Per Kant, è tuttavia legittimo pensare a una storia universale, a un ipotetico corso del mondo secondo fini razionali, senza sfociare in una narrazione fantastica, proprio presumendo che la progettazione continua, compiuta dalla stessa libertà umana entro la sua crescita e non senza sofferenze, risponda a un piano della natura. È un piano di cui l’uomo non riesce a penetrare il segreto meccanismo, ma che può essere assunto come filo conduttore, utile per delineare un percorso coerente e sistematico, in mancanza del quale si dovrebbero pensare le azioni umane come del tutto disaggregate e affidate al caso. L’ipotesi di assenza di ordine, di fine, appare infatti a Kant, conformemente alla mentalità del tempo, quanto di più inverosimile e inconcepibile. Invece, le grandi linee della storia, da quella antica, greca e romana, fino a quella moderna, mostrano, se ben indagate, un «corso regolare dei miglioramenti della costituzione politica del nostro continente».

Uno sguardo macrostorico evidenzia, dunque, per Kant, un percorso di progresso globale, che si è venuto compiendo attraverso «miglioramenti delle costituzioni politiche». E qui egli offre il suo specifico contributo alla dottrina illuministica del progresso che era venuta maturando da un principio inizialmente angusto, aristocratico e scientistico, quantitativo (pensiamo a Fontenelle, alla Querelle des anciens et des modernes), verso aperture faticose, ma sempre più significative sul sociale e il morale, verso la pace con Saint-Pierre, verso la verità con Turgot, poi la virtù e la felicità con Condorcet. Per Kant è l’avanzare del diritto all’interno della convivenza politica, la misura del progresso umano. Nel diritto è avanzata la libertà dell’uomo con le sue garanzie, si è estesa a fasce sempre più ampie di popolazione, ha espanso il principio di uguaglianza di fronte alla legge. Su questi presupposti, nei quali il livello teleologico e il livello deterministico restano si può dire contigui (nel senso che non si confondono né si contrappongono), Kant non trova arbitrario fare delle previsioni; ragionare intorno a un millenarismo della filosofia; dal momento che entro la sua visione della storia è possibile non solo ricostruire e valutare il passato per comprendere il presente, ma è anche legittima una proiezione razionale sul futuro. Non più una prefigurazione fatalistica né fideistica, bensì un millenarismo della filosofia, vale a dire della ragione.10

Il richiamo a un millenarismo filosofico, o a un chiliasmo, secondo l’espressione di Kant, è particolarmente significativo in questo contesto, dove si costituisce come bussola etico-politica. Il riferimento analogico è alla capacità della ragione filosofica di prefigurare in termini storico-razionali, non più religiosi, tantomeno visionari, una destinazione morale e politica dell’umanità, esplicitata nella prospettiva cosmopolitica, di pacifica convivenza del genere umano. Un alto obiettivo utopico affidato alla storia, proprio nel senso che era maturato lungo l’età dei Lumi e che faceva dei principi e delle aspirazioni istanze ideali che il progresso avrebbe gradualmente realizzato nel corso storico. Proprio per questo Kant svincola il chiliasmo dalla sfera mitico-religiosa, che non avrebbe potuto essere discussa su un piano di praticabilità e storicità al quale invece egli intende rimanere ancorato. Lo lega invece in modo inedito alla filosofia, cioè alla ragione, espungendone, con il carattere visionario ogni irrazionalità, la Schwärmerei; recuperandone, invece, la capacità di progettare e costruire nel tempo. Utilizza poi anche lo slittamento escatologico per una proiezione del progresso e della sua continuità oltre la storia, oltre il tempo e l’esistenza empirica, in vista di una moralità sempre più elevata.

2. Carattere e struttura del progetto filosofico di pace perpetua

L’articolata premessa antropologico-teleologica che abbiamo visto si chiude, dunque, affermando la legittimità della progettazione etica e storica: una progettazione non illusoria e velleitaria, bensì razionale, da parte del filosofo, del libero pensatore, in quanto tale capace di analisi e di proposta.

