- Oh! qual nome sulle sue labbra mute
trasale? Qual rimpianto implacabile lo rimorde?
Non si saprà mai. L’Imperatore ha l’occhio spento.
Ripensa forse al Compare occhialuto…
E guarda il fil di fumo del suo sigaro acceso,
come nelle sere di Saint-Cloud , un’azzurra nube fine.
SOGNO INVERNALE
A *** Lei.
(Rêvé pour l’hiver - A *** Elle.)
L’inverno, noi andremo in un piccolo vagone rosa
Con dei cuscini blu.
Noi staremo bene. Un nido di folli baci riposa
in ogni morbido cantuccio.
Tu chiuderai gli occhi, per non vedere, dal finestrino,
le smorfie delle ombre serali,
queste mostruosità ringhiose, plebaglia
di demoni e lupi neri.
Poi tu ti sentirai la guancia punzecchiata…
Un bacetto, come un ragno impazzito,
ti correrà per il collo…
E tu abbassando la testa mi dirai: “Cerca!”,
- E noi prenderemo tempo a cercare questa bestia
- Che viaggia assai…
In treno, 7 ottobre ’70.
DORMIGLIONE DELLA VALLE
(Le dormeur du val)
È un verde recesso dove canta un fiume
che pazzo appende sull’erba degli stracci
d’argento; dove il sole, della montagna fiera,
riluce: è una piccola valle che spuma di raggi.
Un giovane soldato, la bocca aperta, il capo nudo,
e la nuca bagnata dal fresco crescione blu,
dorme; è disteso nell’erba, sotto la nube,
pallido nel suo verde letto dove piove la luce.
I piedi tra i gladioli, dorme. Sorridente come
sorriderebbe un bambino malato, fa un sonno:
natura, ninnalo tu con calore: ha freddo.
I profumi non fanno fremere le sue narici;
dorme nel sole, la mano sul suo petto
tranquillo. Ha due fori rossi sul fianco destro.
Ottobre 1870
AL CABARET-VERT,
alle cinque di sera
(Au cabaret-vert,
cinq heures du soir)
Dopo otto giorni, avevo sfondato i miei stivaletti
sui ciottoli delle strade. Entravo in Charleroi.
- Al Cabaret-Vert: chiedevo delle tartine
col burro e del prosciutto freddo a metà.
Beato, stendevo le gambe sotto il tavolo
verde: contemplavo i motivi molto naïf
della tappezzeria. - E fu adorabile,
quando la serva dalle enormi tette, dagli occhi vispi,
- Quella là, non la spaventa di certo un bacio! -
sorridente, mi portò le tartine col burro,
del prosciutto tiepido, in un piatto colorato,
del prosciutto rosa e bianco aromatizzato
all’aglio, e mi riempì un boccale immenso, con la sua schiuma
che indorava un ritardatario raggio di sole.
Ottobre ’70.
LA MALIZIOSA
(La maline)
Nella sala da pranzo bruna, che profumava
di vernice e di frutta, stavo d’incanto,
prendevo un piatto a me sconosciuto
belga, e mi spaparanzavo nella mia immensa sedia.
Mangiando, ascoltavo la pendola, - felice e cheto.
La cucina s’aprì con uno sbuffo,
e apparve la serva, non so perché,
con lo scialle mezzo giù, la pettinatura maliziosa
e, passando di continuo il suo tremante ditino
sulla guancia, un velluto di pesca bianca e rosa,
facendo con le labbra infantili una smorfia,
lei sistemava i piatti, accanto a me, per il mio agio;
- Poi, così, - certo, per avere un bacio, -
sottovoce: “Senti un po’, ho preso un freddo sulla guancia…”
L’ECLATANTE VITTORIA DI SAARBRÜCKEN
OTTENUTA AL GRIDO DI VIVA L’IMPERATORE!
Stampa belga a colori vivaci,
si vende a Charleroi, 35 centesimi.
(L’éclatante victorie de Sarrebruck
Remportée aux cris de vive l’Empereur!
Gravure belge brillamment coloriée,
se vend à Charleroi, 35 centimes.)
In mezzo, l’Imperatore, in un’apoteosi
blu e gialla, pettoruto, se ne va, sul suo cavalluccio
scintillante; felicissimo, - perché vede tutto in rosa,
feroce come Zeus e dolce come un papà;
in basso, i bravi soldatini che facevano la siesta
accanto ai tamburi dorati e ai rossi cannoni,
s’alzano bene. Pitou rimette la sua divisa,
e, girato verso il Capo, si rintrona con i grandi nomi!
A destra, Dumanet, appoggiato sul calcio
del suo sputafuoco, sente fremere la sua nuca a spazzola,
e: “Viva l’Imperatore!!!” - Il suo vicino resta cheto…
Un schakò sorge, come un sole nero… - Al centro,
Boquillon rosso e blu, molto candido, sul suo ventre
si rizza, e, - presentando le chiappe -: “Di che?…”
Ottobre 1870
LA CREDENZA
(Le buffet)
È una credenza larga scolpita; la quercia scura,
stagionata, ha preso l’aria buona della vecchia gente;
la credenza è aperta, e versa nella sua ombra
come un fiotto di vino vecchio, dei profumi invitanti;
stracolma, è un magazzino di vecchi vecchiumi,
lenzuola odorose e gialle, stracci
di donne o di bimbi, pizzi infeltriti,
scialli della nonna dove dei grifoni sono istoriati;
- È là che troviamo i medaglioni, le ciocche
di capelli bianchi o biondi, i ritratti, i fiori secchi
il cui profumo si fonde ai profumi della frutta.
- Oh credenza dei vecchi tempi, tu conosci delle storie
e vorresti raccontare le tue fiabe, e scricchioli
quando le tue grandi ante nere s’aprono lentamente.
LA MIA BOHÈME
(Fantasia)
[Ma bohème (Fantaisie)]
Me ne andavo, i pugni nelle mie tasche sfondate;
anche il mio cappotto diveniva ideale;
io andavo sotto il cielo, Musa! ed ero tuo fedele;
oh! che amori splendidi ho sognato io!
I miei soli pantaloni avevano un buco largo.
- Pollicino sognatore, nella mia corsa sgranavo
delle rime. L’Orsa Maggiore era il mio albergo.
- Nel cielo le mie stelle un dolce fruscio facevano
e le ascoltavo, seduto sul bordo delle strade,
quelle miti sere settembrine in cui sentivo gocce
di rugiada sulla mia fronte, come un vino robusto;
in cui, rimando tra fantastiche ombre,
come fossero lire, io gli elastici tiravo
delle mie suole ferite, un piede vicino al cuore mio!
I CORVI
(Les corbeaux)
Signore, quando fredda è la campagna,
quando nei casali abbattuti,
i lunghi Angelus sono muti...
Sulla natura sfiorita
fa precipitare dai grandi cieli
i diletti corvi deliziosi.
Strana armata dalle grida severe,
i venti freddi attaccano i vostri nidi!
Voi, lungo i fiumi ingialliti,
sulle strade dei vecchi calvari,
sulle fosse e sulle buche
disperdetevi, radunatevi!
A migliaia, sui campi di Francia,
dove riposano i morti dell’altro ieri,
turbinate, allora, l’inverno,
perché ogni viandante rifletta!
