Poesie (Italian Edition)
www.romanzieri.com
febbraio 2003
ARTHUR RIMBAUD
POESIE
Traduzione dall’originale in francese Poésies
di Marco Vignolo Gargini
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In libreria da marzo 2003

Massimo Boccuzzi
Veleno per Michelangelo
www.edizionidif.it/boccuzzi-miche.htm
INTRODUZIONE A CURA DEL TRADUTTORE
Questi sono i primi vagiti di un poeta che ha rivoluzionato il modo di concepire e realizzare la poesia. Arthur Rimbaud scrive a partire dalla fine del 1869, a quindici anni d’età, fino al settembre del 1871, quarantaquattro composizioni che lo porranno in costante progressione a contatto con le vette dell’espressività lirica. È l’opera in fieri di un talento unico, ineguagliabile, che non manca ovviamente di imperfezioni, di parossismi ingenui, di esperimenti grossolani e volgari, di un anticlericalismo brutale e, talvolta, dai toni sfrontatamente blasfemi.
Solitamente si parte facendo riferimento alla cosiddetta “raccolta Demeny”: il poeta Paul Demeny, amico di Paul Izambard (1848-1916), professore di lettere e mentore di Rimbaud al Liceo di Charleville, ricevette per primo una copia manoscritta autografa di ventidue poesie del giovanissimo studente, in cui non era inclusa Les étrennes des orphelins. Questa raccolta è considerata la base per successive integrazioni, tra cui quella personale della “raccolta Izambard”. È con l’edizione critica di Bouillane de Lacoste (Paris, Mercure de France, 1939) che la “raccolta Demeny” e gli altri manoscritti e copie vengono a riunirsi definitivamente con il titolo di Poésies, tenendo conto di tutte le varianti e dell’ordine cronologico presunto delle quarantaquattro composizioni in questione. Le uniche poesie date alle stampe durante la brevissima attività poetica del poeta di Charleville furono: Les étrennes des orphelins (gennaio 1870), Première soirée (agosto 1870) e, nel settembre 1872, Les corbéaux [poesia pubblicata, a quanto pare, da Paul Verlaine (1844-1896) all’insaputa di Rimbaud].
Poésies rappresentano un’estrema volontà di imporsi, di ribellarsi, di evadere, di imitare e superare gli autori romantici e parnassiani, da parte di un ragazzo insofferente verso tutto ciò che lo limita all’interno, e non solo, dell’angusto ambiente in cui vive, la profonda provincia francese di Charleville. Le fughe a Parigi di Rimbaud, e la sua visione diretta degli avvenimenti della guerra franco-prussiana prima, e della Commune poi, sono il materiale diaristico di queste Poésies, dove i temi dell’intimità personale (ricordi, sensazioni, proiezioni future), della politica (avversione nei confronti dei contesti tradizionali quali la famiglia, la religione, lo stato, la società), si sovrappongono magmaticamente, senza una coerenza deliberata, programmatica. Però quanta energia, quanta pura espansività, quanta intraprendenza riesce a manifestare il temperamento irrefrenabile e creativo di Rimbaud! Logico non attendersi una serie di componimenti confezionati ad uso e consumo di chi pretenda una omogeneità, che nel caso di Poésies sarebbe a posteriori fuori luogo nonché impossibile da esigere. In fondo si tratta di un assemblaggio di disiecta membra, di esercizi di stile, di prove generali per progetti successivi, di “biglietti da visita” del futuro poeta enfant de colère, descritto da Paul Verlaine in una sua poesia di Sagesse (la IV del primo libro della raccolta).
Per testimoniare il clima in cui vengono a maturare queste Poésies non trovo di meglio che consigliare la lettura della ben nota Lettre du voyant, epistola che il ragazzo di Charleville spedisce al poeta Paul Demeny il 15 maggio 1871, “il manifesto più sistematico che ci abbia lasciato Rimbaud” .