Il progetto filosofico della pace perpetua11 diventa così espressione peculiare del pensatore che sviluppa un’idea della ragione, mostrando la via per approssimarvisi, la possibile traduzione in prassi, la possibile perseguibilità storico-politica. Kant raccoglie una tradizione che aveva trovato fin dalla prima modernità, con Erasmo da Rotterdam e More, pur fra enormi contraddizioni, i primi sostenitori, e che lungo il XVII e il XVIII secolo, con gli scritti di Crucé, di Descartes, di Sully, di Penn e dell’Abbé de Saint-Pierre, di Leibniz, Rousseau, Bentham e altri, aveva imposto all’attenzione la questione dell’utilità/necessità della pace fra gli stati. Questione su cui anche Kant avverte l’esigenza di intervenire dopo le rapide anticipazioni fatte nell’Idea e in Sul detto comune.12 Sceglie la forma del progetto filosofico e ne privilegia l’impostazione giuridico-politica. Sfidando l’indifferenza di molti e l’«universale derisione» con cui era stato accolto il Projet dell’abate, il «sognatore sublime», le linee portanti del progetto kantiano si muovono nel quadro del principio giuridico che indica «come dev’essere il rapporto tra gli uomini e gli stati», che raccomanda ai sovrani di comportarsi nei loro conflitti in modo da «preparare» una «repubblica universale dei popoli», e che chiede di «considerarla possibile» e «tale da poter esistere».

Emerge già qui il carattere dell’approccio kantiano, che mentre rilancia su nuove basi (l’imperativo etico del dovere) l’idea della pace, la indica come un valore storico-universale e la discute su un piano di universale praticabilità, di costruibilità storica. In quanto idea della ragione che oltrepassa i concetti dell’intelletto, la pace si configura come idea o principio regolativo, su cui calibrare l’agire morale e politico degli individui come degli stati; idea-principio capace di indirizzare l’intelletto verso uno scopo, in sé mai completamente raggiungibile o conoscibile, e tuttavia sempre proposto come compito. La pace perpetua resta perciò, in ultima analisi, il punto prospettico di una ricerca che avanza incessantemente senza mai concludersi; un orizzonte verso cui si è protesi, il cui limite è costitutivamente in avanzamento e proprio per questo è irraggiungibile, almeno nella sua compiutezza.

Il progetto si snoda lungo due direzioni argomentative che conducono verso il medesimo obiettivo: da una parte c’è uno sviluppo, storicamente sostenuto dal meccanismo naturale della «socievole insocievolezza», che spinge verso forme di abilità, cultura, socializzazione e moralizzazione sempre più avanzate. Dal contrasto attivo fra la tendenza a unirsi in società e la tendenza disgregativa e individualistica nasce – lo si è visto – ogni attività umana; nasce l’ambizione, l’emulazione, l’auto-controllo, la morale, lo stato; si regola la libertà di ciascuno, progrediscono le scienze ma anche la moralità, evolve la società da unione forzata, «patologica» dice Kant, a un «tutto morale». Dall’altra parte c’è il dovere di agire secondo norme imperative, che riporta in primo piano il ruolo dell’attività umana, motivata moralmente, nella storia.

2.1 Gli articoli preliminari

Agilità e misura connotano la struttura del progetto kantiano. Due sezioni: per gli Articoli preliminari e per gli Articoli definitivi, due Supplementi (il secondo aggiunto nella seconda edizione del 1796) e un’Appendice. Lo scritto assume la forma asciutta e sobria del progetto etico-giuridico, che deve apparire immediatamente chiaro e condivisibile.

Gli articoli preliminari provengono sostanzialmente dalla tradizione pacifista e segnalano anzitutto i limiti da porre all’attività giuridico-politica degli stati attraverso leggi praeceptivae, o di comando, e leggi prohibitivae, o di divieto, nonché leggi permissivae, delle quali Kant discute in una lunga nota la naturale peculiarità e legittimità. Gli articoli preliminari propongono un disciplinamento globalmente riferito ai rapporti internazionali con procedure di proibizione.