Sii dunque il banditore del dovere,
o nostro funebre uccello nero!
Ma, santi del cielo, sull’alta quercia,
asta sperduta nella sera incantata,
lasciate stare le capinere
per chi in fondo al bosco è in catene,
nell’erba da dove non può fuggire ,
la disfatta senza avvenire.
I SEDUTI
(Les assis)
Neri di natte, butterati, gli occhi cerchiati di
verde, le loro dita nodose attaccate ai femori,
il sincipite placcato di escrescenze arcigne
come le inflorescenze lebbrose dei vecchi muri;
essi hanno innestato negli amori epilettici
la loro ossatura balzana ai grandi scheletri neri
delle loro sedie; alle sbarre rachitiche i loro piedi
si allacciano dalla sera alla mattina!
Questi vegliardi si son sempre intrecciati coi loro seggi,
sentendo i soli vividi levigare la loro pelle,
o, gli occhi fissi al vetro dove la neve svanisce,
tremolando col doloroso tremore del crapaud.
E i Seggi son cortesi con loro: annerita,
la paglia cede agli angoli dei loro fianchi;
l’anima dei soli andati s’accende, fasciata
nelle trecce di spighe dove il grano fermentava.
E i Seduti, le ginocchia sui denti, verdi pianisti,
le dieci dita tambureggianti sui propri seggi,
s’ascoltano la risacca di tristi barcarole,
e le loro zucche seguono i rollii d’amore.
- Oh! Non li schiodate di lì! È il naufragio…
Sorgono, brontolando come gatti sculacciati,
aprendo lentamente le scapole, o furore!
gli sbuffano i calzoni ai lombi rigonfi.
E voi li ascoltate, battere le loro crape pelate
sui muri scuri, impiallacciando i piedi torti,
e i bottoni dei vestiti sono fulve pupille
che vi arpionano l’occhio dal fondo dei corridoi!
Poi posseggono una mano che invisibile uccide:
al ritorno, il loro sguardo filtra questo nero veleno
che grava l’occhio smunto della cagna percossa,
e voi sudate, presi in un atroce imbuto.
Riassettati, i pugni affondati nei sudici polsini,
pensano a quelli che li hanno fatti alzare
e, dall’alba alla sera, grappoli di tonsille
sotto quelle bazze sparute scalpitano da creparne.
Quando l’austero sonno gli ha abbassato le visiere,
loro sognano sopra il braccio scranne fecondate,
autentici amorini di sedie in dande
dai quali gli alteri scrittoi saranno circondati;
dei fiori d’inchiostro sputando pollini di virgole
li cullano, accoccolati lungo i calici
come sui giaggioli il volo di libellule
- E il loro membro s’eccita sulle barbe di spighe.
TESTA DI FAUNO
(Tête de faune)
Nel fogliame, scrigno verde macchiato d’oro,
nel fogliame incerto e fiorente
di fiori splendidi dove il bacio dorme,
vivace e squarciando lo squisito ricamo,
un fauno spaventato mostra i suoi due occhi
e morde i fiori rossi con i suoi denti bianchi.
Bruno e sanguinante come un vino vecchio,
il suo labbro scoppia in risa sotto i rami.
E quando è fuggito - come uno scoiattolo -
il suo riso trema ancora in ogni foglia,
e si vede impaurito da un ciuffolotto
il Bacio d’oro del Bosco, che si raccoglie.
I DOGANIERI
(Les douaniers)
Quelli che dicono: Cristo!, quelli che bestemmiano,
soldati, marinai, macerie dell’Impero, pensionati,
sono zeri, zeri spaccati, davanti ai Soldati dei Trattati
che tagliano la frontiera azzurra a colpi d’ascia.
La pipa tra i denti, lama in mano, profondi, affatto scocciati,
quando l’ombra sbava nei boschi come un muso di vacche,
se ne vanno, portando i loro mastini al guinzaglio,
a esercitare nottetempo le loro terribili gaiezze!
Segnalano alle leggi moderne le faunesse.
Prendono per il collo i Faust e i fra Diavolo.
“Non questo, vecchi miei! Giù quei fagotti!”
quando sua serenità si avvicina ai giovani,
il Doganiere si attiene ai vezzi controllati!
Inferno ai delinquenti che il suo palmo ha sfiorati.
ORAZIONE DELLA SERA
(Oraison du soir)
Io vivo seduto, come un angelo nelle mani di un barbiere,
impugnando una coppa con forti scanalature,
l’ipogastro e il collo incurvati, una pipa Gambier
tra i denti, sotto l’aria gonfiata d’impalpabili venti.
Come i caldi sterchi di una vecchia colombaia,
mille sogni dentro me mi ardono dolci:
poi d’un colpo il mio cuore triste è come un alburno
che insanguina l’oro giovane e tetro delle colatura.
Poi, quando ho ringoiato con cura i miei sogni,
mi volto, dopo trenta o quaranta boccali,
e mi raccolgo, per rilassare il mio aspro bisogno.
Amabile come il Signore del cedro e degli issopi,
io piscio verso i cieli bruni, altissimo e lontanissimo,
con il consenso dei grandi eliotropi.
CANTO DI GUERRA PARIGINO
(Chant de guerre parisien)
La Primavera è evidente, perché
dal cuore delle verdi Proprietà,
il volo di Thiers e di Picard
spicca con i suoi grandi splendori aperti!
Oh Maggio! Che deliranti culi-nudi!
Sèvres, Meudon, Bagneux, Asnières,
ascoltate dunque i benvenuti
seminare le primaverine!
Loro hanno schakò, sciabola e tam-tam,
non la vecchia scatola di candele,
e le iole che non potevan, non potevan …
solcano il lago dalle acque insanguinate!
Noi ci straviziamo più che mai
quando sulle nostre tane vengono
a piombare le cocuzze gialle
in certe aurore particolari!
Thiers e Picard sono degli Eros,
dei saccheggiatori d’eliotropi;
col petrolio fanno dei Corot:
a voi lo sciame devastante dei loro tropi…
Loro sono familiari del Gran Turco!…
E assopito tra i gladioli, Favre
le sue palpebre fanno acquedotto,
e le sue annusate con il pepe!
La grande città ha il pavé arroventato
malgrado le vostre docce di petroli,
e decisamente, ci tocca
scuotervi nel vostro ruolo…
E i Rurali che si crogiolano
nei loro lunghi accovacciamenti,
sentiranno i rametti che cadono
in mezzo agli urti rosseggianti!
MIE PICCINE INNAMORATE
(Mes petites amoureuses)
Un lacrimale idrolato lava
I cieli verde-cavolo:
sotto l’albero di gemme che sbava,
i vostri caucciù.
Bianche di lune particolari
Dalle rotonde natiche,
sbattete le vostre ginocchiere,
mie bruttacchiotte!
Noi ci amammo allora,
blu bruttacchiotta:
mangiavamo uova alla coque
ed erba grisellina!
Tu mi laureasti poeta, una sera,
bruttacchiotta biondina:
vieni qui che ti frusto
qua sul mio grembo;
Ho rigettato la tua brillantina,
bruttacchiotta nera;
tu taglieresti il mio mandolino
col filo della fronte.
Puah! Le mie salive disseccate,
rossa bruttacchiotta,
infettano ancora le trincee
del tuo tondo seno!
