LE STRENNE DEGLI ORFANI
(Les étrennes des orphelins)
I
La camera è piena d’ombra; si sente vagamente
il triste e dolce bisbiglio di due bambini.
Sporgono la loro fronte, pesante ancora dal sogno,
sotto la tenda lunga e bianca che trema e si solleva…
- Fuori gli uccelli infreddoliti si stringono:
l’ali loro s’intirizziscono sotto il cielo grigio;
e il nuovo Anno, con la scia brumosa,
strascicando le pieghe della sua veste nevosa,
sorride con pianti, e canta battendo i denti…
II
Ora i fanciulli, sotto la tenda che ondeggia,
parlano sotto voce come si fa in una notte buia.
Ascoltano, pensierosi, un mormorio lontano…
Spesso sobbalzano alla chiara voce aurea
del timbro mattinale, che batte e batte ancora
il suo ritmo metallico nel suo globo di vetro…
- E la camera è gelata… vedi languire per terra,
sparsi intorno ai letti, dei vestiti luttuosi:
L’aspro vento invernale che piange sulla soglia
soffia il suo mesto alito per la casa!
Senti, dappertutto, che manca qualche cosa…
- Non c’è dunque una madre per questi piccoli fanciulli,
una madre con sorrisi aperti, con sguardi trionfanti?
Dunque ha dimenticato, la sera, sola e ricurva,
di far rivivere una fiamma strappata alla cenere,
di allungare su di loro la lana ed il piumino
prima di lasciarli esclamando: scusate.
Non ha previsto per nulla il freddo del mattino,
non ha chiuso bene l’uscio al vento invernale?…
- Il sogno materno, è il tiepido tappeto,
è il nido di cotone dove i fanciulli rannicchiati,
come degli uccellini che dondolano i rami,
dormono il loro dolce sonno di candide visioni!…
- E lì - è come un nido senza piume e calore,
dove i piccoli han freddo, non dormono, han paura;
un nido che l’amaro vento deve aver ghiacciato…
III
Il vostro cuore l’ha compreso: - questi bimbi son senza madre.
Non c’è una madre in casa! - e il padre è assai lontano!…
- Una vecchia fantesca, allora, ne ha preso cura.
I piccoli sono tutti soli nella casa gelata;
orfani di quattro anni, ecco che nel loro pensiero
si risveglia, a poco a poco, un ricordo ridente…
Sembra un rosario che pregando si sgrana:
- Ah! che bel mattino quel mattino delle strenne!
Ognuno, la notte, aveva sognato le sue strenne
in un sogno strano dove i giocattoli appaiono,
caramelle in carta d’oro, gioielli lucenti,
turbinare e danzare una danza sonora,
poi fuggire sotto le tende, poi far capolino ancora!
Si svegliavano al mattino, si alzavano con gioia,
le labbra eccitate, stropicciandosi gli occhi…
Andavano, coi capelli spettinati sulla testa,
gli occhi raggianti, come nei gran giorni di festa,
e i piedini nudi che sfiorano il pavimento,
a bussare piano piano alla porta dei genitori…
Entrate!… E allora gli auguri… in camicia da notte,
i baci ripetuti e l’allegria permessa!
IV
Ah! che bellezza, quelle parole dette così tanto!
- Ma com’è cambiata la casa di un tempo:
un gran fuoco scoppiettava, chiaro, nel camino,
tutta la vecchia camera era illuminata;
e i riflessi vermigli, sprizzati dal gran focolare,
godevano a turbinare sui mobili verniciati …
- L’armadio è senza chiavi!… senza chiavi, l’armadio grande!
Fissavano spesso la sua bruna e nera anta …
Senza chiavi!… era strano!… sognavano più volte
i misteri assopiti nei suoi fianchi di legno,
e credevano di udire, nel fondo della serratura
aperta, un rumore lontano, vago e allegro mormorio…
La camera dei genitori è così vuota, oggi:
non c’è più il riflesso vermiglio sotto la porta;
non ci sono più i genitori, il focolare, le chiavi tolte:
e allora niente più baci, niente più dolci sorprese!
Oh! quanto sarà triste il Capodanno per loro!
- E, pensosi, mentre dai loro occhioni azzurri,
scende in silenzio una lacrima amara,
bisbigliano: “Ma quando tornerà la nostra mamma?”
V
Adesso, i piccoli sonnecchiano tristemente:
diresti, a vederli, che piangono dormendo,
tanto i loro occhi sono gonfi e il loro respiro penoso!
Tutti i bimbi piccoli hanno il cuore così sensibile!
- Ma l’angelo delle culle viene ad asciugare i loro occhi,
e in questo sonno opprimente mette un sogno gioioso,
un sogno così gioioso che le loro labbra socchiuse,
sorridenti, sembrano mormorare qualcosa…
Sognano che, chini sul loro braccino tondo,
dolce gesto del risveglio, alzano la fronte,
e il loro sguardo vago tutt’attorno si posa…
Si credono assopiti in un paradiso rosa…
Nel camino sfavillante canta lieto il fuoco…
Dalla finestra si vede laggiù un bel cielo azzurro;
La natura si sveglia e di raggi s’inebria…
La terra, discinta, felice di rivivere,
rabbrividisce di gioia sotto i baci del sole…
E nella vecchia casa tutto è tiepido e vermiglio:
i vestiti luttuosi non ricoprono più il pavimento,
il vento ghiaccio sotto il sole s’è fermato…
Sembra che una fata sia passata lì dentro!…
I bambini, tutti gioiosi, hanno urlato… Là
vicino al letto della mamma, sotto un bel raggio rosa,
là, sul gran tappeto, risplende qualcosa…
Sono dei medaglioni d’argento, neri e bianchi,
della madreperla e del gavazzo dai riflessi scintillanti;
delle piccole cornici nere, delle corone di vetro,
che hanno tre parole incise in oro: “A NOSTRA MADRE!”