  1. «Nessun trattato di pace deve essere ritenuto tale se stipulato con la tacita riserva di argomenti per una guerra futura.»
  2. «Nessuno stato indipendente deve poter essere acquistato da un altro mediante eredità, scambio, compera o donazione.»
  3. «Col tempo gli eserciti permanenti devono essere aboliti.»
  4. «Non si devono contrarre debiti pubblici in vista di conflitti esterni dello stato.»
  5. «Nessuno stato si deve intromettere con la forza nella costituzione di un altro stato.»
  6. «Nessuno stato in guerra deve permettersi atti di ostilità tali da rendere impossibile la reciproca fiducia nella pace futura.»

Ad eccezione del secondo articolo, che risente di una prassi ancora in vigore al tempo di Kant, per tutti gli altri si tratta di indicazioni straordinariamente attuali. E, anche rispetto a questo articolo, Kant contrasta il vigente diritto dinastico, che faceva dello stato in senso fisico, della sua popolazione, nonché degli introiti di natura fiscale, un bene del sovrano, disponibile, alienabile, trasferibile per via ereditaria secondo la sua volontà; a favore del principio che lo stato è ben più di un territorio, è una società di uomini, di individui morali, i quali soltanto hanno titolo a decidere sul proprio destino.

Fortemente significativi e attuali appaiono gli articoli tre e cinque, relativi all’eliminazione degli eserciti permanenti e a quella che si chiamerà la non ingerenza negli affari interni di uno stato. Con essi Kant porta all’attenzione due questioni cruciali, che solo negli ultimi decenni del Novecento sono state ricondotte al livello della discussione politica. L’esistenza di eserciti permanenti è giudicata da Kant una «minaccia incessante», un incentivo a «gareggiare in qualità degli armamenti in una corsa senza fine». Né viene sottaciuto il loro possibile uso distorto a fini di oppressione interna. Sorprende in questo articolo, da una parte, la capacità di prefigurare scenari che, pur non appartenendo alle consuetudini settecentesche di conduzione delle guerre, sono stati invece ampiamente sperimentati nei due secoli successivi. Dall’altra sorprende il livello alto della proposta di eliminare gli eserciti come passo preliminare e necessario per giungere a una convivenza pacifica internazionale.

Indicazioni simili erano state presenti quasi soltanto entro la sensibilità religiosa, che coltivava principi non-violenti e che aveva prodotto la New Model Army, quell’esercito di nuovo modello, che nella Rivoluzione inglese degli anni 1640-51 si era formato su base volontaria e democratica. L’istanza nonviolenta dei gruppi religiosi era stata poi trasferita nelle Costituzioni di alcuni stati americani come la Pennsylvania e il North Carolina; mentre, a sperimentare «l’esercizio volontario e periodico dei cittadini alle armi» per consentire la difesa dello stato ci avevano pensato durante la Rivoluzione francese con il reclutamento volontario, una misura che seguiva da vicino l’enfatica esaltazione del citoyen; che sarà però presto sostituita dall’introduzione, per la prima volta, della coscrizione obbligatoria. Occorrerà invece attendere la coscienza etica più matura di fine secolo XX, forgiata dalle atrocità e dalle aberrazioni perpetrate in particolare nel Novecento, per ritornare alla proposta kantiana, per avvertire l’urgenza della fine degli eserciti permanenti, in attesa di una loro più radicale limitazione e trasformazione in una forza internazionale finalizzata al ristabilimento della pace. Anche se non sembra ancora vicino il momento in cui possa universalizzarsi e tradursi in legislazione un livello così alto di coscienza etica.

Con l’articolo cinque, relativo alla non ingerenza negli affari interni di uno stato, Kant raccoglie ancora una volta istanze emerse a conclusione della prima fase della Rivoluzione francese, poi sopraffatte dall’impeto imperialistico, camuffato dal pretesto filantropico di diffondere i principi rivoluzionari in tutta l’Europa.