Ma v’è un’altra lettera, a mio parere un documento di primaria importanza, che Rimbaud spedisce il 24 maggio 1870 al poeta Théodore de Banville (1823-1891), rappresentante eminente della scuola cosiddetta parnassiana, nella quale il poeta diciassettenne manifesta entusiasmo, speranza, e soprattutto ambizione nei riguardi della propria produzione poetica. All’interno di questa lettera Rimbaud acclude tre liriche, Credo in unam (che poi prenderà il titolo definitivo Soleil et chair), Sensation, e Ophélie, con l’intento dichiarato di poter far parte della raccolta del Le Parnasse contemporain (raccolta di vari poeti neoromantici che venne data alle stampe nel 1866, nel 1871 e nel 1876). Questo sia detto per sfatare la leggenda del ragazzo senza aspirazioni letterarie, strafottente e indifferente alla propria fama, leggenda che non avrebbe quindi senso alcuno, perlomeno in questo periodo precipuo della vita di Arthur Rimbaud. Insomma, nel 1870 il poeta di Charleville ci teneva, eccome, a farsi conoscere e pubblicare, e non lo nascondeva affatto! D’altronde, basta leggere il documento:
“A Théodore de Banville
Charleville (Ardenne), 24 maggio 1870.
Al Signor Théodore de Banville
Caro Maestro,
Siamo nei mesi dell'amore; io ho diciassette anni, L'età delle speranze e delle chimere, come si suol dire. - ed ecco che mi sono messo, fanciullo toccato dal dito della Musa, - perdoni la banalità, - a dire ciò che io credo buono, le mie speranze, le mie sensazioni, tutte le cose dei poeti, - è questo che io chiamo primavera.
Il fatto che io Le invii qualcuno dei miei versi, - e ciò tra l’altro tramite il buon editore Alph. Lemerre, - è perché io amo tutti i poeti, tutti i buoni Parnassiani, - poiché il poeta è un Parnassiano, - presi della bellezza ideale; è perché amo in Lei, molto ingenuamente, un discendente di Ronsard, un fratello dei nostri maestri del 1830, un vero romantico, un vero poeta. Ecco il perché. - È sciocco, nevvero?, ma insomma?…
Fra due anni, fra un anno forse, io sarò a Parigi! - Anch'io, signori del giornale, sarò Parnassiano! - Non so che cosa ho dentro... che vuole salire... - Io giuro, caro maestro, di adorare sempre le due dèe, la Musa e la Libertà.
Non storca troppo il naso leggendo questi versi... Mi farebbe impazzire di gioia e di speranza, se Lei volesse, caro Maestro, concedere al pezzo Credo in unam un piccolo posto fra i Parnassiani... Uscirei nell'ultima serie del Parnasse: sarebbe il Credo dei poeti!... - Ambizione! O Folle!
ARTHUR RIMBAUD
Par les beaux soirs d'été, j'irai dans les sentiers;
20 aprile 1870
A. R.
Ophélie
I
Sur l'onde calme et noire où dorment les étoiles
15 maggio 1870
ARTHUR RIMBAUD.
Credo in unam
Le Soleil, le foyer de tendresse et de vie,
29 aprile 1870
ARTHUR RIMBAUD.
Se questi versi trovassero posto nel Parnasse contemporain! - Non sono forse la fede dei poeti?
- Non sono noto; che importa? i poeti sono fratelli. Questi versi credono; amano; sperano; è tutto.
- Caro maestro, a me; mi sollevi un po’: io sono giovane: mi tenda una mano...”
Arthur Rimbaud (Charleville 1854 - Marsiglia 1891) ha concentrato la sua produzione letteraria in soli tre anni, dal 1870 al 1873. Oltre a Poésies, è autore di Une saison en enfer (1873), Les illuminations (1873-75), opera parte in prosa e parte in versi, e altre composizioni. La prima raccolta degli scritti di Rimbaud fu pubblicata nel 1898, a sette anni dalla morte del poeta, col titolo Œuvres, e comprendeva alcune prime poesie, un appendice di versi giovanili ripudiati da Rimbaud, Une saison en enfer e Les illuminations; in seguito vennero aggiunte le Lettres e le Bribes (pochi abbozzi). Le Œuvres Complètes, l’intera produzione letteraria di Rimbaud con testo stabilito e annotato da Jules Mouquet e André Rolland de Renéville, furono edite a Parigi nel 1946 nella collezione «Bibliothèque de la Pléiade», Gallimard.
LE STRENNE DEGLI ORFANI
(Les étrennes des orphelins)
I
La camera è piena d’ombra; si sente vagamente
il triste e dolce bisbiglio di due bambini.