O mie piccine innamorate,
quanto vi odio!
ammollate schiaffi dolorosi
alle vostre laide tettone!
Pestate le mie vecchie terrine
Del sentimento;
- Hop dunque! Siate le mie ballerine
Per un momento!…
Si slogano le vostre scapole,
o miei amori!
Una stella ai vostri fianchi zoppi,
fatevi dei bei giri!
Ed è proprio per queste frattaglie
Che ho scritto rime!
Io vorrei spaccarvi le anche
Per avervi amato!
Mucchio insipido di stelle fallite,
nell’angolino, su!
- Voi creperete in Dio, sotto il peso
d’ignobili cure.
Bianche di lune particolari
Dalle natiche rotonde,
sbattete le vostre ginocchiere,
mie bruttacchiotte!
ACCOVACCIAMENTI
(Accroupissements)
Molto tardi, quando lo stomaco si rivolta,
il frate Milotus , un occhio al lucernaio
da dove il sole, chiaro come un paiolo ripulito,
gli irraggia un’emicrania e gli intontisce lo sguardo,
e sposta nelle lenzuola la sua pancia di prete.
Si dimena sotto la sua grigia coperta
e scende, le ginocchia contro il ventre in tremito,
stravolto come un vecchio che mangia la sua presa;
perché lui deve, la mano al manico del pitale,
largamente rimboccare sui suoi fianchi la camicia.
Ora, s’accovaccia, tra i brividi, le dita dei piedi
ripiegate, battendo i denti nel sole chiaro che pianta
dei gialli di broscia sui vetri di carta;
e il naso dell’omino dove brilla la lacca
tira su tra i raggi, come un carnale polipaio.
L’omino s’arrostisce al fuoco, braccia torte e labbra
al ventre: sente le sue cosce nel fuoco,
e sente bruciare i suoi calzoni, e spegnersi la pipa;
qualcosa come uccello un po’ svolazzante
sul suo ventre sereno come un mucchio di trippa.
Intorno, dorme un ammasso di mobili abbrutiti
tra stracci di sporcizia e sopra sudici ventri;
sgabelli, strani rospi, sono rannicchiati
in angoli bui: le credenze hanno gole di cantori
che le apre un sonno ricolmo d’appetiti orribili.
Il calore mefitico riempie la cameretta;
il cervello dell’omino è imbottito di cenci.
Ascolta i peli spuntargli nella sua pelle umidiccia,
e talvolta, in singhiozzi forti gravemente buffoneschi
erompe, scotendo il suo sgabello che zoppica…
…
E la sera, ai raggi della lune, che gli fanno
al contorno del culo delle sbavature di luce,
un’ombra con dettagli si accovaccia, su uno sfondo
di neve rosa che somiglia un malvone…
Bizzarro, un naso insegue Venere nel cielo profondo.
I POETI DI SETTE ANNI
(Les poètes de sept ans)
E la madre, chiudendo il libro dei compiti,
se ne andava soddisfatta e tutta fiera, senza vedere,
negli occhi azzurri e sotto la fronte piena d’eminenze,
l’anima di suo figlio ricolma di ripugnanze.
Tutto il giorno sudava per obbedienza; molto
intelligente; eppure dei neri tic, qualche tratto
sembrava denotare in lui acri ipocrisie.
Nell’ombra dei corridoi dalle tappezzerie muffose,
passando faceva le linguacce, i due pugni
all’inguine, e nei suoi occhi chiusi vedeva punti.
Una porta s’apriva sulla sera: con la lampada
Lo si vedeva, lassù, che rantolava sulla rampa,
sotto un golfo di luce pendente dal tetto. L’estate
soprattutto, vinto, stupido, lui si intestardiva
a rinchiudersi dentro la frescura delle latrine:
pensava là, tranquillo e spalancando le narici.
Quando, lavato dagli odori del giorno, il giardinetto
Dietro la casa, in inverno, si beava della luna,
giacente ai piedi del muro, interrato nella marna,
ascoltava brulicare le spalliere rognose.
Pietà! I suoi soli familiari questi bambini erano
Che, smunti, a fronte nuda, l’occhio che lacrima sulla guancia,
celando dei ditini secchi gialli e neri di fango
sotto i vestiti vecchi che puzzavano di diarrea,
parlavano con la dolcezza degli idioti!
E se, avendolo sorpreso in immonde pietà,
sua madre si spaventava; le tenerezze, profonde,
del bambino si sfogavano su quella meraviglia.
Era bello. Lei aveva lo sguardo blu, - che mente!
A sette anni lui faceva dei romanzi sulla vita
dei grandi deserti, dove riluce la Libertà rapita,
foreste, soli, fiumi, savane! - lo aiutavano
i giornali illustrati dove, rosso, guardava
le spagnole ridere e le italiane.
Quando veniva, l’occhio bruno, matto, in abiti di cotone,
- otto anni, - la figlia degli operai dirimpettai,
la piccola selvaggia, e quando gli saltava addosso,
in un angolo, sulla schiena, scotendo le sue trecce,
lui standole sotto, gli mordeva le chiappe,
perché la bimba non portava mai le mutandine;
- E, da lei pestato a suon di pugni e di calci,
riportava i sapori della sua pelle in camera.
Lui temeva le scialbe domeniche di dicembre,
in cui, impomatato, su un tavolino di mogano,
leggeva una Bibbia dalla costa verde cavolo;
dei sogni l’opprimevano ogni notte nell’alcova.
Non amava Dio; ma gli uomini, che nella fulva sera,
neri nelle bluse, vedeva rientrare nei sobborghi
dove i banditori, con tre rulli di tamburo,
fanno intorno agli editti ridere e berciare la folla.
- Sognava le praterie amorose, dove onde
luminose, sani profumi, pubescenze d’oro,
si insinuano calme e prendono il loro volo!
E siccome gli piacevano anzitutto le cose cupe,
quando, nella camera nuda dalle persiane chiuse,
alta e blu, acremente impregnata d’umidità,
leggeva il suo romanzo meditato continuamente,
pieno di cieli pesanti d’ocra e di foreste inondate,
di fiori di carne nei boschi siderali dispiegati,
vertigine, crolli, rotte e pietà!
- Mentre rumoreggiava il quartiere
giù in basso, - solo, e sdraiato su dei pezzi di tela
grezza, e presentendo violentemente la vela!
26 maggio 1871
I POVERI IN CHIESA
(Les pauvres à l’église)
Recintati tra i banchi di quercia, nei cantucci della chiesa
che intiepidisce coi suoi tanfi il loro fiato, ogni sguardo
verso il coro grondante d’oro e la scuola di canto
dalle venti ugole che sbraitano le cantiche devote;
come profumo di pane fiutando l’odore della cera,
felici, umiliati come cani bastonati,
i Poveri al buon Dio, il padrone e il sire,
porgono i loro oremus risibili e testardi.
Per le donne, è molto bello strofinare i banchi,
dopo i sei giorni neri in cui Dio li fa soffrire!
Loro cullano, avvolte in strane pellicce,
delle specie di bimbi che piangono da morire.
I loro seni sudici fuori, le divoratrici di zuppa,
una preghiera negli occhi (e non pregano mai),
guardano con malignità la parata di un gruppo
di bambine con i loro cappelli deformati.