. . .
SENSAZIONE
(Sensation)
Nelle estive sere blu, tra i sentieri io andrò,
pizzicato dal grano, a pestar l’erba minuta:
sognatore, sentirò il suo fresco ai miei piedi,
e lascerò che il vento bagni la mia testa nuda.
Io non parlerò, io non penserò a niente:
ma dentro me crescerà l’infinito amore,
e andrò lontano, molto lontano, vagabondo,
nella Natura, - fiorente come con una donna.
Marzo 1870
SOLE E CARNE
(Soleil et chair)
Il Sole, focolare di tenerezza e di vita,
versa l’amore ardente sulla terra rapita,
e, quando mi sdraio sulla valle, sento
che la terra è nubile e straripa di sangue;
che il suo immenso seno, sollevato da un’anima,
è dell’amore come Dio, della carne come la donna,
e che rinserra, gravido di linfa e di raggi,
il grande formicolio di tutti gli embrioni!
E tutto cresce, e tutto sale!
- O Venere, o Dea!
Io rimpiango il tempo dell’antica giovinezza,
dei satiri lascivi, dei fauni animali,
dèi che mordevano d’amore la scorza dei rami
e tra le ninfee baciavano la Ninfa bionda!
Io rimpiango il tempo in cui la linfa del mondo,
l’acqua del fiume, il sangue rosa degli alberi verdi
nelle vene di Pan mettevano un universo!
Dove il suolo palpitava, verde, sotto i suoi piedi caprini;
dove, baciando mollemente la chiara siringa, le sue labbra
modulavano sotto il cielo il grande inno dell’amore;
dove, ritto sulla pianura, sentiva intorno
rispondere al suo appello la Natura vivente;
dove gli alberi muti, cullando l’uccello che canta,
la terra cullando l’uomo, e tutto l’Oceano blu
e tutti gli animali amavano, amavano in Dio!
Io rimpiango il tempo della grande Cibele
che dicevano percorresse, gigantescamente bella,
su di un gran cocchio bronzeo, le splendide città;
i suoi seni versavano nelle immensità
il puro grondare della vita infinita.
L’Uomo succhiava, felice, la sua mammella benedetta,
come un bambino piccolo, giocando sulle sue ginocchia.
- Perché egli era forte, l’Uomo era casto e dolce.
Miseria! Ora lui dice: io so le cose,
e va, gli occhi sbarrati e le orecchie tappate.
- E allora, niente più dèi! niente più dèi! L’Uomo è Re,
l’Uomo è Dio! Ma l’Amore, ecco la gran Fede!
Oh! se l’uomo s’allattasse ancora alla tua mammella,
gran madre degli dèi e degli uomini, Cibele;
se non avesse lasciato l’immortale Astarte
che un tempo, emergendo nell’immenso chiarore
dei flutti blu, fiore di carne che l’onda profuma,
mostrò il suo ombelico rosa dove vide nevicare la schiuma,
e fece cantare, Dea dai grandi occhi neri trionfanti,
l’usignolo nei boschi e l’amore nei cuori!
II
Io credo in te! Io credo in te! Divina madre,
Afrodite marina! - Oh! la strada è funesta
Dopo che l’altro Dio ci attacca alla sua croce;
Carne, Marmo, Fiore, Venere, è in te che io credo!
- Sì, l’Uomo è triste e laido, triste sotto il cielo vasto,
porta i vestiti, perché non è più casto,
perché ha bruttato il suo busto fiero di dio,
e ha intristito, come un idolo nel fuoco,
il suo corpo olimpico in sporche servitù!
Sì, anche dopo la morte, nei pallidi scheletri
Lui vuol vivere, insultando la bellezza di prima!
E l’Idolo in cui mettesti tanta verginità,
dove divinizzasti la nostra argilla, la Donna,
perché l’Uomo potesse illuminare la sua povera anima
e salire lentamente, in un immenso amore,
dalla prigione terrestre alla bellezza del giorno,
la Donna non sa più essere nemmeno cortigiana!
- È una bella farsa! E il mondo sghignazza
al nome dolce e sacro della grande Venere!
III
Se tornassero i tempi, i tempi del passato!
Giacché l’Uomo è finito! L’Uomo ha svolto tutti i suoi ruoli!
In un gran giorno, stanco d’infrangere idoli
lui risusciterà, affrancato da tutti i suoi Dèi,
e, come lui appartiene al cielo, scruterà i cieli!
L’Ideale, il pensiero invincibile, eterno,
tutto; il dio che vive, sotto la sua argilla carnale,
salirà, salirà, brucerà sotto la sua fronte!
E quando lo vedrai sondare tutto l’orizzonte,
spregiatore di vecchi giochi, libero da ogni terrore,
tu verrai a donargli la santa Redenzione!
- Splendida, radiosa, nel grembo dei gran mari
tu sorgerai, spargendo sul vasto Universo
l’Amore infinito in un infinito sorriso!
Il Mondo vibrerà come un’immensa lira
nel brivido d’un immenso bacio!
Il Mondo ha sete d’amore: tu verrai a placarlo.
. . .
[oh! l’Uomo ha rialzato la sua testa libera e fiera!
E il raggio improvviso della prima bellezza
fa palpitare il dio nell’altare della carne!