Sporgono la loro fronte, pesante ancora dal sogno,
sotto la tenda lunga e bianca che trema e si solleva…
- Fuori gli uccelli infreddoliti si stringono:
l’ali loro s’intirizziscono sotto il cielo grigio;
e il nuovo Anno, con la scia brumosa,
strascicando le pieghe della sua veste nevosa,
sorride con pianti, e canta battendo i denti…
II
Ora i fanciulli, sotto la tenda che ondeggia,
parlano sotto voce come si fa in una notte buia.
Ascoltano, pensierosi, un mormorio lontano…
Spesso sobbalzano alla chiara voce aurea
del timbro mattinale, che batte e batte ancora
il suo ritmo metallico nel suo globo di vetro…
- E la camera è gelata… vedi languire per terra,
sparsi intorno ai letti, dei vestiti luttuosi:
L’aspro vento invernale che piange sulla soglia
soffia il suo mesto alito per la casa!
Senti, dappertutto, che manca qualche cosa…
- Non c’è dunque una madre per questi piccoli fanciulli,
una madre con sorrisi aperti, con sguardi trionfanti?
Dunque ha dimenticato, la sera, sola e ricurva,
di far rivivere una fiamma strappata alla cenere,
di allungare su di loro la lana ed il piumino
prima di lasciarli esclamando: scusate.
Non ha previsto per nulla il freddo del mattino,
non ha chiuso bene l’uscio al vento invernale?…
- Il sogno materno, è il tiepido tappeto,
è il nido di cotone dove i fanciulli rannicchiati,
come degli uccellini che dondolano i rami,
dormono il loro dolce sonno di candide visioni!…
- E lì - è come un nido senza piume e calore,
dove i piccoli han freddo, non dormono, han paura;
un nido che l’amaro vento deve aver ghiacciato…
III
Il vostro cuore l’ha compreso: - questi bimbi son senza madre.
Non c’è una madre in casa! - e il padre è assai lontano!…
- Una vecchia fantesca, allora, ne ha preso cura.
I piccoli sono tutti soli nella casa gelata;
orfani di quattro anni, ecco che nel loro pensiero
si risveglia, a poco a poco, un ricordo ridente…
Sembra un rosario che pregando si sgrana:
- Ah! che bel mattino quel mattino delle strenne!
Ognuno, la notte, aveva sognato le sue strenne
in un sogno strano dove i giocattoli appaiono,
caramelle in carta d’oro, gioielli lucenti,
turbinare e danzare una danza sonora,
poi fuggire sotto le tende, poi far capolino ancora!
Si svegliavano al mattino, si alzavano con gioia,
le labbra eccitate, stropicciandosi gli occhi…
Andavano, coi capelli spettinati sulla testa,
gli occhi raggianti, come nei gran giorni di festa,
e i piedini nudi che sfiorano il pavimento,
a bussare piano piano alla porta dei genitori…
Entrate!… E allora gli auguri… in camicia da notte,
i baci ripetuti e l’allegria permessa!
IV
Ah! che bellezza, quelle parole dette così tanto!
- Ma com’è cambiata la casa di un tempo:
un gran fuoco scoppiettava, chiaro, nel camino,
tutta la vecchia camera era illuminata;
e i riflessi vermigli, sprizzati dal gran focolare,
godevano a turbinare sui mobili verniciati …
- L’armadio è senza chiavi!… senza chiavi, l’armadio grande!
Fissavano spesso la sua bruna e nera anta …
Senza chiavi!… era strano!… sognavano più volte
i misteri assopiti nei suoi fianchi di legno,
e credevano di udire, nel fondo della serratura
aperta, un rumore lontano, vago e allegro mormorio…
La camera dei genitori è così vuota, oggi:
non c’è più il riflesso vermiglio sotto la porta;
non ci sono più i genitori, il focolare, le chiavi tolte:
e allora niente più baci, niente più dolci sorprese!
Oh! quanto sarà triste il Capodanno per loro!
- E, pensosi, mentre dai loro occhioni azzurri,
scende in silenzio una lacrima amara,
bisbigliano: “Ma quando tornerà la nostra mamma?”
V
Adesso, i piccoli sonnecchiano tristemente:
diresti, a vederli, che piangono dormendo,
tanto i loro occhi sono gonfi e il loro respiro penoso!
Tutti i bimbi piccoli hanno il cuore così sensibile!
