Poesie
POESIE
DI
GIOSUE CARDUCCI
MDCCCL - MCM


JUVENILIA(1850-1860)
Nec tantum ingenio quantum servire dolori
Cogor et aetatis tempora dura queri.
Hic mihi conteritur vitae modus, haec mea fama est:
Hinc capio nomen carminis ire mei
I.
PROLOGO
Ah per te [1] Orazio prèdica al vento!
Del patrio carcere non sei contento,
La chiave abomini grata a i pudichi,
Agogni a l’aere de’ luoghi aprichi.
E dove, o misero, dove n’andrai.
Dove un ricovero trovar potrai,
O de’ miei giovini lustri diletto,
O mio carissimo tenue libretto?
Non sai fastidio ch’ha de le rime
Questa de gli arcadi prole sublime?
Né de’ romantici ti vuol la fiera
Che siede a i salici libera schiera.
Tu, se tra’ lirici pur tenti il volo,
Poco, o mio tenero, t’ergi dal suolo;
Ed oggi innalzasi per nova via
Fin da’ suoi numeri l’economia,
Né omai piú reggono piedi né ale
Dietro la lirica universale.
Oggi ciclopica s’è fatta l’arte;
E Bronte e Sterope su per le carte
Con vene tumide, con occhi accesi
E con gli erculei muscoli tesi
A prova picchiano: Venere guata,
E gli rimescola la limonata:
Mentre il monocolo pastore etnese,
Succiando il femore d’un itacese,
Con urli orribili divelle un pino
E a le nereidi fa il mazzolino.
Deh, quanti, o misero, d’ispirazioni
Litri raccogliere puoi ne’ polmoni,
Quanti chilometri de l’infinito
Puoi tu percorrere con passo ardito,
Quanti ravvolgerti chili d’affetto
Giú ne lo stomaco puoi tu, libretto,
Da uscire a gloria tra le persone,
Senza pericolo d’indigestione?
Te con le tenui miche d’Orazio
Crebbe la pallida musa del Lazio,
A te quell’aere parve bastante
Che respirarono l’Ariosto e Dante:
Chiede il novissimo stadio altre bighe:
Libro, rincàsati, cansa le brighe.
Vedi? minacciano Cariddi e Scilla:
Ti preme Davide con la Sibilla.
1 Al libro [1866].
D’amor tu chiacchieri, e questo va:
Ma non santifichi la voluttà,
Non metti a Venere lo scapolare,
Non fai gli adulteri sermoneggiare:
Onde, o me misero!, flebili e tristi
Già t’interdissero gli atei salmisti,
E il buon Petronio predicatore [2]
Che a sé convertami pregò il signore.
Vinca ei di Taide le ritrosie
Con un trar mistico d’avemarie,
E de la cantica nel pio latino
Le infiori i dialoghi de l’Aretino.
Al limpidissimo suon de l’argento
Dietro un davidico cento per cento
Alfio [3] gli sdruccioli deduca, e macro
Consoli il prossimo d’un inno sacro.
Per me invan prèdica ballonza e canta
Ebra l’Arcadia pur d’acqua santa,
Il sacro quindici refulse in vano
Per me: son reprobo piú di Claudiano,
E de’ Timotei e de’ Basilii
Provai già i moniti e i supercilii.
Ma quel Timoteo che a gli anni andati
In chiesa l’organo sonava a i frati,
E di serafica broda satollo
Al pan de gli angeli rizzava il collo,
Cantando monache e Filomene
Pien di libidine tetra le vene;
E quel Basilio biondo e ventenne
Che al sacro fulmine tingea le penne
Ne l’aromatico miel del Loiola,
Al sacro fulmine de la parola
Che da l’iberiche fiamme già mosse
E ne gli eretici sterpi percosse;
Oggi levatisi di ginocchione
Anche rinnegano la dea Ragione,
E sempre al solito mo’ tolleranti
Già già si cavano rugghiando i guanti,
Pronti a pur arderti, libretto mio,
Se in un avverbio c’entrasse dio.
