Ché infatti, se uno di questi uomini e stati fosse a contatto ed esercitasse influenza fisica sugli altri, essendo tuttavia ancora nello stato di natura, ne deriverebbe quello stato di guerra da cui ci si vuole qui appunto liberare.
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La libertà giuridica (quindi esterna) non può essere definita, come si è soliti fare, con la facoltà «di fare tutto ciò che si vuole purché non si faccia ingiustizia a nessuno». Infatti, che cosa significa facoltà? La possibilità di agire in quanto non si fa danno a nessuno. Dunque la definizione significherebbe: libertà è la possibilità delle azioni con le quali non si fa torto a nessuno. «Non si fa torto a nessuno (pur potendo fare ciò che si vuole) se solo non si fa torto a nessuno.» E questa è pura tautologia. Meglio è definire la mia libertà esterna (giuridica) come la facoltà di non obbedire ad altre leggi tranne che a quelle a cui ho potuto dare il mio consenso.
Del pari l’eguaglianza esterna (giuridica) in uno stato è quel rapporto tra cittadini per il quale nessuno può costringere legalmente l’altro senza che egli contemporaneamente si sottoponga alla legge, secondo la quale egli può a sua volta essere obbligato dall’altro alla stessa maniera. (Del principio della dipendenza giuridica non occorre dare alcuna spiegazione, poiché questa è già implicita nel concetto di una costituzione politica.) La validità di questi diritti innati, necessariamente propri dell’umanità e inalienabili, si conferma ed eleva attraverso il principio di rapporti giuridici dell’uomo con esseri superiori (se ne concepisce), in quanto egli si raffigura, secondo gli stessi principi, anche come cittadino di un mondo soprasensibile. Infatti, per quanto concerne la mia libertà, non ho alcun legame verso le leggi divine, che posso conoscere solo attraverso la ragione, se non vi ho dato il mio assenso (perché mediante la legge di libertà della mia propria ragione, mi faccio anzitutto un concetto della volontà divina). Per quanto riguarda il principio della eguaglianza in rapporto con l’essere del mondo più elevato che io possa immaginare all’infuori di Dio (un grande eone6) non vi è nessuna ragione, se io faccio il mio dovere al mio posto, come quell’eone al suo, che a me spetti soltanto il dovere ubbidire e a quello il diritto di comandare. Che questo principio di eguaglianza non sia applicabile (come quello di libertà) anche ai rapporti con Dio, è dovuto al fatto che Dio è il solo essere a cui non si applichi il principio del dovere.
Ma per ciò che riguarda il diritto di eguaglianza di tutti i cittadini dello stato, come sudditi, la questione di ammettere o meno una nobiltà ereditaria si risolve solo esaminando «se il grado attribuito dallo stato (a un suddito di fronte a un altro) debba prevalere sul merito o questo su quello».
Ora è evidente che, se il grado viene legato alla nascita, è incerto se vi verrà unito anche il merito (capacità e fedeltà a una carica); con ciò è come se il grado (ad esempio quello del comando) venisse concesso senza alcun merito al favorito; cosa che la volontà generale del popolo non delibererà mai in un patto originario (che è il principio di tutti i diritti). Infatti un nobiluomo non è per ciò stesso un uomo nobile.
Per quanto riguarda la nobiltà di ufficio (come si potrebbe chiamare il grado di un’altra magistratura, che si deve acquisire per merito), questa non va annessa alla persona quale sua proprietà, ma alla carica, e l’eguaglianza non viene offesa perché, quando quella persona si dimette dalla carica, abbandona ad un tempo il grado e ritorna tra il popolo.
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Si sono spesso biasimate quali rozze adulazioni le alte denominazioni che sovente vengono attribuite ad un sovrano (Unto del Signore, Vicario della volontà divina in terra, Rappresentante di Dio ecc.), ma secondo me a torto. Lungi dal rendere orgoglioso il sovrano, dovrebbe piuttosto umiliarlo nell’animo, se ha senno (cosa che però deve presupporsi), e se riflette sul fatto che si è assunto un ufficio troppo grande per un uomo, cioè il compito più sacro che Dio abbia in terra: quello di amministrare il diritto degli uomini; e deve sempre temere di offendere in qualche modo questa pupilla di Dio.
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Mallet du Pan,8 nel suo linguaggio ispirato ma vuoto e privo di sostanza, si vanta di essere giunto dopo molti anni di esperienza alla convinzione della verità del celebre detto di Pope: «Lascia discutere i pazzi sul governo migliore; il governo meglio governato è il migliore». Se ciò significa che il governo meglio governato è governato meglio, allora egli, secondo l’espressione di Swift, ha schiacciato tra i denti una noce che lo ha compensato con un verme; ma se ciò significa che il governo meglio governato sia anche la migliore forma di governo, cioè la migliore costituzione politica, allora è essenzialmente sbagliato; perché l’esempio di buoni governi non prova nulla in favore della forma di governo.