- Ma l’angelo delle culle viene ad asciugare i loro occhi,
e in questo sonno opprimente mette un sogno gioioso,
un sogno così gioioso che le loro labbra socchiuse,
sorridenti, sembrano mormorare qualcosa…
Sognano che, chini sul loro braccino tondo,
dolce gesto del risveglio, alzano la fronte,
e il loro sguardo vago tutt’attorno si posa…
Si credono assopiti in un paradiso rosa…
Nel camino sfavillante canta lieto il fuoco…
Dalla finestra si vede laggiù un bel cielo azzurro;
La natura si sveglia e di raggi s’inebria…
La terra, discinta, felice di rivivere,
rabbrividisce di gioia sotto i baci del sole…
E nella vecchia casa tutto è tiepido e vermiglio:
i vestiti luttuosi non ricoprono più il pavimento,
il vento ghiaccio sotto il sole s’è fermato…
Sembra che una fata sia passata lì dentro!…
I bambini, tutti gioiosi, hanno urlato… Là
vicino al letto della mamma, sotto un bel raggio rosa,
là, sul gran tappeto, risplende qualcosa…
Sono dei medaglioni d’argento, neri e bianchi,
della madreperla e del gavazzo dai riflessi scintillanti;
delle piccole cornici nere, delle corone di vetro,
che hanno tre parole incise in oro: “A NOSTRA MADRE!”
. . .
SENSAZIONE
(Sensation)
Nelle estive sere blu, tra i sentieri io andrò,
pizzicato dal grano, a pestar l’erba minuta:
sognatore, sentirò il suo fresco ai miei piedi,
e lascerò che il vento bagni la mia testa nuda.
Io non parlerò, io non penserò a niente:
ma dentro me crescerà l’infinito amore,
e andrò lontano, molto lontano, vagabondo,
nella Natura, - fiorente come con una donna.
Marzo 1870
SOLE E CARNE
(Soleil et chair)
Il Sole, focolare di tenerezza e di vita,
versa l’amore ardente sulla terra rapita,
e, quando mi sdraio sulla valle, sento
che la terra è nubile e straripa di sangue;
che il suo immenso seno, sollevato da un’anima,
è dell’amore come Dio, della carne come la donna,
e che rinserra, gravido di linfa e di raggi,
il grande formicolio di tutti gli embrioni!
E tutto cresce, e tutto sale!
- O Venere, o Dea!
Io rimpiango il tempo dell’antica giovinezza,
dei satiri lascivi, dei fauni animali,
dèi che mordevano d’amore la scorza dei rami
e tra le ninfee baciavano la Ninfa bionda!
Io rimpiango il tempo in cui la linfa del mondo,
l’acqua del fiume, il sangue rosa degli alberi verdi
nelle vene di Pan mettevano un universo!
Dove il suolo palpitava, verde, sotto i suoi piedi caprini;
dove, baciando mollemente la chiara siringa, le sue labbra
modulavano sotto il cielo il grande inno dell’amore;
dove, ritto sulla pianura, sentiva intorno
rispondere al suo appello la Natura vivente;
dove gli alberi muti, cullando l’uccello che canta,
la terra cullando l’uomo, e tutto l’Oceano blu
e tutti gli animali amavano, amavano in Dio!
Io rimpiango il tempo della grande Cibele
che dicevano percorresse, gigantescamente bella,
su di un gran cocchio bronzeo, le splendide città;
i suoi seni versavano nelle immensità
il puro grondare della vita infinita.
L’Uomo succhiava, felice, la sua mammella benedetta,
come un bambino piccolo, giocando sulle sue ginocchia.
- Perché egli era forte, l’Uomo era casto e dolce.
Miseria! Ora lui dice: io so le cose,
e va, gli occhi sbarrati e le orecchie tappate.
- E allora, niente più dèi! niente più dèi! L’Uomo è Re,
l’Uomo è Dio! Ma l’Amore, ecco la gran Fede!
Oh! se l’uomo s’allattasse ancora alla tua mammella,
gran madre degli dèi e degli uomini, Cibele;
se non avesse lasciato l’immortale Astarte
che un tempo, emergendo nell’immenso chiarore
dei flutti blu, fiore di carne che l’onda profuma,
mostrò il suo ombelico rosa dove vide nevicare la schiuma,
e fece cantare, Dea dai grandi occhi neri trionfanti,
l’usignolo nei boschi e l’amore nei cuori!