Me al men, filosofi, non arderanno,
Come, teologi, volean l’altr’anno.
Ma chi, mal docile talpa infingarda,
Chi dal neofito furor mi guarda?
Quali su i ruderi de le memorie
Di laide maschere corsi e baldorie!
E sempre piangere plebe affamata,
E sempre ridere plebe indorata,
2 Petronio è quel del Satyricon divenuto dopo il 1815 scrittore di romanzetti mistici e d’omelie erotiche.
3 Alfio è l’usuraio del II degli Epodi: al tempo di Orazio faceva idilli campestri, dal 1815 al ‘59 compose di molti inni sacri in settenari e in isciolti: oggigiorno credo faccia anche delle poesie sociali.
E basir tisica sotto le biche
La impronta logica de le formiche,
E de le favole, baie del nonno,
Schifi già i bamboli cascar di sonno
Io veggo; e torpido nel gran lavoro
Non canto e prèdico l’età de l’oro.
Chi dunque, indocile talpa infingarda,
Chi dal neofito furor mi guarda?
Gl’innocentissimi Nando e Poldino,
Che già l’immerito sermon latino
Stroppiaro in distici per nozze auguste,
Oggi rosseggiano come aliguste;
E l’eucaristico inno a Pio nono
Con lezion varia lusinga il trono
Di re Vittorio, da poi che aprile [4]
A qualche anonimo spirto civile
Squagliò la gelida crosta, e, spavento!,
Il prete attonito, nel sacramento
Lavando al pargolo le nuove chiome,
Sentiva d’Italo bociarsi il nome.
O infelicissimo libro, o sfatato,
O in man purissime mal capitato!
Crollando il rigido frigio berretto
Fatto su ’l modulo che diè il prefetto,
Ei con iscandalo ti buttan là,
Come retrograda suipsità.
Rízzati e vàttene, ché il galateo
Non è neofito. Ma, se ad un reo
Fucci filologo fia che t’abbatta
Rimpiallacciatosi da Guccio Imbratta,
Che vomitarono le sagrestie
De’ galantuomini su per le vie,
Che ne le tuniche di pergamena
Tra la medicea ferrea catena
Tremano i codici quand’ei li guata
E dal liburnio remo invocata
La man lor applica, se a te vicino
Ei sbiechi il livido occhio porcino,
— Deh, Fucci, — gridagli — mercede imploro;
Non vesto, vedimi, d’argento e d’oro,
Non son de gli ordini privilegiati
Vuoi de’ rarissimi vuoi de’ citati,
Non ne i cataloghi cercato appaio,
Non c’è da vendermi che al salumaio.
A queste pagine di poco affare
Le man dottissime non abbassare. —
Oh, s’ei la granfia distenda a vuoto,
Appicca, o povero libro, il tuo vóto:
Ché a grandi e piccoli ei non perdona;
4 Le altre figure, o figuri, sono studi ideali dal vero, per cosí dire, della società toscana poco avanti e poco dopo il 27
aprile 1859, cui si allude al v. 107.
Ogni, anche minima, preda gli è buona.
Chiese, postriboli, caffè, spedali
Le sue sentirono unghie fatali,
Da quando ei l’abile man giovinetta
Da l’elemosine ne la cassetta
Imberbe chierico con occhio pio
Erudìa, l’obolo rubando a Dio,
E i doni a l’umile Vergine apposti
Per lui fumavano fusi in arrosti.
D’altro non dubito: se bene ancora
Lui la chiarissima viltade adora,
Trason ridicolo che incarna e avanza
L’idea platonica de l’ignoranza,
Forte co’ deboli, debol co’ i forti,
Prode a trafiggere gli uomini morti,
Prode a nascondersi, ferendo il tergo,
Di birri e ipocriti sotto l’usbergo,
Tal ch’io non credomi maggior ribaldo
Redasse l’anima del Maramaldo.
Fuggi, o mio povero libro da bene,
Il ceffo orribile, le mani oscene,
L’invidia rabida d’ogni opra buona
Che tutta gli agita la rea persona.
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