Fuori, il freddo, la fame, l’uomo in ribotta:
Va bene qui. Ancora un’ora, poi i mali infami!
- Pure, intorno, frigna, parla col naso, bisbiglia
una collezione di vecchie disposte a giogaie:
Vi sono quelli strambi, e quelli epilettici
da cui ci si scansava ieri ai crocevia;
e annusando smaniosi nei messali antichi,
vi sono i ciechi che un cane guida nei cortili.
E tutti, sbavano la fede stracciona e stupida,
recitano il compianto infinito per Gesú
che sogna, lassù, ingiallito dalla vetrata livida,
lontano dai cattivi segaligni e dai malvagi panciuti,
lontano dagli odori di carne e di stoffe ammuffite,
farsa prostrata e fosca con gesti ripugnanti;
- e l’orazione sacra sboccia con enunciati scelti,
e le misticità assumono dei toni pressanti,
quando, dalle navate dove il sole muore, pieghe di seta
banali, verdi sorrisi, le Dame dei quartieri
distinti, - o Gesú! - le malate di fegato
fanno baciare le loro lunghe dita gialle alle acquasantiere.
IL CUORE TRAFUGATO
(Le cœur volé)
Il mio triste cuore sbava alla poppa,
il mio cuore ricoperto di trinciato :
gli gettano addosso schizzi di zuppa,
il mio triste cuore sbava alla poppa:
tra i lazzi mordaci della truppa
che erompe in un riso generale,
il mio triste cuore sbava alla poppa,
il mio cuore ricoperto di trinciato.
Itifallici e militareschi
i loro versi l’hanno depravato!
Negli affreschi vedo al timone
Itifallici e militareschi.
O flutti d’abracadabra,
prendete il mio cuore, che sia nettato!
Itifallici e militareschi
i loro versi l’hanno depravato!
Quando avranno buttato le loro cicche,
come agire, o cuore trafugato?
Saranno singulti bacchici
quando avranno buttato le loro cicche:
avrò lo stomaco sottosopra,
io, se il mio cuore è ricacciato:
Quando avranno buttato le loro cicche,
come agire, o cuore trafugato?
L’ORGIA PARIGINA
OVVERO
PARIGI SI RIPOPOLA
(L’orgie parisienne
ou
Paris se repeuple)
Vigliacchi, eccola! Riversatevi nelle stazioni!
Il sole ripulì coi suoi polmoni ardenti
i viali che una sera i Barbari riempirono.
Ecco la Città santa, seduta in occidente!
Su! impediremo il riflusso d’incendio,
ecco i Lungosenna, ecco i viali, ecco
le case sull’azzurro lieve che s’irradia
e che una sera il rossore delle bombe costellarono!
Rimpiattate i palazzi morti nelle cucce di tavolati!
L’antica luce sbigottita rinfresca i vostri sguardi.
Ecco la truppa fulva di chi torce le anche:
siate folli, sarete strambi, essendo truci!
Mucchio di cagne in fregola che mangiano cataplasmi,
il grido delle magioni auree vi reclama. Volate!
Mangiate! Ecco la notte gioiosa dai profondi spasmi
Che scende per strada. O desolati beoni,
trincate! Quando la luce arriva intensa e folle,
frugando accanto a voi i grondanti sfarzi,
voi non gli sbaverete dietro, immobili, muti,
nei vostri boccali, gli occhi persi in pallide lontananze?
Tracannate, alla Regina dalle chiappe cascanti!
Ascoltate il lavorio dei rutti stupidi
e laceranti! Ascoltate saltare nelle notti ardenti
gli idioti che farfugliano, i vecchi, i fantocci, i lacchè!
O cuori di sudiciume, bocche spaventose,
funzionate con più vigore, bocche di putridume!
Un po’ di vino per questi ignobili torpori, sulle tavole…
I vostri buzzi son colmi di vergogna, o Vincitori!
Aprite le vostre narici alle nausee superbe!
Inzuppate di micidiali veleni le corde dei vostri colli!
Sulle nuche infantili abbassando le sue mani in croce
Il Poeta vi dice: “Vigliacchi, siate folli!
Perché voi rovistate nel ventre della Donna,
voi temete che ancora lei abbia una convulsione
che gridi, asfissiando la vostra infame nidiata
sul suo petto, in un orribile stretta.
Sifilitici, pazzi, buffoni, fantocci, ventriloqui,
che gliene frega a Parigi la puttana,
delle anime, dei corpi, dei veleni e dei cenci vostri?
Tutti voi si scrollerà di dosso, ringhiosi marci?
E quando sarete a terra, in gemito sulle vostre budella
sfiancati, reclamando i vostri soldi, sconvolti,
la cortigiana rossa dai seni turgidi di battaglie
lungi dal vostro stupore torcerà i suoi alti pugni!
Quando i tuoi piedi hanno ballato sfrenati nell’ira,
Parigi! quando tu hai preso tante coltellate,
quando tu cadesti, trattenendo nelle tue chiare pupille
un po’ della bontà della fulva primavera,
o città in dolore, o città quasi morta,
la testa e i due seni scagliati all’Avvenire
che disserra sul tuo pallore miliardi di porte,
città che l’oscuro Passato potrà benedire:
corpo rimagnetizzato per le atroci pene,
tu dunque riscoli l’orrida vita! Tu senti
sgorgare il flusso di lividi vermi nelle tue vene,
e sul tuo chiaro amore scorrere le dita glaciali!
E non è un male. I vermi, i lividi vermi
non fermeranno più il tuo soffio di Progresso
come le Strigi non spegnevano l’occhio delle Cariatidi
su cui lacrime d’oro astrale scendevano dagli azzurri gradini.”
Anche se è orrendo vederti ricoperta
così, anche se non si è mai fatto di una città
ulcera più fetida nella verde Natura,
il Poeta ti dice: “Splendida è la tua Bellezza!”
La tempesta ti ha consacrato come suprema poesia;
l’immenso agitarsi di forze ti soccorre;
la tua opera pulsa, la morte ringhia. Città eletta!
Ammassa gli stridori nel cuore della tromba sorda.
Il Poeta prenderà il singhiozzo degli Infami,
l’odio dei Forzati, il clamore dei Maledetti;
e i suoi raggi d’amore flagelleranno le Donne.
Le sue strofe balzeranno: Ecco! Ecco! Banditi!
- Società, tutto è ristabilito: - le orge
rimpiangono i vecchi rantoli nei vecchi bordelli:
e i gas in delirio, contro i muri insanguinati,
fiammeggiano sinistri verso i ciani scialbi!
Maggio 1871
LE MANI DI JEANNE-MARIE
(Les mains de Jeanne-Marie)
Jeanne-Marie ha delle mani forti,
mani scure che l’estate ha abbronzato,
mani pallide come mani morte.
- Sono le mani di Juana?
Avranno preso le creme brune
sulle pozzanghere delle voluttà?
Si saranno immerse nelle lune
negli stagni della serenità?
Avranno bevuto i cieli barbari,
calmi sulle ginocchia avvenenti?
Avranno arrotolato dei sigari
o trafficato dei diamanti?
Sui piedi ardenti delle Madonne
avranno fatto appassire i fiori d’oro?
È il sangue nero delle belladonna
che nel loro palmo scoppia e dorme.
