignificanti, cose d’ogni giorno, quando si innestavano nei gesti o nelle parole di Pel di Carota, assumevano proporzioni fuori dal comune.
Spesso, la sera, dopo cena, quando la famiglia restava alcune ore nella cucina, sotto la lampada o accanto al fuoco, leggendo o conversando sotto voce, per non disturbare il signor Lepic intento a far conti o a sfogliare un giornale, Piramo, il cane di casa Lepic, accucciato nel suo angolino preferito, accanto al caminetto, improvvisamente, senza ragione, si metteva a guaire, prima sommessamente, poi più acutamente, fino ad abbaiare furioso.
— Taci, bestiaccia! — brontola il signor Lepic.
— Silenzio, stupido! — bercia la signora Lepic minacciando il cane con una scopa.
Piramo tace, per un poco, poi riprende in sordina un brontolio ringhioso, insopportabile.
Inutile picchiarlo, intimargli silenzio. Appiattito al suolo, Piramo mostra i denti e il pelo gli si arriccia sull’arco della schiena.
1 comment