Smith, visione concorrenziale e finalismo, e che considera prodotto del conflitto ciò che sembra essere proprio dell’intelletto umano, del complesso gioco e dell’interazione fra le diverse facoltà umane, si è attirata critiche severe.5 Essa è tuttavia funzionale, per un verso, a una precisa idea della società e delle sue dinamiche, per altro verso, alla giustificazione del progresso e del perfezionamento dell’uomo; ma è anche applicata alla constatazione della presenza inestirpabile e, come dice Ricoeur, mai scrutabile fino in fondo, del male radicale,6 di profonda radice luterana.

La conseguenza è allora che l’antagonismo produce disuguaglianza, oppressione, sfruttamento, privilegi, bisogni sofisticati; una serie di mali che, diremmo mandevillianamente, contribuiscono anch’essi al progressivo, globale avanzamento della specie. Infine, a coronamento degli effetti, per Kant è ancora dal carattere antagonistico della natura dell’uomo che si origina l’ordinamento sociale, nel quale sono fissate le modalità di composizione e di controllo dell’antagonismo stesso in ordine alla convivenza umana.

1.2 La società: dalla condizione selvaggia alla condizione civile

Questo ordinamento è indicato da Kant come la più elevata costruzione che la natura affida al genere umano, costringendovelo, in certa misura, attraverso l’impellere del bisogno di sicurezza, che mai può essere soddisfatto in una condizione come quella selvaggia, originaria, regno dell’incertezza e della precarietà. Motivazione già riconosciuta dai giusnaturalisti, che, non diversamente da Kant, trascurano altre complesse ragioni come la tutela e promozione della persona.

L’ordinamento della società, cui presiede la costituzione civile, realizza il passaggio da una condizione naturale, in cui i rapporti sociali sono governati dal principio della forza, a una condizione civile, dove gli stessi rapporti sono governati dal principio del diritto, il quale non si configura solo come strumento di sicurezza collettiva. La società politica, fondata sulla legge e il suo ordinamento, è in grado infatti di garantire una uguale espressione della libertà di tutti i suoi membri, a patto che «la libertà sotto leggi esterne sia congiunta nel più alto grado possibile con un potere irresistibile». Potere che propriamente dovrebbe essere solo coattivo, ma al quale Kant esige che non si possa «resistere», neppure in caso di tirannia. Con la società civile o politica si raggiunge dunque il duplice obiettivo: di una composizione pacifica delle contrastanti tendenze umane, nel mentre si pongono in atto le condizioni per utilizzare al meglio, attraverso l’uguale esercizio della libertà, quelle stesse tendenze antagonistiche.

Esaltando infatti la volontà di affermazione di ogni individuo (ambizione, emulazione) e insieme le sue capacità, se ne favorisce secondo Kant la crescita sul modello «degli alberi in un bosco», ciascuno dei quali, nella costrizione spaziale in cui si trova, «cercando di sottrarre aria e luce all’altro» si spinge più in alto, con il risultato di «crescere belli e dritti»; mentre gli alberi che, in totale libertà e lontani tra loro, mettono rami a piacere, «crescono storpi, storti e tortuosi». La costrizione legale (analoga a quella spaziale) regolando le libertà individuali neutralizza, per Kant, gli esiti nefasti del dispiegarsi dell’insocievolezza.

Certo, occorre una «costituzione perfettamente giusta», che è poi per Kant il fine della natura rispetto alla specie umana. Un fine che si traduce in compito supremo e quanto mai arduo, che sempre si scontra con la realtà imperfetta dell’uomo, portato ad abusare della propria libertà. Del resto, Kant lo definisce duramente «animale che ha bisogno di un padrone» che ne pieghi la volontà, costringendolo a sottostare a una «volontà universalmente valida» e garantendo la libertà di ciascuno. Un padrone che sia però supremamente giusto, dal momento che deve costituire l’organo di garanzia della «giustizia pubblica». Affermazione forte e diretta, a seguito della quale si presentano difficoltà di ordine diverso; essa sembra inficiare il presupposto stesso della capacità umana di autodeterminarsi. Sembra prodursi, infatti, una scissione fra l’animalità dell’uomo che ha bisogno di un padrone e la razionalità/moralità che pare destinata a diventare il vero padrone. Ma qui si discute della libertà esterna, dunque il padrone è il capo supremo, il quale deve essere giusto per se stesso, ma anche uomo. La difficoltà diventa così, per Kant, pressoché insolubile, nel senso che, come egli stesso dice, è «impossibile» trovare una soluzione perfetta. Non resta allora che procedere per approssimazioni successive, avvicinandosi in un percorso lungo, forse inesauribile, a un’idea che gli corrisponda. Infatti, come Kant conferma nella Conclusione della Rechtslehre, «la costituzione giuridica perfetta fra gli uomini dev’essere annoverata fra le idee alle quali non si può trovare nell’esperienza nessun oggetto adeguato».

