La democrazia, che dà vita a una società eminentemente contrattuale, presuppone ed esige il rispetto della massima pacta sunt servanda» (Elogio della mitezza e altri scritti, Milano, 1994, p.119). Diventa, inoltre, sempre più chiaro che la stessa formazione della legge non può non risultare – come dice U. Cerroni – da «un complesso sforzo di razionalizzazione degli interessi di tutti». Razionalizzazione che non vuol dire né, con Rousseau, pura e semplice convergenza di intenzioni virtuose, né, con Bentham, aritmetica degli interessi, bensì «ricognizione scientifico-pubblica dei grandi interessi che inquadrano e tendenzialmente unificano gli interessi particolari». Si integra così lo «stato di diritto con lo stato sociale, cioè la certezza della legge con la sicurezza della vita sociale» (cfr. Regole e valori della democrazia, Roma, 1989, p. 59).
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Nella proposizione XIV del suo A Plan for a universal and perpetual peace (1786-89; tr. it. in Filosofi per la pace, a cura di D. Archibugi e F. Voltaggio, Editori Riuniti, Roma, 1991) invoca l’eliminazione della segretezza nell’operato del ministero degli Esteri dell’Inghilterra in ragione del suo contrastare con la libertà e con la pace. In seguito, analizzando i problemi della pubblicità delle decisioni politiche connessi con l’intero ambito della sfera pubblica, sottolinea come solo la costante conoscenza dell’intero iter di formazione della decisione politica poteva produrre una informazione puntuale e una scelta ponderata dell’elettorato, nonché il costume del ragionamento e della discussione presso tutte le classi sociali (cfr. An essay on political tactics (1816), in Works, ed. Bowring, II, Edimburgh, 1843, pp. 229 sgg.).
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Cfr. Storia e critica dell’opinione pubblica, tr. it., Laterza, Bari, 1971, pp. 127-142.
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Dopo molti anni, in cui l’accostamento fra la categoria di «utopia» e un pensiero politico come quello kantiano sembrava più che sconveniente, incongruo, oggi, alla luce di un laborioso ripensamento teorico che ha separato l’illusione, il velleitarismo del «sogno», il puro fantasticare dell’immaginazione dalla progettazione critica della società e dei suoi modelli politici secondo le aspirazioni universalmente umane al bene e al giusto, questo accostamento non produce più alcun sussulto. E anche J. Rawls, nel suo ultimo lavoro (Il diritto dei popoli , tr. it., ed. Comunità, Torino, 2001) parla del progetto politico kantiano della lega dei popoli e dell’ideale del foedus pacificum come di una «utopia realistica».
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Un regno ereditario non è uno stato che può venir trasmesso in eredità a un altro stato; è il diritto di governarlo che può venir trasmesso ad altra persona fisica. Lo stato acquista allora un reggente; non è il reggente come tale (egli possiede infatti già un altro regno) che acquista lo stato.
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Così rispose un principe bulgaro all’imperatore greco che voleva por fine al conflitto con lui non con lo spargimento del sangue dei sudditi ma con un duello tra loro due: «Un fabbro che ha le tenaglie non usa le mani per togliere il ferro rovente dal fuoco».
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Fino a oggi è stato non senza motivo messo in dubbio se oltre al comando (leges praeceptivae) e al divieto (leges prohibitivae), possano esistere anche leggi permissive (leges permissivae) di pura ragione. Una legge, infatti, contiene generalmente un principio di necessità pratica e oggettiva, mentre un permesso contiene un principio di casualità pratica per certe azioni; con ciò una legge permissiva conterrebbe una costrizione ad una azione, a cui nessuno può venire costretto, la qual cosa sarebbe una contraddizione se l’oggetto della legge avesse lo stesso significato in entrambi i rapporti.
Ora, nelle leggi permissive, il supposto divieto si riferisce soltanto al modo futuro di acquistare un diritto (per esempio, per eredità) mentre la liberazione da questo divieto, cioè la permissione, si riferisce al possesso attuale che, nel passaggio dallo stato di natura al civile, può continuare ancora, secondo una legge permissiva di diritto naturale, quale un possesso illegale ma in buona fede, quantunque un possesso putativo, non appena riconosciuto come tale, sia proibito nello stato di natura, così come un analogo modo di acquisizione è proibito nel successivo stato di civiltà. Infatti, una tale facoltà di possesso continuato non avrebbe luogo se quella supposta acquisizione fosse avvenuta nello stato civile, poiché avrebbe dovuto cessare, quale lesione, subito dopo scoperta la sua illegittimità.
Ho voluto qui far notare solo incidentalmente agli insegnanti di diritto naturale il concetto di una lex permissiva (concetto che si presenta da sé ad una ragione che distingua sistematicamente), specialmente perché ne viene fatto spesso uso nelle leggi civili (statutarie), con la sola differenza che la legge proibitiva sta da sé e per sé, mentre la permissione non vi è introdotta (come dovrebbe) quale condizione limitativa, ma viene posta tra le eccezioni. Infatti si dice: questo o quello viene proibito, ad eccezione dei numeri 1, 2, 3 e così via all’infinito, di modo che le permissioni formano legge solo incidentalmente, non secondo un principio, ma brancolando fra i casi che si presentano; poiché altrimenti le condizioni avrebbero dovuto essere inserite nelle formule della legge proibitiva, con la qual cosa questa sarebbe divenuta al tempo stesso permissiva.
È perciò da rimpiangere il fatto che si sia abbandonato l’assennato, ma rimasto insoluto, concorso a premio dell’altrettanto saggio quanto perspicace conte di Windischgrätz5 che insisteva proprio su questo ultimo punto. Poiché la possibilità di una tale formula (similmente a quelle matematiche), è l’unica vera pietra di paragone di una legislazione conseguente e durevole, senza di che il cosiddetto ius certum resterà sempre un pio desiderio; si avranno solamente leggi generali (che hanno valore in generale) ma nessuna legge universale (che abbia universalmente valore), come mi sembra richiesto dal concetto di legge.
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Generalmente si ammette che non ci si debba comportare in maniera ostile contro alcuno, a meno che questi prima non mi abbia effettivamente leso, e ciò è molto giusto se entrambi viviamo in condizioni legali e civili, poiché per il fatto stesso di essere entrate in vigore, queste condizioni forniscono la sicurezza necessaria (per mezzo dell’autorità sovrana che ha potere su entrambi). Ma l’uomo (o il popolo) in un puro stato di natura mi toglie questa sicurezza e mi offende già con il solo vivere in questo stato, e in mia vicinanza, anche se non di fatto, già con l’assenza di leggi della sua condizione (statu iniusto), per cui io vengo continuamente minacciato da lui, e posso perciò costringerlo o a mettersi con me in una società legale o ad allontanarsi da me. Il postulato, dunque, che sta alla base di tutti i seguenti articoli, è questo: tutti gli uomini che possono reciprocamente agire gli uni sugli altri, devono far parte di una qualche costituzione civile.
Ma ogni costituzione giuridica, per quanto concerne le persone che vi sottostanno, è: 1) conforme al diritto pubblico statuale degli uomini che formano un popolo (ius civitatis); 2) conforme al diritto internazionale degli stati in rapporto tra loro (ius gentium); 3) conforme al diritto cosmopolitico in quanto uomini e stati, che stanno in relazione esterna tra loro, vanno considerati quali cittadini di uno stato universale (ius cosmopoliticum). Questa suddivisione non è arbitraria, ma necessaria in rapporto all’idea della pace perpetua.
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