Felice del bene presente, smunto del male sofferto,
l’Uomo vuole tutto sondare, - e sapere! Il Pensiero,
la giumenta a lungo, a lungo oppressa
si slancia dalla sua fronte! E saprà il Perché!…
Che balzi libera, e l’Uomo avrà la Fede!
- Perché l’azzurro muto e lo spazio insondabile?
Perché gli astri d’oro in brulichio come una sabbia?
Se si salisse sempre, che si vedrebbe lassù?
Un Pastore capeggia questo immenso gregge
di mondi in cammino nell’orrore dello spazio?
E tutti quei mondi, che l’etere vasto abbraccia,
vibrano agli accenti d’una voce eterna?
- E l’Uomo, può vedere? può dire: Io credo?
La voce del pensiero e più che un sogno?
Se l’uomo nasce così presto, se la vita è così breve,
da dove proviene? Affonda nell’Oceano profondo
dei Germi, dei Feti, degli Embrioni, in fondo
all’immenso Crogiuolo da cui la Madre Natura
lo risusciterà, vivente creatura,
per amare nella rosa e crescere nel grano?…
Noi non possiamo sapere! Noi siamo vinti
da un manto d’ignoranza e di grette chimere!
Scimmie d’uomini cadute dalla vulva materna,
la nostra pallida ragione ci occulta l’infinito!
Noi vogliamo guardare: - il Dubbio ci punisce!
Il dubbio, mesto uccello, ci colpisce con l’ala…
- E l’orizzonte fugge in una fuga eterna!…
. . .
Il gran cielo è aperto! i misteri sono morti
di fronte all’Uomo, in piedi, che incrocia le sue braccia forti
nell’immenso splendore della ricca natura!
Canta… e il bosco canta, e il fiume mormora
Un canto pieno di felicità che sale verso il giorno!…
- È la Redenzione! è l’amore! è l’amore!…]
. . .
IV
O splendore della carne! o splendore ideale!
o amore rinnovato, aurora trionfale
dove, piegando ai loro piedi gli Dèi e gli Eroi,
Callipigia la bianca e il piccolo Eros
sfioreranno, ricoperti di neve di rose,
le donne e i fiori in sboccio sotto i loro bei piedi!
- O grande Arianna, che versi le tue lacrime
sulla riva, vedendo fuggire laggiù sulle onde,
bianca nel sole, la vela di Teseo,
o dolce vergine bambina che una notte hai rotto,
taci tu! Sul suo carro d’oro adornato di neri grappoli,
Lisio, portato nei campi Frigi
Dalle tigri lascive e dalle fulve pantere,
lungo i fiumi azzurri arrossa il cupo muschio.
- Zeus, Toro, culla sul suo collo come un fanciullo
il corpo nudo d’Europa, che getta il suo bianco braccio
al collo nervoso del Dio che rabbrividisce nell’onda.
Lui volge lentamente verso lei il suo occhio vago;
lei, lascia la sua pallida guancia in fiore
sulla fronte di Zeus; i suoi occhi sono chiusi; lei muore
in un bacio divino, e il flutto che mormora
dalla sua schiuma d’oro fa fiorire la sua chioma.
- Tra l’oleandro e il loto ciarliero
scivola amorosamente il gran Cigno sognatore
abbracciando Leda nel candore della sua ala;
- e mentre Cipride passa, stranamente bella,
e inarcando le splendide rotondità delle sue reni,
sfoggia fieramente l’oro dei suoi larghi seni
e il suo ventre nevoso sfrangiato di muschio nero,
- Eracle, il Domatore, che, come d’una gloria
forte, cinge il suo gran corpo di pelle di leone,
avanza, fronte terribile e dolce, all’orizzonte!
Con la luna d’estate vagamente illuminata,
in piedi, nuda, e trasognata nel suo dorato pallore
che chiazza il peso fiotto dei suoi lunghi capelli blu,
nella radura oscura dove il muschio si rischiara,
la Driade mira il cielo silenzioso…
- La bianca Selene lascia penzolare il suo velo,
timorosa, sui piedi del bell’Endimione ,
e gli lancia un bacio in un pallido raggio…
- Lontano geme la Sorgente in un’estasi lunga…
È la Ninfa che sogna, un gomito sul suo vaso,
al bel giovane bianco che la sua onda ha stretto.
- Una brezza d’amore nella notte è passata,
e, nei boschi sacri, nell’orrore dei grandi alberi,
maestosamente eretti, i Marmi scuri,
gli Dèi, sulla cui fronte il Ciuffolotto fa il suo nido,
Gli Dèi ascoltano l’Uomo e il Mondo infinito!
29 aprile 1870
OFELIA
(Ophélie)
I
Sull’onda calma e nera dove dormono le stelle
la bianca Ofelia come un gran giglio fluttua,
fluttua molto lentamente, distesa nei suoi lunghi veli …
- Nei boschi lontani s’odono degli hallalì .
Sono mille anni e più che la triste Ofelia
scorre, bianco spettro, sul lungo fiume nero.
Sono mille anni e più che la follia sua dolce
mormora una romanza nella brezza della sera.
Il vento bacia i suoi seni e allarga in corolla
i suoi grandi veli mollemente ninnati dalle acque;
i salici in un brivido piangono sulla sua spalla,
si piegano le canne sul sogno della sua fronte ampia.
Le ninfee sgualcite attorno a lei sospirano;
lei talvolta desta, in un ontano che dorme,
un nido da cui spicca un piccolo fremito d’ali:
- un misterioso canto discende dagli astri d’oro.
II
O pallida Ofelia! bella come la neve!
sì, moristi fanciulla, da un fiume travolta!