Mani cacciatrici di ditteri
che fan ronzare i blu
aurorali, verso i nettarii?
Mani che decantano veleni?
Oh! che Sogno le ha colte
nelle pandiculazioni?
Un sogno inaudito delle Asie,
di Khenghavàr o di Sion?
- Queste mani non hanno venduto arance,
né si sono scurite sui piedi degli dèi:
queste mani non hanno mai lavato le fasce
di pesanti bambinelli senza occhi.
Non sono mani di una cugina
né di operaie dalle fronti ampie
che brucia, nei boschi fetidi d’officina,
un sole ebbro di catrame.
Sono mani che stendono le schiene,
delle mani che on fanno mai male,
più fatali delle macchine,
più forti di tutto un cavallo!
Irrequieta come delle fornaci,
e scrollandosi tutti i suoi brividi,
la loro carne canta le Marsigliesi
e giammai i Kyrie Eleison!
Stringerebbero il vostro collo, o donne
malvagie, maciullerebbero le vostre mani,
nobili donne, le vostre mani infami
piene di bianco e di carminio.
Il lampo di quelle mani amorose
Torce il cranio delle pecore!
Nelle loro falangi saporose
il gran sole pone un rubino!
Una macchia di plebaglia
le fa brune come un seno di ieri;
il dorso di quelle Mani è il posto
che ogni fiero Ribelle baciò!
Sono impallidite, meravigliose,
nel gran sole gravido d’amore,
sul bronzo delle mitraglie
attraverso Parigi insorta!
Ah! qualche volta, o Mani consacrate,
sui vostri pugni, Mani dove tremano
le nostre labbra che mai perdono l’ebbrezza,
cigola una catena dagli anelli chiari!
Ed è uno strano soprassalto
Nel nostro essere, quando, talvolta,
vi si vuole sbiancare, Mani d’angelo,
facendovi sanguinare le dita!
LE SUORE DI CARITÀ
(Les sœurs de charité)
Il giovane, occhio splendente e pelle scura,
il bel corpo di vent’anni che dovrebbe andar nudo,
e che un Genio ignoto l’avrebbe adorato, in Persia,
la fronte cerchiata di rame, sotto la luna,
impetuoso, e con dolcezze virginee e cupe,
fiero dei suoi primi incaponimenti,
simile ai giovani mari, pianti di notte estive,
che si rigirano su letti di diamante;
il giovane, davanti alle bruttezze di questo mondo
sobbalza nel suo cuore largamente irritato,
e pieno della ferita eterna e profonda,
si mette a desiderare la sua suora di carità.
Ma, o Donna, mucchio di intestini, dolce pietà,
tu non sei mai la Suora di carità, mai,
né sguardo nero, né ventre dove dorme un’ombra rossa,
né dita leggere, né seni splendidamente forgiati.
Cieca, mai desta dalle pupille immense,
tutto nostro abbracciarti non è che una domanda:
sei tu che pendi da noi, portatrice di mammelle,
noi ti culliamo, passione incantevole e grave.
I tuoi odi, i torpori tuoi fissi, i tuoi deliqui,
e le brutalità sofferte una volta,
tu ci rendi tutto, o Notte senza malanimi però,
come un eccesso di sangue spanto tutti i mesi.
« Quando la donna, portata un istante, l’atterrisce,
amore, appello di vita e canzone d’azione,
vengono la Musa verde e la Giustizia ardente
a straziarlo della loro augusta ossessione.
Ah! senza sosta assetato di splendori e di calme,
abbandonato dalle due Sorelle implacabili, frigna
con tenerezza dietro la scienza dalle alme braccia,
porta alla natura in fiore la sua fronte in sangue.
Ma la nera alchimia e i santi studi
ripugnano al ferito, fosco saggio d’orgoglio;
sente marciare su lui atroci solitudini.
Allora, e sempre bello, senza disgusto della bara,
ch’egli creda ai vasti fini, Sogni o Spostamenti
immensi, attraverso le notti di Verità,
e ti chiami nella sua anima e sue membra malate,
o Morte misteriosa, o suora di carità.
VOCALI
(Voyelles)
A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali!
Io un giorno dirò delle vostre nascite latenti:
A, busto nero villoso di mosche splendenti
che ronzano attorno a fetori crudeli,
golfi d’ombra; E, candori di vapori e di tende,
lance di fieri ghiacciai, re bianchi, brividi di umbelle;
I, porpore, sangue sputato, riso di labbra belle
nell’ira o nell’ebbrezze penitenti;
U, cicli, divine vibrazioni di viridi mari,
pace di sparsi pascoli d’animali, paci rugose
che l’alchimia imprime nell’ampie fronti studiose;
O, suprema Tromba ricolma di stridori strani,
silenzi traversati dai Mondi e dagli Angeli:
- O, l’Omega, raggio violetto dei Suoi Occhi!
LA STELLA HA PIANTO ROSA
(L’étoile a pleuré rose)
La stella ha pianto rosa nel cuore delle tue orecchie,
l’infinito dalla tua nuca alle tue reni è scorso bianco;
il mare ha stillato rosso alle tue mammelle vermiglie
e l’Uomo ha sanguinato nero al tuo sovrano fianco.
[L’UOMO GIUSTO
frammenti]
(L’homme juste
fragments)
Il Giusto restava dritto sulle sue anche solide:
un raggio gli indorava la spalla; dei sudori
mi presero: “Tu vuoi vedere rutilare i bolidi ?
e, in piedi, ascoltare ronzare i flussi
d’astri lattei e gli sciami d’asteroidi?
“Dalle notturne burle la tua fronte è spiata,
o Giusto! Bisogna guadagnarselo un tetto. Dì la tua prece,
la bocca sul tuo drappo dolcemente espiato;
e se qualche ramingo busserà al tuo ostiario,
dì: Fratello, fatti più in là, io sono uno storpio!”
E il Giusto restava ritto, nello spavento
bluastro delle zolle dopo il tramonto:
“Allora, metteresti le tue ginocchiere all’incanto,
o Vegliardo? Pellegrino pio! bardo d’Armor!
Prefica degli Olivi! Mano che inguanta la pietà!
“Barba della famiglia e pugno della città,
credente mitissimo: o cuore caduto nei calici,
maestà e virtù, amore e cecità,
Giusto! Più bestia e più disgustoso delle cagne!
Io sono colui che soffre e che s’è ribellato!
“E mi fa piangere sul mio ventre, o stupido,
e ridere forte, la speranza famosa del tuo perdono!
Io sono maledetto, lo sai! io sono sbronzo, folle, livido,
ciò che tu vuoi! Ma vattene a dormire, orsù,
Giusto! Io non voglio niente dal tuo torpido cervello.
“Sei tu il Giusto, in conclusione, il Giusto? Basta!
È vero che la tua tenerezza e la tua ragione serene
Sniffano nella notte come dei cetacei,
che tu ti fai proscrivere e cianci lamenti
su orribili maniglie fracassate!
“E sei tu l’occhio di Dio! il vile! Quand’anche le piante
fredde dei piedi divini passassero sul mio collo,
tu sei vile! o la tua fronte che formicola di lendini!
Socrate e Gesú, Santi e Giusti, che nausea!
Rispettate il Maledetto supremo nelle notti insanguinate!”
Io avevo gridato questo sulla terra, e la notte
calma e candida copriva i cieli compagna alla mia febbre.
