Ernestina è spaventata. Il signor Lepic è furioso. Felice protesta contro quell’infernale fracasso. Nessuno si rende conto di che cosa induca il cane, sempre così tranquillo, a dar segni tanto evidenti di stizza repressa.

Pel di Carota, che s’abbrustolisce le gambe alla fiamma del focolare, si al-za e afferma, con importanza:

— Forse fa così perché sente avvicinarsi un pericolo …

E senza che nessuno lo esorti, esce dalla cucina per andare a vedere che cosa accade nel cortile.

Tutti lo guardano sbalorditi. Quegli sguardi sono per il fanciullo più entu-siasmanti di una fanfara. In realtà egli ha paura, una paura che lo agghiaccia e già vede, nel cortile, vagabondi, ladri, assassini, pronti a sgozzare l’intera famiglia Lepic. Ma il suo prestigio di bambino coraggioso è in ballo e, paura o no, egli deve andare, deve mostrare all’intera famiglia che lui, e lui soltanto, ha il coraggio necessario per affrontare quel pericolo che minaccia tutti.

Ecco, il solito corridoio è buio, freddo, con le sue pietre sconnesse fatte apposta per farlo inciampare, ma Pel di Carota, con le manine protese in avanti, come un cieco, riesce a giungere fino alla porta.

Trova il catenaccio e lo trae faticosamente fuori dagli anelli fino a farlo cigolare per l’impegno che pone nel far tutto il rumore possibile. Resta un attimo, soltanto, ritto al centro della gran porta spalancata e scruta nell’oscurità riconoscendo la sagoma del carro abbandonato al centro del cortile. Sa che non c’è nessuno, lo sa di certo, ma ha paura ugualmente.

Quando chiude piano la porta e vi si sofferma contro, prima di far nuovamente scorrere il lungo catenaccio, sa di aver barato, perché il suo coraggio è una specie di truffa ai danni di chi lo crede capace di qualunque ardimento.

Egli sa di ingannare i suoi che lo credono intento a frugare in ogni angolo, attorno alla casa, in cerca di chi sa quali insidie, mentre, incollato alla porta, aspetta e si obbliga a far sì che passi il tempo necessario perché il suo comportamento sia coronato da successo.

Sente, dentro le scarpe sdrucite, l’alluce ancora dolente per i calci affib-biati al cane, senza che nessuno lo abbia veduto, e quando è certo che è giunto il momento di rientrare, manovra sul catenaccio senza pietà, per far tutto il maggior rumore possibile.

Fischietta, tossisce, sternuta mentre si avvia alla cucina e, spalancando la porta, annuncia:

— Non c’è nessuno!

Anche il padre, insieme agli altri, lo guarda attonito.

— Il cane avrà sognato — dichiara riprendendo il suo posto accanto al fuoco — lo fa spesso. È un cane stupido, non ci badate.

Il calore della fiamma gli asciuga il sudore freddo che gli cola attorno al collo e scende giù, lungo la spina dorsale, come la lama di un pugnale.

Il trucco gli riesce sempre e la paura si pasce di questa certezza che gli consente di ingannare le persone adulte, quelle persone che guardano a lui come a un essere inutile e meschino ma che, di fronte a queste prove di audacia, certamente modificano in meglio il loro giudizio.

Piramo ha ripreso a dormire, tranquillo. Gli altri tacciono e nemmeno una parola è uscita dalle loro labbra per compiacersi del coraggio di cui Pel di Carota ha fatto sfoggio.

Ma egli sa che si stanno chiedendo di che materia sia fatto quel suo corpicino gracile e mal costruito e di questi loro pensieri egli si fregia, come di una medaglia.

MATERASSI AL SOLE

Ma nelle giornate di Pel di Carota non si inserivano soltanto le prove esibizionistiche. Ogni medaglia ha il suo rovescio e, ai molti difetti, che nella bilancia pesano assai più delle scarse manifestazioni spettacolari, due colpe, soprattutto, segnavano una riga nera a suo demerito.

Russare e bagnare il letto.

Quando era più piccino, alcuni anni fa, nella grande camera della signora Lepic, gelata anche nel mese di agosto, vi erano due enormi letti: uno tutto per il signor Lepic, che amava rivoltarsi fra le lenzuola e che non tollerava accanto a sé, come invece si verifica in tutte le famiglie di questo mondo, la propria moglie, ed un altro, più piccolo, in cui dormivano Pel di Carota e la madre.

Pel di Carota sapeva che la mamma non sopportava quel suo russare senza fine e per non perdere la possibilità di dormire accanto a lei, fin da piccino, ogni sera, appena coricato, tossicchiava, si ispezionava le fosse nasali per accertarsi che fossero perfettamente sgombre, si schiariva la gola e respirava adagio soddisfatto di quel suo respiro lieve, senza sibili.

Ma, appena il sonno si impadroniva di lui, ecco, come se venisse azionato un congegno, dalla bocca, dal naso, senza sosta, assordante, quel rumore infernale riempiva la stanza e saliva di tono ad ogni tirar di fiato come se l’aria, aspirata dai suoi polmoni, passasse attraverso un complicato meccanismo.