è che i venti delle alte cime di Norvegia
t’avevano sussurrato dell’aspra libertà;
è che un soffio, torcendo la tua ampia chioma,
al tuo spirito sognante recava strani scrosci;
è che il tuo cuore ascoltava il canto della Natura
nel pianto degli alberi, nei sospiri delle notti;
è che la voce dei folli mari, in un rantolo immenso,
infrangeva il tuo seno virgineo, troppo umano e troppo dolce;
è che un mattino d’aprile, un bel cavaliere pallido,
un povero pazzo, si sedette muto alle tue ginocchia.
Cielo! Amore! Libertà! che sogno, o povera Folle!
tu ti scioglievi a lui come neve al fuoco:
le tue grandi visioni strozzavano la tua voce,
- e l’Infinito atterrì i tuoi occhi azzurri!
III
- E il Poeta dice che ai raggi delle stelle
tu vieni di notte a cercare i fiori che cogliesti,
dice che ha visto sull’acqua, nei suoi lunghi veli distesa,
la bianca Ofelia come un gran giglio fluttuare.
15 maggio 1870
IL BALLO DEGLI IMPICCATI
(Bal des pendus)
Alla forca nera, bel moncone,
ballano, ballano i paladini,
i secchi paladini del diavolone,
gli scheletri dei Saladini.
Messere Belzebù tira per la cravatta
i suoi fantocci neri che fan smorfie in cielo,
e, appioppandogli una ciabattata in faccia,
li fa ballare, ballare al suono d’una piva!
E i fantocci scossi incrociano i braccini:
come organi neri, i petti a traforo
che usavan tener strette le gentili damigelle,
si urtano a lungo in un orrido amore.
Urrà! i gai ballerini che non hanno più pancia!
Possono far capriole, così lunghi i trespoli!
Hop! non si sappia se c’è battaglia o danza!
Belzebù arrabbiato gratta i suoi violini!
O duri talloni, non usate mai i sandali!
Quasi tutti han lasciato la camicia di pelle;
il resto non imbarazza e si vede senza scandalo.
Sui crani, la neve piazza un bianco cappello:
Il corvo fa pennacchio su queste teste fesse,
un brandello di carne balla sul loro mento magro:
sembrano, in turbinio di fosche mischie,
dei prodi, rigidi, che cozzano con armi di cartone.
Urrà! Il vento fischia al gran ballo degli scheletri!
La forca nera mugghia come un organo di ferro!
I lupi le rispondono dalle foreste viola:
All’orizzonte il cielo è d’un rosso infernale...
Olà, scrollatemi questi funebri spacconi
che sgranano, sornioni, coi loro ditoni spezzati
un rosario d’amore sulle pallide vertebre:
non c’è un convento qui, trapassati!
Oh! ecco che in mezzo alla danza macabra
schizza nel cielo rosso un gran scheletro pazzo
portato dallo slancio, come un cavallo s’impenna :
e, sentendosi ancora la corda stretta al collo,
contrae i suoi ditini sul suo femore che crocchia
con delle grida simili a sghignazzate,
e, come un saltimbanco che rientra nella baracca,
rimbalza nel ballo al canto delle ossa.
Sulla forca nera, bel moncone,
ballano, ballano i paladini,
i secchi paladini del diavolone,
gli scheletri dei Saladini.
IL CASTIGO DI TARTUFO
(Le châtiment de Tartufe)
Attizzando, attizzando il suo amoroso cuore sotto
la sua casta veste nera, felice, la mano guantata,
un giorno che se ne andava, spaventosamente dolce,
gialla, sbavando la fede dalla sua bocca sdentata;
un giorno che se ne andava, “Oremus,” - un Cattivo
lo piglia rudemente per il suo benedetto orecchio
e lo ricopre di parole orribili, strappando
la casta veste nera dalla sua pelle umidiccia!
Castigo!… I suoi abiti son sbottonati,
e il lungo rosario di peccati rimessi
si sgrana nel suo cuore, San Tartufo sbiancò!…
Allora lui si confessava, pregava, con un rantolo!
L’uomo s’accontentò di prendergli il bavero…
- Puah! Tartufo era nudo dalla testa ai piedi!
IL FABBRO
Palazzo delle Tuileries, verso il 10 agosto ’92.
(Le forgeron
Palais des Tuileries, vers le 10 août 92.)
Il braccio su un maglio gigantesco, spaventevole
d’ebbrezza e di grandezza, la vasta fronte, ridente
come una tromba bronzea, a bocca aperta,
e afferrando quel grassone nel suo sguardo feroce,
il Fabbro parlava a Luigi Sedici, un giorno
in cui il Popolo era là attorcigliatosi attorno,
e trascinando i suoi sudici abiti sui rivestimenti d’oro.
Ora il re, ritto sulla sua pancia, impallidiva,
pallido come uno sconfitto che portano al patibolo,
e, mansueto come un cane, non indietreggiava,
ché questo fabbro briccone dalle spalle enormi
gli diceva parole stagionate e cose così strane,
che in fronte erano una scarica di pugni, così!
“Ora, tu ben sai, Monsieur, che cantavamo trallallà
e muovevamo i buoi verso i solchi altrui:
il Canonico al sole sfilava dei padrenostri
sui rosari splendenti graniti di pezzi d’oro.
Il Signore, a cavallo, passava, suonando il corno
e l’uno col capestro, l’altro con la frusta
ci scudisciavano. - Ebeti come quelli delle vacche,
i nostri occhi non piangevano più; e andavamo, andavamo,
e quando avevamo lasciato i solchi dappertutto,
quando noi avevamo lasciato in quella terra nera
un po’ di carne nostra… avevamo in cambio una mancia:
ci bruciavano le nostre catapecchie la notte;
e i nostri figli dentro diventavano torte ben cotte.