Così il continuo approssimarsi a una tale idea della ragione (coincidente con l’approssimarsi al fine), il cui carattere di perfezione la rende inattingibile dall’uomo, almeno nella sua compiutezza, non costituisce se non il cammino verso quell’idea, rappresentato dallo sviluppo della coscienza civile e, a livello più alto, dalla coscienza morale. Si tratta naturalmente di un approssimarsi di tipo asintotico, cui non segue un raggiungimento. Tuttavia, ritenere possibile tale percorso di avvicinamento a una costituzione politica perfetta significa ritenere possibile il progresso civile e morale.7

Ma Kant non si ferma qui. In totale analogia con la costituzione civile perfetta, obiettivo e compito cui la natura e la ragione «costringono» individui egoisti e fra loro insocievoli, li inducono ad abbandonare il ricorso alla forza per dirimere le loro controversie e accedere a una convivenza governata da una legge sempre più adeguata, da cui riceveranno sicurezza e libertà, allo stesso modo la natura e la ragione «costringono» gli stati, agitati da un costante antagonismo, a uscire dalla condizione di «selvaggi privi di leggi» ed entrare in una lega di popoli, dalla quale potranno attendersi sicurezza e diritti, non secondo la propria forza e potenza, bensì secondo «le leggi della volontà riunita». La lega degli stati o federazione è anch’essa, come la costituzione interna perfetta, un’idea della ragione cui, ancora una volta, approssimarsi. Un’idea in seguito continuamente ripresa e rielaborata da Kant, che evolverà verso livelli di maggiore esplicitazione e chiarezza nella terza Critica, dove assume la forma del «tutto cosmopolitico» o «sistema di tutti gli stati»,8 e soprattutto nel progetto di Pace perpetua.

Fin dall’abbozzo, l’idea di federazione rientra nella prospettiva di pacificare gli stati. Kant anticipa che il suo attuarsi richiede un più elevato livello di sviluppo delle disposizioni naturali della specie, e che solo un’alta crescita della cultura e della sua capacità di modificare l’ambiente naturale e sociale, insieme a un’alta crescita della moralità, possono infine consentire.

Né Kant ignora la complessa attività a favore della pace svolta dai filosofi della tradizione pacifista, la cui idea di pace aveva subito letture distorte e continue irrisioni. Il suo riferimento è soprattutto a Saint-Pierre, il «sognatore sublime», come veniva chiamato, e a Rousseau, i quali avevano peccato nel descrivere la pace come una condizione concretamente raggiungibile in breve tempo, attirandosi in tal modo ironici epiteti. La loro proposta, e la concezione dei rapporti politici che la anima, nascevano da un indubitabile bisogno; e se l’universalità dell’aspirazione che le sosteneva era tutt’altro che illusoria, tutt’altro che «un sogno irrealizzabile», pure era mancata all’Abbé, come già notava Rousseau nel suo Jugement, la comprensione delle cause sociali e politiche della guerra: la «conquista» e il «dispotismo», in sostanza «il sistema dell’assolutismo» in quanto tale; la stessa incomprensione che poi gli impediva la ricerca di strumenti efficaci per stabilire la pace e che lo faceva «ragionare come un bambino riguardo ai mezzi per attuarla». Kant è perciò attento a non incorrere nello stesso errore. La sua è un’ottica prospettica che, pur ancorandosi a una base di stabili acquisizioni giuridico-politiche, non giunge a un esito scontato. Resta piuttosto ferma nella sollecitazione di un impegno morale e politico in direzione dell’ideale razionale della pace, ritenendo fondato, e non impossibile, né vano, perseguirlo nell’agire pratico, cioè nella vita e nella storia, secondo principi razionali, come si vedrà dal progetto filosofico che andiamo ad analizzare.9

Anche le guerre – non la guerra di tipo animale generata dal bisogno-istinto, e neppure la guerra generata dalla «suprema intolleranza» reciproca degli uomini, che ha favorito il popolamento della terra fin nelle zone più inospitali – bensì le guerre incessantemente preparate dall’antagonismo degli stati, nella concezione politica kantiana appartengono ai tentativi variamente condotti di modificare gli assetti statuali nel percorso gradualistico di approssimazione al fine. Ancora nuove rivoluzioni, Kant prevede che si produrranno, prima che si instauri una situazione politica di equilibrio favorevole alle finalità federalistiche e cosmopolitiche.

L’affermarsi dell’ordinamento, che Kant chiama cosmopolitico – di compiuta unione civile del genere umano – , ha in realtà bisogno di essere preceduto da una «generale moralizzazione», cioè dal compimento del terzo e più elevato livello di sviluppo nel quale si troverà «l’uomo buono». Né, che l’umanità sia in sommo grado acculturata, o che sia «civile fino alla noia» negli atteggiamenti e nei comportamenti, che cioè abbia «l’apparenza» della moralità, vuol dire che essa sia moralmente progredita. La moralizzazione non solo è ben altro rispetto al pur grande livello di politesse raggiunto dall’umanità (ch’è invece solo «apparenza», «parvenza» di moralità), ma sembra ancora molto lontana.