II
Io credo in te! Io credo in te! Divina madre,
Afrodite marina! - Oh! la strada è funesta
Dopo che l’altro Dio ci attacca alla sua croce;
Carne, Marmo, Fiore, Venere, è in te che io credo!
- Sì, l’Uomo è triste e laido, triste sotto il cielo vasto,
porta i vestiti, perché non è più casto,
perché ha bruttato il suo busto fiero di dio,
e ha intristito, come un idolo nel fuoco,
il suo corpo olimpico in sporche servitù!
Sì, anche dopo la morte, nei pallidi scheletri
Lui vuol vivere, insultando la bellezza di prima!
E l’Idolo in cui mettesti tanta verginità,
dove divinizzasti la nostra argilla, la Donna,
perché l’Uomo potesse illuminare la sua povera anima
e salire lentamente, in un immenso amore,
dalla prigione terrestre alla bellezza del giorno,
la Donna non sa più essere nemmeno cortigiana!
- È una bella farsa! E il mondo sghignazza
al nome dolce e sacro della grande Venere!
III
Se tornassero i tempi, i tempi del passato!
Giacché l’Uomo è finito! L’Uomo ha svolto tutti i suoi ruoli!
In un gran giorno, stanco d’infrangere idoli
lui risusciterà, affrancato da tutti i suoi Dèi,
e, come lui appartiene al cielo, scruterà i cieli!
L’Ideale, il pensiero invincibile, eterno,
tutto; il dio che vive, sotto la sua argilla carnale,
salirà, salirà, brucerà sotto la sua fronte!
E quando lo vedrai sondare tutto l’orizzonte,
spregiatore di vecchi giochi, libero da ogni terrore,
tu verrai a donargli la santa Redenzione!
- Splendida, radiosa, nel grembo dei gran mari
tu sorgerai, spargendo sul vasto Universo
l’Amore infinito in un infinito sorriso!
Il Mondo vibrerà come un’immensa lira
nel brivido d’un immenso bacio!
Il Mondo ha sete d’amore: tu verrai a placarlo.
. . .
[oh! l’Uomo ha rialzato la sua testa libera e fiera!
E il raggio improvviso della prima bellezza
fa palpitare il dio nell’altare della carne!
Felice del bene presente, smunto del male sofferto,
l’Uomo vuole tutto sondare, - e sapere! Il Pensiero,
la giumenta a lungo, a lungo oppressa
si slancia dalla sua fronte! E saprà il Perché!…
Che balzi libera, e l’Uomo avrà la Fede!
- Perché l’azzurro muto e lo spazio insondabile?
Perché gli astri d’oro in brulichio come una sabbia?
Se si salisse sempre, che si vedrebbe lassù?
Un Pastore capeggia questo immenso gregge
di mondi in cammino nell’orrore dello spazio?
E tutti quei mondi, che l’etere vasto abbraccia,
vibrano agli accenti d’una voce eterna?
- E l’Uomo, può vedere? può dire: Io credo?
La voce del pensiero e più che un sogno?
Se l’uomo nasce così presto, se la vita è così breve,
da dove proviene? Affonda nell’Oceano profondo
dei Germi, dei Feti, degli Embrioni, in fondo
all’immenso Crogiuolo da cui la Madre Natura
lo risusciterà, vivente creatura,
per amare nella rosa e crescere nel grano?…
Noi non possiamo sapere! Noi siamo vinti
da un manto d’ignoranza e di grette chimere!
Scimmie d’uomini cadute dalla vulva materna,
la nostra pallida ragione ci occulta l’infinito!
Noi vogliamo guardare: - il Dubbio ci punisce!
Il dubbio, mesto uccello, ci colpisce con l’ala…
- E l’orizzonte fugge in una fuga eterna!…
. . .
Il gran cielo è aperto! i misteri sono morti
di fronte all’Uomo, in piedi, che incrocia le sue braccia forti
nell’immenso splendore della ricca natura!
Canta… e il bosco canta, e il fiume mormora
Un canto pieno di felicità che sale verso il giorno!…
- È la Redenzione! è l’amore! è l’amore!…]
. . .