Rialzai la mia fronte: il fantasma era fuggito,
portandosi dietro l’ironia atroce del mio labbro…
- Venti notturni, venite dal Maledetto! Parlategli,
mentre silenzioso sotto i pilastri
d’azzurro, prolungando le comete e i nodi
dell’universo, enorme sommovimento senza disastri,
l’ordine, eterno vigile, rema nei cieli luminosi
e della sua draga in fiamme lascia cadere gli astri!
Ah! che se ne vada l’altro, lui, il gozzo incravattato
di vergogna, ruminando sempre la mia noia, dolce
come lo zucchero sui denti guasti.
Come una cagna dopo l’assalto dei fieri cagnoni,
che si lecca il suo fianco dove pende un pezzo di viscere.
Che declami le sudice carità e il progresso…
- Esecro tutti questi occhi di Cinesi buzzoni,
poi che canta: nanà, come tanti bambini vicini
a morire, teneri idioti dalle canzoni improvvisate:
o Giusti, noi cacheremo nei vostri ventri d’argilla!
CIÒ CHE SI DICE AL POETA
A PROPOSITO DI FIORI
(Ce qu’on dit au poète
a propos de fleurs)
I
Così, sempre, verso l’azzurro nero
Dove trema il mare di topazi,
funzioneranno nella tua sera
i Gigli, questi clisteri d’estasi!
Nella nostra epoca di sagù,
quando le Piante sono operaie,
il Giglio berrà i disgusti blu
nelle tue Prose religiose!
- Il giglio del signor de Kerdrèl,
il Sonetto milleottocentotrenta,
il Giglio che si dona al Menestrello
col papavero e l’amaranto!
Gigli! Gigli! Non se ne vedono!
E nei tuoi Versi, che sembrano maniche
di Peccatrici dal dolce passo,
sempre in brivido questi fiori bianchi!
Sempre, Caro, quanto ti fai il bagno,
la tua camicia sulle ascelle bionde
si gonfia nella brezza del mattina
sui miosotis immondi!
L’amore non passa ai tuoi dazi
senza il Lillà, - o altalene!
E le Viole dei Boschi,
sputi zuccherosi di Ninfe nere!…
II
O Poeti, quand’anche voi aveste
Le Rose, le Rose rigonfie,
rosse su steli di lauro,
ed enfiate di mille ottave!
Quand’anche BANVILLE le facesse nevicare,
sanguinolenti, in vortici,
che pestano l’occhio matto dello straniero
dalle letture mal benevole!
Delle vostre foreste e dei vostri prati,
o paciosissimi fotografi!
La Flora è pressappoco diversa
Come dei tappi di caraffe!
Sempre i vegetali Francesi,
rognosi, tisici, ridicoli,
dove il ventre dei cani bassotti
naviga in pace, nei crepuscoli;
sempre, dopo i disegni orribili
di Loti blu o di Girasoli,
stampe rosa, soggetti santi
per giovani comunicande!
L’Ode Asoka quadra con la
strofa a finestra di lorette ,
e farfalle pesanti brillanti
evacuano sulle Pâquerette.
Vecchie verzure, vecchie e stravecchie!
O pasticcini croccanti vegetali!
Fiori fantastici dei vecchi Salons!
- Ai maggiolini, non ai crotali,
questi puponi vegetali in lacrime,
che Grandville avrebbe messo alle dande,
e che allatterebbero di colori
astri orrendi con le visiere!
Sì, le vostre bave di zampogne
fanno dei preziosi glucosi!
- Uova fritte in vecchi cappelli,
Gigli, Açoka, Lillà e Rose!…
III
O bianco Cacciatore, che corri scalzo
attraverso i Pascoli panici,
non puoi tu, non devi tu
conoscere un po’ la botanica?
Tu faresti succedere, ho paura,
ai Grilli rossi le Cantaridi,
l’oro dei Rios al blu del Reno, -
in breve, alle Norvege le Floride:
ma, Caro, l’Arte non è più, attualmente,
- è la verità, - di permettere
all’Eucalipto sbigottito
dei costrittori d’un esametro;
Via!… Come se i Mogani
non servissero, pure nelle nostre Guiane,
che ai salti delle scimmie,
al delirio pesante delle liane!
- Insomma, un fiore, Rosmarino
o Giglio, vivo o morto, vale
un escremento di uccello marino?
Vale una sola lacrima di candela?
Ed io ho detto ciò che volevo!
Tu, anche seduto laggiù, in una
capanna di bambù, - a imposte
chiuse, tende di tela di Persia bruna, -
tu distorceresti delle fioriture
degne d’Oise stravaganti!…
- Poeta! Sono ragionamenti
Non meno risibili che arroganti!…
IV
Dì, non le pampas primaverili
nere di spaventose rivolte,
ma i tabacchi, i cotoni!
Dì gli esotici raccolti!
Dì, fronte bianca che Febo abbronzò,
quanti dollari s’accaparra
Pedro Velasquez, Havana;
imbratta di merda il mare di Sorrento
dove vanno i Cigni a frotte;
che le tue strofe siano reclami
per l’abbattitura di mangrovie,
sfogliate da idre e da lame!
La tua quartina piove nei boschi in sangue
e ritorna a proporre agli Uomini
diversi argomenti su zuccheri bianchi,
sui pettorali e sulle gomme!
Informaci Tu se le biondezze
dei Picchi nevosi, verso i Tropici,
sono degli insetti fecondi
o dei licheni microscopici!
Trova, o Cacciatore, noi lo vogliamo,
delle garanze profumate
che la Natura in pantaloni
faccia fiorire! - per le nostre Armate!
Trova, ai confini del Bosco che dorme,
i fiori, simili a dei musi,
che sbavano pomate d’oro
sui capelli scuri dei bufali!
Trova, nei prati folli, dove sul Blu
trema l’argento delle pubescenze,
dei calici colmi d’Uova di fuoco
che cuociono tra le essenze!
Trova dei Cardi cotonati
su cui dieci asini dagli occhi di bragia
lavorano a filare i nodi!
Trova i Fiori che siano sedie!
Sì, trova nel cuore dei neri filoni
dei fiori pressoché di pietra, - famosi! -
che verso i loro duri ovari biondi
abbiano delle amigdale gemmose!
Servici, o Buffone, tu lo puoi,
su di un piatto di splendido argento dorato
dei ragù di Gigli sciropposi
che mordano i nostri cucchiai!
V
Qualcuno dirà il grande Amore
Ladro di cupe Indulgenze:
ma né Renan, né il gatto Murr
hanno visto i Blu Tirsi immensi!
Tu, fai ruzzare nei nostri torpori,
con i profumi le isterie;
esaltaci verso i candori
più candidi che le Marie…
Commerciante! colono! medium!
La tua rima sorgerà, rosa o bianca,
come un raggio di sodio,
come un caucciù che si espande!
Dai tuoi neri Poemi, - Giullare!
bianche, verdi, e rosse diottriche,
che evadano fiori strambi
e delle farfalle elettriche!
Ecco! è il Secolo d’inferno!
E i pali dei fili del telegrafo
orneranno, - lira dal canto di ferro,
le tue scapole magnifiche!
Soprattutto, rima una versione
sul male delle patate!