…“Oh! io non mi piango addosso. Ti dico le mie fesserie,
così, tra noi. Ammetto che tu non sia d’accordo.
Dì, non è bello, quando fa giugno, vedere,
entrare nei granai dei carri enormi pieni
di fieno? Sentire l’odore di ciò che cresce,
degli orti quando pioviscola, dell’erba rossastra?
Vedere tanto grano, le spighe piene di grano,
pensare che quel grano sarà del buon pane?…
Oh! più forti, andremo, alla fornace che brilla,
a cantare allegri martellando sull’incudine,
se fossimo certi di poter prendere un poco,
essendo uomini in fondo!, di ciò che Dio dona!
- Ma ecco, è sempre la stessa vecchia storia!
“Ma io lo so, adesso! Io non posso più concepire,
avendo due buone mani, la mia fronte e il mio martello,
che un uomo venga là, la daga sul mantello,
e mi dica: Ragazzo, semina la mia terra;
che venga ancora, quando questa sarà la guerra,
a prendermi il mio ragazzo, così, a casa mia!
- Ed io, io sarei un uomo, e tu, tu saresti un re,
e mi diresti: Io voglio!… - Ti accorgi che questa è una follia.
Tu credi che io ammiri la tua splendida baracca,
i tuoi ufficiali dorati, i tuoi mille mascalzoni,
i tuoi fottuti bastardi far la ruota come pavoni:
hanno riempito la tua tana dell’odore delle nostre figlie
e di denuncie scritte per cacciarci nelle Bastiglie,
e noi diremo: Ma bene: i poveracci in ginocchio!
Noi indoreremo il tuo Louvre con qualche nostro baiocco!
E tu ti sollazzeresti, faresti delle gran feste.
- E ’sti Signori si sbellicheranno, sulle nostre teste!
“No. ’Ste schifezze andavano ai tempi dei nostri papà!
Oh! Il Popolo non è più una puttana. Tre passi
E, ecco qua, la tua Bastiglia abbiamo polverizzato.
Quella bestia trasudava sangue da ogni pietra
ed era infamante la Bastiglia in piedi
coi suoi muri lebbrosi che spifferavano tutto
e ci rinchiudevano sempre nella loro ombra!
- Cittadino! Cittadino! era il passato tenebroso
che crollava, che rantolava, quando prendemmo il torrione!
Avevamo in petto qualcosa come l’amore.
Avevamo stretto sul petto i nostri figli in un abbraccio.
E, come cavalli, con le narici che sbuffano
andavamo nel sole, a fronte alta, - così, -
per Parigi! Si accorreva davanti ai nostri cenci sporchi.
Finalmente! Noi ci sentivamo Uomini! Eravamo smunti,
Sire, eravamo ubriachi di speranze tremende:
e quando fummo là, dinnanzi ai masti neri,
agitando le nostre trombe e le nostre foglie verdi,
picche alla mano; noi non avevamo astio,
- Noi ci sentivamo così forti, noi volevamo essere buoni!
. . .
. . .
“E dopo quella giornata, noi siamo come pazzi!
Gli operai in massa sono scesi nelle strade,
e quei maledetti se ne vanno, folla sempre estesa
di cupi spettri, alle porte dei ricchi.
Io corro con loro ad ammazzare gli spioni:
e io vado per Parigi, nero, martello sulla spalla,
feroce, a spazzar via a ogni angolo qualche sospetto,
e, se tu mi ridessi in faccia, ti farei secco!
Poi, puoi contarci, vuoterai la tua borsa
Con i tuoi uomini neri, che accolgono le nostre istanze
per farle rimpallare come su racchette
e, sottovoce, i furbi!, diranno: ‘Che razza di scemi!’
per cuocere delle leggi, incollare dei piccoli vasi
pieni di bei decreti rosa e di oppiacei,
divertirsi a rifilarci qualche apposita taglia,
per poi turarsi il naso quando gli passiamo vicino,
- Noi dolci rappresentanti che ci trovano lezzi! -
per non temere nulla, nulla, se non le baionette…,
benissimo. Al diavolo le loro tabacchiere ciarliere!
Ne abbiamo abbastanza , insomma, di quei cervelli piatti,
e di quei corpi-di-Dio. Ah! allora sono questi i piatti
che ci servi, borghese, quando noi siamo feroci,
quando noi abbiamo già spaccato gli scettri e le croci!…”
. . .
Lui lo prende per un braccio, arraffa il velluto
delle tende, e gli mostra là in basso il cortile
dove c’è un brulichio enorme, dove cresce la folla,
la folla spaventosa con i muggiti di un onda,
che urla come una cagna, urla come il mare,
coi suoi bastoni massicci e le sue picche ferrigne,
i suoi tamburi, i suoi berci da mercato e da bettola,
scuro mucchio di stracci sanguinante di berretti rossi:
l’Uomo, dalla finestra aperta, mostra tutto
al re pallido e sudante che barcolla tutto,
ammalatosi a guardare questo!
“È la canaglia,
Sire. Sbava sui muri, sale, germoglia:
- Poiché non mangiano, Sire, sono dei pezzenti!
Io sono un fabbro: mia moglie è con loro,
la pazza! Lei crede di trovare il pane alle Tuileries!
- Non ne vogliono sapere di noi nelle panetterie.
Io ho tre bambini. Io sono canaglia. - Io vedo
delle vecchie che piangono sotto le loro cuffie
perché gli han preso il ragazzo o la figlia.