IV
O splendore della carne! o splendore ideale!
o amore rinnovato, aurora trionfale
dove, piegando ai loro piedi gli Dèi e gli Eroi,
Callipigia la bianca e il piccolo Eros
sfioreranno, ricoperti di neve di rose,
le donne e i fiori in sboccio sotto i loro bei piedi!
- O grande Arianna, che versi le tue lacrime
sulla riva, vedendo fuggire laggiù sulle onde,
bianca nel sole, la vela di Teseo,
o dolce vergine bambina che una notte hai rotto,
taci tu! Sul suo carro d’oro adornato di neri grappoli,
Lisio, portato nei campi Frigi
Dalle tigri lascive e dalle fulve pantere,
lungo i fiumi azzurri arrossa il cupo muschio.
- Zeus, Toro, culla sul suo collo come un fanciullo
il corpo nudo d’Europa, che getta il suo bianco braccio
al collo nervoso del Dio che rabbrividisce nell’onda.
Lui volge lentamente verso lei il suo occhio vago;
lei, lascia la sua pallida guancia in fiore
sulla fronte di Zeus; i suoi occhi sono chiusi; lei muore
in un bacio divino, e il flutto che mormora
dalla sua schiuma d’oro fa fiorire la sua chioma.
- Tra l’oleandro e il loto ciarliero
scivola amorosamente il gran Cigno sognatore
abbracciando Leda nel candore della sua ala;
- e mentre Cipride passa, stranamente bella,
e inarcando le splendide rotondità delle sue reni,
sfoggia fieramente l’oro dei suoi larghi seni
e il suo ventre nevoso sfrangiato di muschio nero,
- Eracle, il Domatore, che, come d’una gloria
forte, cinge il suo gran corpo di pelle di leone,
avanza, fronte terribile e dolce, all’orizzonte!
Con la luna d’estate vagamente illuminata,
in piedi, nuda, e trasognata nel suo dorato pallore
che chiazza il peso fiotto dei suoi lunghi capelli blu,
nella radura oscura dove il muschio si rischiara,
la Driade mira il cielo silenzioso…
- La bianca Selene lascia penzolare il suo velo,
timorosa, sui piedi del bell’Endimione ,
e gli lancia un bacio in un pallido raggio…
- Lontano geme la Sorgente in un’estasi lunga…
È la Ninfa che sogna, un gomito sul suo vaso,
al bel giovane bianco che la sua onda ha stretto.
- Una brezza d’amore nella notte è passata,
e, nei boschi sacri, nell’orrore dei grandi alberi,
maestosamente eretti, i Marmi scuri,
gli Dèi, sulla cui fronte il Ciuffolotto fa il suo nido,
Gli Dèi ascoltano l’Uomo e il Mondo infinito!
29 aprile 1870
OFELIA
(Ophélie)
I
Sull’onda calma e nera dove dormono le stelle
la bianca Ofelia come un gran giglio fluttua,
fluttua molto lentamente, distesa nei suoi lunghi veli …
- Nei boschi lontani s’odono degli hallalì .
Sono mille anni e più che la triste Ofelia
scorre, bianco spettro, sul lungo fiume nero.
Sono mille anni e più che la follia sua dolce
mormora una romanza nella brezza della sera.
Il vento bacia i suoi seni e allarga in corolla
i suoi grandi veli mollemente ninnati dalle acque;
i salici in un brivido piangono sulla sua spalla,
si piegano le canne sul sogno della sua fronte ampia.
Le ninfee sgualcite attorno a lei sospirano;
lei talvolta desta, in un ontano che dorme,
un nido da cui spicca un piccolo fremito d’ali:
- un misterioso canto discende dagli astri d’oro.
II
O pallida Ofelia! bella come la neve!
sì, moristi fanciulla, da un fiume travolta!
è che i venti delle alte cime di Norvegia
t’avevano sussurrato dell’aspra libertà;
è che un soffio, torcendo la tua ampia chioma,
al tuo spirito sognante recava strani scrosci;
è che il tuo cuore ascoltava il canto della Natura
nel pianto degli alberi, nei sospiri delle notti;
è che la voce dei folli mari, in un rantolo immenso,
infrangeva il tuo seno virgineo, troppo umano e troppo dolce;
è che un mattino d’aprile, un bel cavaliere pallido,
un povero pazzo, si sedette muto alle tue ginocchia.
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