- E, per la composizione
di Poemi pieni di mistero
che si debbano leggere da Tréguier
a Paramaribo , raccatta
dei Tomi di Monsieur Figuier,
illustrati! - da Monsieur Hachette !
14 luglio 1871. Alcide Bava.
R.
LE PRIME COMUNIONI
(Les Premières Communions)
I
Davvero, sono stupide queste chiese paesane
dove quindici laidi marmocchi insudiciano i pilastri
ascoltando, arrotando i chiacchiericci divini,
un nero grottesco su cui fermentano le suole:
ma il sole fa ridestare, attraverso le foglie,
gli antichi colori delle vetrate irregolari.
La pietra ha sempre l’odore della terra materna.
Vedrete dei mucchi di questi ciottoli terrosi
nei campi in fregola che fremono solenni,
e vicino al grano gravido, nei sentieri d’ocra,
questi arboscelli arsi dove la prugnola si fa blu,
dei grovigli di gelsi neri e dei rosai stercorari.
Ogni cent’anni questi granai sono resi rispettabili
da un intonaco d’acqua azzurra e latte cagliato:
se dei grotteschi misticismi sono rimarchevoli
accanto alla Nostra Signora o al Santo impagliato,
le mosche che sanno di locanda e di stalle
si rimpinzano di cera sul pavimento assolato.
I bambini sono anzitutto figli della casa, famiglia
dalle cure ingenue, dai lavori abbrutenti;
escono, dimentichi che la pelle formicola loro
là dove il Prete di Cristo ha appiccicato le sue dita possenti.
Al Prete gli pagano un tetto in ombra per una pergola
perché lasci a brunire al sole tutte quelle fronti.
Il primo abito nero, il più bel giorno, quello delle torte,
sotto il Napoleone o il Tamburino
o qualche miniatura dove figure di Giuseppe e di Marta
tiran fuori la lingua con un eccessivo amore
che unirà, nel giorno di scienza, due carte,
questi soli dolci ricordi che gli restan del gran Giorno.
Le ragazze vanno sempre in chiesa, contente
di sentirsi chiamare zoccole dai ragazzi
che fanno i bulli dopo la Messa o i vespri cantati.
I ragazzi già destinati all’eleganza delle guarnigioni
sfottono al caffè le casate importanti,
tutti azzimati, e berciano canzoni volgari.
Intanto il Curato sceglie per i suoi fanciulli
dei santini; nel chiuso, dopo i vespri, quando
l’aria s’empie nasale di lontane danze,
lui sente, a dispetto dei divieti celesti,
ebbre le dita dei piedi e il polpaccio tenere il ritmo;
La Notte giunge, nero pirata sbarcando nei cieli d’oro.
II
Il Prete ha scelto tra i catecumeni
raccolti dai Sobborghi o dai Quartieri Ricchi,
una bimba sconosciuta, dagli occhi tristi,
dalla fronte gialla. I suoi genitori sembran miti portieri.
“Nel gran Giorno, segnandola tra i Catecumeni,
Dio farà nevicare su questa fronte le sue acque benedette.”
III
La vigilia del gran Giorno, la bimba si ammala.
Meglio che nell’alto della Chiesa dai funebri rumori,
il brivido giunge subito, - il letto non è affatto frivolo, -
un brivido sovrumano che rimescola il sangue: “Io muoio…”
E, come furto d’amore fatte alle sue stupide sorelle,
lei conta, abbattuta e le mani sul suo cuore,
gli Angeli, i Gesú e le sue nitidi Vergini
e, con placidità, la sua anima ha bevuto tutto il suo vincitore.
Adonài… - Nelle desinenze latine,
cieli di verde marezzati bagnano le Fronti vermiglie,
e macchiati dal sangue puro dei celesti petti,
grandi lenzuola nevose calano sui soli!
Per le verginità presenti e future
lei morde nella frescura della tua Remissione,
ma più dei gigli d’acqua, più delle confetture,
i tuoi perdoni son di ghiaccio, o Regina di Sion!
IV
Poi la Vergine non è che la vergine del libro.
Gli slanci mistici si infrangono talvolta…
E viene la miseria delle immagini, che ricopre
la noia, atroci miniature e vecchie incisioni;
Curiosità vagamente impudiche
spaventano il sogno dei casti azzurri
che si stupisce intorno alle celesti tuniche
del panno con cui Gesú vela le sue nudità.
Lei vuole, lei vuole, tuttavia, l’anima sconvolta,
la fronte nel guanciale scavato dalle grida sorde,
prolungare i lampi supremi di tenerezza,
e sbava… - L’ombra riempie le case e i cortili.
E la bambina è sfinita. Si agita, inarca
i fianchi e con una mano apre la tenda blu
per avere un poco del fresco della camera
sotto le coperte, verso il suo ventre e il suo petto in fuoco…
V
Al suo risveglio, - mezzanotte, - la finestra era bianca.
Davanti al sonno azzurro delle tende di luna,
la visione la coglie dei candori domenicali;
aveva fatto un sogno rosso. Lei sanguina dal naso,
e sentendosi molto casta e piena di fiacchezza,
per assaporare in Dio il suo amore che torna,
lei ha sete della notte in cui s’esalta e si prostra
il cuore, sotto l’occhio dei dolci cieli, nel riconoscerli;
la notte, Vergine-Madre impalpabile, che bagna
tutti i giovani affanni dei suoi silenzi grigi;
lei ha sete della notte forte dove il cuore che sanguina
fa scorrere inespressa la sua rivolta senza grida.
Eleggendola Vittima e piccola sposa,
la sua stella la vide, una candela tra le dita,
scendere nel cortile dove s’asciuga una blusa,
bianco spettro, e far sorgere gli spettri neri dei tetti.
VI
Trascorse la sua notte santa nelle latrine.
Verso la candela, dai fori del tetto colava l’aria bianca,
e qualche vite folle dalle annerite porporine,
che cadeva al di qua d’un cortile vicino.
Il lucernaio faceva un cuore di viva luce
nel cortile dove i plumbei cieli placcavano d’oro vermiglio
i vetri delle finestre; i lastrici che puzzavan di lisciva
soffrivano l’ombra dei muri zeppi di sonni neri.
. . .
VII
Chi narrerà quei languori e quelle immonde pietà,
e l’odio che le verrà, o sporchi mentecatti
che deformate ancora il mondo con il travaglio divino,
quando la lebbra alla fine mangerà questo dolce corpo?
. . .
VIII
E quando, avendo ingoiato tutti i boli isterici,
lei vedrà, nelle tristezze della felicità,
l’amante sognare in bianco milioni di Marie,
al mattino della notte d’amore, con dolore:
“Sai tu che ti ho fatto morire? Io ho preso la tua bocca,
il tuo cuore, tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che avete;
ed io, io sono malata: Oh! io voglio che mi si stenda
tra i Morti abbeverati dalle acque notturne!
“Ero molto giovane, e Cristo ha sporcato i miei aliti.
Mi ha riempito di disgusto fino alla gola!
Tu baciavi i miei capelli profondi come lane,
e io mi lasciavo andare… Ah! va bene, vi sta bene,
“Uomini! che non immaginate che la più innamorata
è, nella sua coscienza morsa da ignobili terrori,
la più prostituita e la più addolorata,
e che tutti i nostri slanci verso di voi sono errori!