È la canaglia. - Un uomo era alla Bastiglia,
un altro era in catene: ed entrambi, cittadini
onesti. Liberati, sono come cani randagi:
li offendono! Allora, hanno qualcosa dentro
che gli fa male, sta’ sicuro! È terribile, e per questo
che sentendosi a pezzi, che, sentendosi dannati,
sono là, adesso, a urlare sotto il vostro naso!
Canaglia. - Là dentro ci sono delle ragazze, infami
Perché, - lo sapete che le donne son fragili, -
Monsignori della corte, - la danno sempre via,-
voi gli avete sputato sull’anima, come niente!
Oggi, le belle sono lì. È la canaglia.
. . .
“Oh! tutti i disgraziati, tutte le schiene scottate
sotto il sole spietato, e che vanno e vanno,
che si sentono scoppiare la fronte in quel lavoro là…
Giù i cappelli, miei borghesi! Oh! quelli sono gli Uomini!
Noi siamo Operai, Sire! Operai! Noi siamo
per i tempi grandi e nuovi in cui vorremo sapere,
in cui l’Uomo dalla mattina alla sera inventerà,
in caccia di grandi effetti, in caccia di grandi cause,
in cui, con calma vincitore, dominerà le cose
e salirà su Tutto, come su un cavallo!
Oh, splendidi chiarori delle fucine! Più lavoro,
sempre più! - Ciò che non si sa forse è terribile:
noi sapremo! - I nostri martelli in pugno, passiamo al vaglio
tutto ciò che sappiamo: poi, Fratelli, avanti!
Noi facciamo a volte questo grande sogno commovente
Di vivere semplicemente, con ardore, senza dire niente
di malvagio, lavorando sotto l’augusto sorriso
d’una donna che amiamo con un amore nobile:
e lavoreremmo con fierezza per tutto il giorno,
ascoltando il dovere come una tromba che squilla:
e ci sentiremmo allora felicissimi; e nessuno,
oh! nessuno, soprattutto, ci farebbe piegare!
E avremmo un fucile sopra il focolare…
. . .
[“Oh! ma l’aria è tutta piena di un odor di battaglia.
Che ti dicevo dunque? Io sono della canaglia!
Restano ancora spioni e accaparratori.
Noi siamo liberi, noi! Noi abbiamo terrori
Che ci fan sentir grandi, oh!, così grandi! Or ora
parlavo di un dovere calmo, di una dimora…
Guarda dunque il cielo! - Io rientro tra la folla,
tra la grande canaglia orribile, che tira,
Sire, i tuoi vecchi cannoni sulle luride strade:
- Oh! quando saremo morti, noi le avremo lavate!
- E se, contro il nostro urlo, contro la nostra vendetta,
le zampe dei vecchi re indorati, sulla Francia
spingono i loro reggimenti in abiti di gala,
ebbene, a voi tutti: merda a quei cani là!”
. . .
Riprese il suo martello sulla spalla.
La folla
Vicino a quell’uomo si sentiva l’anima ebbra,
e, nel gran cortile, negli appartamenti,
dove Parigi ansimava con strepitio,
un brivido scorse sull’immensa plebaglia.
Allora, con la sua mano enorme, superbe e lercia,
benché il re panciuto grondasse sudore, il Fabbro,
terribile, gli gettò il berretto rosso in faccia!]
I MORTI DEL NOVANTADUE
“…Francesi del settanta,
bonapartisti, repubblicani,
rammentatevi dei vostri padri nel ’92,
. . . . . . . . . . . . . .
Paul de Cassagnac.
Il Paese.
(Morts de Quatre-vingt-douze
“…Français de soixante-dix,
bonapartistes, républicains,
souvenez-vous de vos pères en 92, etc…
. . . . . . . . . . . . . .
Paul de Cassagnac.
Le Pays.)
Morti del Novantadue e del Novantatré,
che, pallidi al forte bacio della libertà,
placidi, coi vostri zoccoli spezzaste il giogo che pesa
sull’anima e sulla fronte dell’intera umanità;
Uomini estasiati e grandi nella tormenta,
voi dai cuori che battevano d’amore sotto gli stracci,
o Soldati che la Morte ha seminato, nobile Amante,
per rigenerarli, dentro tutti i vecchi solchi ;
voi dal sangue che lavava tutta la grandezza insozzata,
Morti di Valmy, Morti di Fleurus, Morti d’Italia,
o milioni di Cristi dagli occhi cupi e dolci;
Noi vi lasciavamo dormire con la Repubblica,
noi, curvi sotto i re come sotto i randelli.
- E i Signori de Cassagnac ci riparlano di voi!
Composto a Mazas, 3 settembre 1870.
ALLA MUSICA
Piazza della Stazione, a Charleville.
(À la musique
Place de la Gare, à Charleville.)
Sulla piazza divisa in misere aiuole,
dove ogni cosa è composta, gli alberi e i fiori,
tutti i bolsi borghesi strozzati dall’afa
apportano, i giovedì sera, le loro gelose scemenze.
- L’orchestra militare, in mezzo al giardino,
dondola i suoi schakò nel Valzer dei pifferi :
- Intorno, nelle prime righe, il ragazzetto sfila;
il notaio pende dai suoi gingilli cifrati.