Chi ha governato meglio di un Tito e di un Marco Aurelio? Con tutto ciò l’uno si lasciò dietro un Domiziano, l’altro un Commodo; cosa questa che non sarebbe potuta avvenire in una buona costituzione politica, poiché la loro incapacità, in tale carica, si sarebbe presto rivelata, e la potenza del corpo sovrano sarebbe stata sufficiente a escluderli.
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A guerra finita, nelle trattative di pace, sarebbe molto bene che un popolo, dopo le feste di ringraziamento, stabilisse un giorno di penitenza per invocare dal cielo, in nome dello stato, perdono per la grande colpa che il genere umano commette sempre col non volersi sottomettere ad una costituzione legale nei rapporti con gli altri popoli, mentre, orgoglioso della sua indipendenza, preferisce ricorrere al barbaro mezzo della guerra (con cui non si ottiene certo ciò che si cerca, cioè il diritto di ogni stato). Le feste di ringraziamento che si celebrano durante la guerra per una vittoria riportata, gli inni che (da buoni israeliti) s’innalzano al Signore degli eserciti, non contrastano meno con l’idea morale del Padre degli uomini, perché essi, all’indifferenza per il modo in cui i popoli cercano di far valere il loro diritto reciproco (cosa già abbastanza triste), aggiungono anche la gioia di aver distrutto la vita e la felicità di tanti uomini.
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Per scrivere il nome di questo grande impero, così come si chiama (China e non Sina o altro simile), basta consultare Georgius, Alphabetum Tibetanum, pp. 651-654, soprattutto sotto la nota b. Propriamente, secondo l’osservazione del professor Fischer di Pietroburgo, essa non ha nessun nome determinato con cui chiamare se stessa; il più comune è ancora l’appellativo Kin, cioè oro (che i tibetani chiamano Ser) da cui l’imperatore è chiamato re dell’Oro (il paese più bello del mondo), parola che nell’impero sembra avere il suono Chin, ma dai missionari italiani potrebbe essere stata pronunziata Kin (per via della gutturale). Da qui si vede che quello che i romani chiamavano il paese dei Seri era la Cina, ma che la seta era fatta arrivare in Europa dal Grande Tibet (presumibilmente attraverso il Piccolo Tibet e la Bucaria, e più oltre attraverso la Persia). Il che ci porta a molte considerazioni sull’antichità di questo straordinario stato in confronto a quella dell’Hindostan, nel collegamento con il Tibet e attraverso questo con il Giappone; mentre invece il nome Sina o Cina, che i vicini vogliono dare a questo paese non porta da nessuna parte. Forse l’antichissima, ma mai ben conosciuta, relazione dell’Europa con il Tibet, può essere spiegata con quanto ci ha tramandato Esichio, e cioè il grido Konx Ompax dello ierofante nei misteri eleusini (cfr. Il viaggio del giovane Anacarsis, parte V, pp. 447 sgg.). Infatti, secondo l’Alphabetum Tibetanum di Georgius, la parola Concioa, che ha una evidente somiglianza con Konx, significa Dio, Phaciò (ivi, p. 520), che dai greci poteva agevolmente essere pronunziato pax, significa promulgator legis, la divinità diffusa in tutta la natura (chiamata anche Cenresi, p. 177). Om, che La Croze traduce con benedictus, applicato alla divinità non può significare altro che beato (p. 507). Ora, quanto a padre F. Horatius, il quale spesso chiedeva ai Lama cosa intendessero con la parola Dio (Concioa), ogni volta veniva data la seguente risposta: «È la riunione di tutti i Santi» (vale a dire delle anime beate che, secondo la reincarnazione sostenuta dai Lama, dopo molte migrazioni in ogni genere di corpi sono, infine, ritornate alla divinità trasformate in Burchana, ovvero in esseri degni di adorazione, anime trasformate, p. 223). Così la misteriosa parola Konx Ompax deve significare il santo (Konx), beato (Om) e saggio (Pax) essere supremo diffuso ovunque nel mondo (la natura personificata) e, usato nei misteri greci, deve aver assunto il significato di monoteismo per gli iniziati, in opposizione al politeismo del popolo; sebbene il padre Horatius (vedi sopra) sospettasse sotto di esso l’ateismo. Come però quella misteriosa parola sia giunta ai Greci attraverso il Tibet, si può spiegare nel modo detto sopra, e ciò rende a sua volta verosimili i primi scambi dell’Europa con la Cina attraverso il Tibet (forse prima ancora che con l’Hindostan).
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Nel meccanismo della natura, al quale l’uomo (come essere sensibile) appartiene, si rivela già una forma che sta a fondamento della sua esistenza, forma che possiamo comprendere solo supponendola quale scopo di un Creatore del mondo, che la determini in precedenza.
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