“Perché la prima Comunione è ormai passata.
I tuoi baci, io non posso averli mai saggiati:
e il mio cuore e la mia carne dalla tua carne abbracciata
formicolano del bacio putrido di Gesú!”
IX
Allora l’anima guasta e l’anima desolata
sentiranno scorrere le tue maledizioni.
Si saranno adagiati sul tuo Odio inviolato,
sfuggiti, per la morte, alle giuste passioni,
Cristo! o Cristo, eterno predatore di energie,
Dio che per duemila anni votasti al tuo pallore,
inchiodate al suolo, per l’onta e le cefalee,
dove son riverse, le fronti delle donne in dolore.
Luglio 1871
LE CERCATRICI DI PIDOCCHI
(Les chercheuses de poux)
Quando la fronte del bambino, piena di rossi tormenti,
implora lo sciame bianco dei sogni indistinti,
vicino al suo letto vanno da lui due leggiadre sorelle
con dita fragili dalle unghie argentine.
Fanno sedere il bambino davanti al finestrone
aperto dove l’aria azzurra bagna un groviglio di fiori,
e nei suoi capelli grevi su cui cade la rugiada
passano le loro dita fini, terribili e graziose.
Lui ode cantare i loro aliti accorti
che olezzano di miele lungo vegetale e di rose,
e che talvolta un sibilo interrompe, salive
riprese sulle labbra o brama di baci.
Ascolta le loro ciglia nere sbattere nel silenzio
profumato; e le loro dita elettriche e dolci
fanno crepitare tra le sue grigie indolenze
sotto l’unghie regali la morte dei pidocchi.
Ecco che in lui sale il vino dell’Indolenza,
sospiro d’armonica che potrebbe delirare;
il bambino sente in sé, secondo la flemma delle carezze,
sorgere e morire senza sosta un desiderio di pianto.
IL BATTELLO EBBRO
(Le bateau ivre)
Poiché io scendevo i Fiumi impassibili,
non mi sentii più guidato dai tiranti:
li avevan bersagliati dei Pellerossa striduli,
inchiodati nudi ai pali colorati.
Io ero incurante d’ogni equipaggio,
portavo garni fiamminghi e cotoni inglesi.
Quando con i miei tiranti finirono i rumori,
i Fiumi m’han lasciato andare dove volessi.
Nello sciabordare furioso delle maree,
io, l’altro inverno, più sordo dei cervelli infantili,
io corsi! E le Penisole senza ormeggi
non hanno subito gazzarre più trionfanti.
La tempesta ha benedetto i miei risvegli marittimi.
Più leggero di un sughero ho danzato sulle onde
che si chiamano eterni rollii delle vittime,
dieci notti, senza rimpiangere l’occhio scialbo dei fari!
Più dolce che ai bambini la polpa di acidule mele,
l’acqua penetrò verde il mio scafo d’abete
e dalle macchie di vini blu e di vomiti
mi lavò, disperdendo il timone e l’ancora.
E da allora io mi sono bagnato nel Poema
del Mare, infuso d’astri e lattescente,
divorante i verdi-azzurri dove, galleggiamento livido
e rapito, un annegato pensoso talvolta discende.
Dove, tingendo d’un tratto i blu, deliri
e ritmi lenti sotto il rutilare del giorno,
più forti dell’alcol, più vasti delle nostre lire,
fermentano i rossori amari dell’amore.
Io so i cieli che scoppiano in lampi, e le trombe
e le risacche e le correnti: io so la sera,
l’Alba esaltata come uno stormo di colombe
e ho visto talvolta ciò che l’uomo ha creduto di vedere!
Io ho visto il sole basso, macchiato d’orrori mistici,
illuminando lunghi coaguli viola,
simili a ottoni di drammi antichissimi
rollando i flutti lontano i loro tremori di persiane!
Io ho sognato la notte verde di nevi abbagliate,
bacio che sale agli occhi del mare con placidità,
la circolazione di linfe inaudite
e il risveglio giallo e blu dei fosfori canori!
Io ho seguito, mesi interi, simili a transumanze
isteriche, l’onda lunga all’assalto delle scogliere,
senza sognare che i piedi luminosi delle Marie
potessero forzare i musi agli Oceani bolsi!
Io ho urtato, sapete, delle Floride incredibili
mescolate a fiori di occhi di pantere di pelle
d’uomini! Degli arcobaleni tesi come briglie
sotto l’orizzonte dei mari, a mandrie glauche!
Io ho visto fermentare le paludi enormi, nasse
dove imputridisce tra i giunchi ogni Leviatano!
Dei crolli d’acqua in mezzo alle bonacce
e le lontane cateratte verso gli abissi!
Ghiacciai, soli d’argento, flutti di madreperla, cieli di brace!
Ornamenti orridi in fondo a golfi bruni
dove i serpenti giganti divorati dalle cimici
cadono, da alberi contorti, con neri profumi!
Io avrei voluto mostrare ai bambini queste orate
dell’onda blu, questi pesci d’oro, questi pesci canori.
- Delle schiume di fiori hanno cullato le mie secche
e ineffabili venti m’han dato ali a momenti.
Talvolta, martire stanco dei poli e delle zone,
il mare, il cui singhiozzo addolciva il mio rullio,
montava verso me i suoi fiori d’ombra dalle ventose gialle
e io restavo, come donna in ginocchio...
Quasi isola, sbattendo sui miei bordi i litigi
e gli sterchi di uccelli strepitanti dagli occhi biondi,
e io vagavo, quando attraverso i miei fragili legami
gli affogati scendevano a dormire, all’indietro!
Ora io, battello perduto sotto i capelli delle anse,
gettato dall’uragano nell’aria senza uccelli,
io, cui i Monitori e i velieri anseatici
non avrebbero ripescato la carcassa ebbra d’acqua;
libero, fumante, carico di nebbie viola,
io che bucavo il cielo rossastro come un muro
che porti, confetture squisite per buoni poeti,
dei bicchieri di sole e dei mocci d’azzurro;
io che correvo, macchiato da lunule elettriche,
folle legno, scortato da ippocampi neri,
quando i lugli facevano crollare a colpi di randelli
i cieli ultramarini nelle ardenti voragini;
io che tremavo, sentendo frignare a 50 leghe
la fregola dei Behemot e i fitti Maelstrom,
filatore eterno di immutabilità blu,
io rimpiango l’Europa degli antichi parapetti!
Io ho visto gli arcipelaghi siderei! e le isole
i cui cieli deliranti sono aperti al vogatore:
- È in queste notti senza fondo che tu dormi e ti esili,
milioni d’uccelli d’oro, o futuro Vigore?
Ma, vero, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti,
ogni luna è atroce e ogni sole amaro:
l’acre amore m’ha gonfiato di torpori snervanti,
oh, che la mia chiglia schianti! Ch’io vada al mare!
S’io desidero un’acqua d’Europa, è la pozza
nera e fredda dove verso il crepuscolo profumato
un bambino accoccolato pieno di tristezze, lascia
un battello leggero come farfalla di maggio.
Io non posso più; bagnato dai vostri languori, o onde,
prendere la loro scia ai portatori di cotoni,
né traversare l'orgoglio delle bandiere e delle fiaccole,
né nuotare sotto gli occhi orribili dei pontoni.
.
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