I possidenti con occhialetti sottolineano ogni stecca:
i burocrati gonfi si portan dietro le corpulenti mogli
accanto a loro vanno, ufficiosi cornac ,
quelle con i volantini che sembrano reclami;
sulle panchine verdi, gruppi di droghieri in pensione
che attizzano la ghiaia con i loro bastoncini,
discutendo serissimamente i contratti,
poi uno sniffo di tabacco, e riprendono: “Insomma!…”
Allungando sulla panchina i suoi fianchi rotondi,
un borghese coi bottoni lustri e il buzzo fiammingo,
si gusta la sua pipa preziosa da cui il tabacco a fili
trabocca - sa, è preso a contrabbando; -
lungo le verdi aiuole sghignazzano i ragazzacci;
e, in brodo di giuggiole per il canto dei tromboni,
gli ingenuotti soldatini, fumando le rose,
carezzano i bebè per abbindolare le bambinaie…
Io, seguo, sbracato come fossi uno studente,
le ragazze allegre sotto i castani verdi:
lo sanno bene; e voltano ridendo,
verso me, i loro occhi pieni di indiscrezione.
Io non faccio motto: guardo sempre
la carne dei loro bianchi colli cinti da riccioli folli:
io seguo, sotto il corsetto e i lievi orpelli,
il dorso divino sotto la curva delle spalle.
Io scovo subito lo stivaletto, la calza…
- Ricostruisco il corpo, scottato da belle febbri.
Loro mi trovano strano e si parlano a voce bassa…
- E io sento i baci che mi giungono alle labbra…
VENERE ANADIOMENE
(Venus Anadyomène)
Come da una verde bara in latta, una testina
di donna dai capelli bruni intrisi di pomate
da una vecchia tinozza emerge, lenta e cretina,
con deformità davvero mal abborracciate;
poi il collo grasso e grigio, le scapole larghe
che spiccano; il dorso corto che rientra e risalta;
poi le tonde reni sembrano prendere il volo;
il grasso sotto la pelle pare a lamine piatte;
la schiena è un po’ rossa, e il tutto emana un sapore
stranamente orribile; si notano soprattutto
delle singolarità che vanno viste con la lente…
Le reni portano due gravi parole: Clara Venus;
- E tutto ’sto corpo si dimena e tende il suo groppone
Schifosamente bella per un’ulcera anale.
27 luglio 1870.
PRIMA SERATA
(Première soirée)
- Lei era assai svestita
e i grandi alberi indiscreti
buttavano sui vetri il loro fogliame
maliziosamente, vicino, vicino.
Seduta sulla mia grande sedia,
seminuda, incrociava le mani.
Sul pavimento rabbrividivano senza disagio
i suoi piedini minuti, minuti.
- Io guardavo, color della cera,
un piccolo raggio fuggiasco
svolazzare sul suo sorriso
e sui suoi seni, - mosca sul rosaio.
- Io baciavo le sue caviglie fini.
Lei un dolce riso brutale
che s’allungava in trilli luminosi,
un riso amabile di cristallo.
I piedini sotto la camicia
Trovarono scampo: “La fai finita!”
- La prima audacia concessa,
il riso fingeva di punire!
- Sommessi palpitanti sul mio labbro,
io baciavo i suoi occhi dolcemente:
- lei ritirò la sua testolina
indietro: “Oh! è meglio ancora!…
signorino, ho due parole da dirti…”
- il resto io glielo gettai sul seno
con un bacio, che la fece ridere
di un riso quieto, compiacente…
- Lei era assai svestita
e i grandi alberi indiscreti
buttavano sui vetri il loro fogliame
maliziosamente, vicino, vicino.
LE RISPOSTE DI NINA
(Les reparties de Nina)
. . .
LUI. Il tuo petto sul mio,
eh? ce ne andremo,
respirando tutta l’aria
nel fresco dei raggi.
Del bel mattino azzurro, che bagna
nel vino del giorno?…
Quando il bosco in brividi goccia
muto d’amore
da ogni ramo, verdi stille,
le gemme chiare,
senti, nelle cose aperte
fremere le carni:
tu immergerai nell’erba medica
la tua vestaglia bianca,
nell’aria roseo questo blu che cerchia
l’occhio tuo grande e nero,
innamorata della campagna,
seminando ovunque,
come una mousse di champagne,
il tuo riso matto:
ridendo di me, brutale nell’ebbrezza,
che ti prenderò
così, - la bella treccia,
oh! - che berrò
il tuo gusto di fragola e lampone,
o carne in fiore!
Ridente al vento vivo che ti bacia
come un predone,
alla rosa canina che ti stuzzica
amabilmente:
ridente soprattutto, o pazzerella,
del tuo amante!…
. . .
[Diciassette anni! Sarai gioiosa!
Oh! i prati immensi,
la vasta campagna amorosa!
- Dai, vieni più vicino!…]
- Il tuo petto sul mio,
mischiate le voci,
lenti, raggiungeremo il burrone,
poi le foreste!…
Poi, come una piccola morta,
il cuore svenuto,
tu mi dirai di portarti
con l’occhio socchiuso…
Io ti porterò, palpitante,
nel sentiero:
l’uccello fischierà il suo andante:
Au Noisetier…
Io ti parlerò nella tua bocca;
andrò, stringendo
il tuo corpo, di fanciulla sopita,
ebbro di sangue
che scorre, blu, sotto la tua pelle bianca
dai toni rosati:
e parlandoti la lingua franca…
Guarda!… - tu lo sai…
Le nostre foreste sentiranno la linfa,
e il sole
saprà d’oro zecchino nel loro gran sogno
verde e vermiglio.
. . .
La sera?… Riprenderemo la strada
bianca che percorre
svagata, come un gregge che bruca,
tutto all’intorno
i bei frutteti dall’erba celeste,
dai meli torti!
Sentire tutto in unione
i loro profumi forti!
Noi torneremo al villaggio
col cielo che s’oscura;
si sentirà odore di caglio
nell’aria della sera;
si sentirà odore di stalla, piena
di caldi letami,
piena d’un lento ritmo di aliti,
e di grandi dorsi
che biancheggiano sotto una lucerna;
e, proprio laggiù,
una mucca evacuerà, fiera,
ad ogni passo…
- Gli occhiali della nonna
e il suo lungo naso
nel messale; il boccale di birra
cerchiato di piombo,
spumeggiante tra le grandi pipe
che, spavaldamente,
fumano: i labbroni spaventosi
che, fumanti ancora,
azzannano il prosciutto con le forchette
a più non posso:
il fuoco che rischiara le cuccette
e le cassapanche.
Le chiappe lustre e grasse
d’un gran bimbone
che fruga, in ginocchio, nelle tazze
col suo bianco faccione
sfiorato da un muso che gronda
un tono grazioso
e slingua la faccia rotonda
del caro moccioso…
[Nera, fiera sul bordo della sedia,
dall’orrendo profilo,
una vecchia, davanti al camino,
che fa il filo;]
Che cose vedremo, cara,
in queste stamberghe,
quando la fiamma illumina, chiara,
le grigie finestre!…
- Poi, piccolo e tutto rannicchiato
tra i lillà
neri e freschi: un vetro celato
che ride là…
Tu verrai, tu verrai, io t’amo!
Sarà bello.
Tu verrai, nevvero, e persino…
LEI. - E il mio ufficio?
15 agosto 1870
GLI SGOMENTI
(Les effarés)
Neri nella neve e nella nebbia,
al grande spiraglio che s’accende,
i culetti in tondo,
in ginocchio, cinque bimbi - miseri! -
guardano il fornaio che fa
il pane greve e biondo.
Vedono il braccio forte e bianco che gira
la pasta grigia e che la inforna
in un buco chiaro.
Ascoltano il buon pane cuocere.
Il Fornaio dal sorriso grasso
canticchia una vecchia aria.
Sono rannicchiati, nessuno si muove,
nel soffio dello spiraglio rosso
caldo come un seno.
Quando per una cena di mezzanotte,
fatto a forma di broscia
si toglie il pane,
quando, sotto le travi affumicate,
cantano le croste profumate
insieme ai grilli,
che questo caldo buco soffia la vita,
hanno la loro anima così rapita
sotto i loro cenci,
si sentono vivere così bene,
i poveri Gesú pieni di brina,
che sono tutti lì,
incollando i loro musetti rosa
alla griglia, grugnendo qualcosa
attraverso i buchi,
inebetiti, dicendo le loro preghiere
e chini verso quelle luci
del cielo riaperto,
così forte, che si strappano le brache
e la camicia tremola
al vento d’inverno.
ROMANZO
(Roman)
I
Non si è molto seri a diciassette anni.
- Una bella sera, stufo di birre e di limonate,
di caffè chiassosi dalle luci scintillanti!
- Si va tra i tigli verdi della passeggiata.
I tigli sanno di buono nelle belle sere di giugno!
L’aria è talvolta così dolce, che lo sguardo s’arresta;
il vento carico di suoni, - la città non è lontana, -
ha profumi di vigna e profumi di birra…
II
- Ecco che intravedi uno straccetto
d’azzurro cupo, incorniciato da un rametto,
punto da una cattiva stella, che si fonde
con dei dolci brividi, piccola e tutta bianca…
Notte di giugno! Diciassette anni! - Ci si lascia inebriare.
La linfa è champagne e vi va alla testa…
Si divaga; si sente un bacio sulle labbra
Che là palpita, come una piccola bestia…
III
Il cuore pazzo Robinson attraverso i romanzi,
- Fino a che, nel chiarore di un pallido riverbero,
passa una signorina dai vezzi affascinanti,
sotto l’ombra del colletto terribile di suo padre…
IV
Tu sei innamorato. Cotto fino ad agosto.
Tu sei innamorato. - I tuoi sonetti la fanno ridere.
Tutti i tuoi amici se ne vanno, tu non hai buon gusto.
- Poi, l’adorata, una sera, s’è degnata di scriverti!…
- Quella sera,… - tu torni nei caffè chiassosi,
tu ordini delle birre o della limonata…
Non si è molto seri a diciassette anni.
E con i verdi tigli della passeggiata.
IL MALE
(Le mal)
Mentre gli scaracchi rossi della mitraglia
sibilano tutto il giorno nell’infinito del cielo blu;
quando scarlatti o verdi, accanto al Re che l’irride,
i battaglioni crollano in massa sotto il fuoco;
mentre una follia spaventosa, maciulla
e fa di centomila uomini una catasta fumante;
- Poveri morti! In estate, nell’erba, nella tua gioia,
natura! tu che santa creasti questi uomini!… -
- C’è un Dio, che ride ai corporali damascati
degli altari, all’incenso, ai grandi calici d’oro;
che nel cullare degli osanna s’addormenta,
e si risveglia, quando le madri, raccolte
nell’angoscia, e gementi sotto le vecchie cuffie nere,
gli offrono un soldone legato nei loro fazzoletti!
IRE CESAREE
(Rages de Césars)
L’uomo pallido, lungo le aiuole fiorite,
cammina, vestito di nero, e il sigaro tra i denti:
l’uomo pallido ripensa ai fiori delle Tuileries
- E talvolta il suo occhio smorto ha sguardi ardenti…
Giacché l’Imperatore è sazio dei suoi vent’anni d’orgia!
Si diceva: “Io soffierò sulla Libertà
con delicatezza, come fosse una candela!”
La libertà rivive! Lui si sente sfinito!
È prigioniero.
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