Putre fluisce, e ne le sue sorgive

Livida già la vita: da le prime

Cune l’inerzia noi caduche opprime

Genti mal vive.

Quando virtude con fuggente piuma

Sprezza la terra e chiede altro sentiero,

L’ardor del buono e lo splendor del vero

Rado s’alluma,

Languido il cor gli spirti suoi piú belli

Ammorza e stagna torbida la mente,

Speme si vela e disdegnosamente

Guarda a gli avelli.

O padri antichi, a’ vostri petti degno

Culto eran patria e libertà; verace

Vita agitava l’anima capace

E il forte ingegno.

Pii documenti di civil costume,

Opre gentili, e amore intellettivo

Del buon del vero del decente, e vivo

D’esempi lume

Vedeano i figli ne la sacra etate

De’ genitori e ne’ pudichi lari;

E sobri uscieno cittadini cari

Ne la cittate.

Crescean nel lieto strepito frequente

De le officine, gioventú severa,

Forte le membra, indomita ed intera

L’alma e la mente.

Durar nel ferro il giovin corpo altiero,

Vegliar le notti gelide, ed immoti

Prostrare a morte libera devoti

Marte straniero,

Fûr loro studi. Poi con man trattando,

Con trïonfale mano, e lane e sete,

Appesi a la domestica parete

L’asta ed il brando,

A le pie mogli dissero le dure

Fortune de le pugne, ulte le offese

Ne le barbare torme al pian distese,

E le paure

De le regie consorti e gli anelanti

Sogni su ’l fato del signor. Pietose

De i dolori non suoi piangean le spose

Memori pianti.

Ma il figliuoletto, le domate squadre

Seco pensando ed il clamor di guerra,

Con occhio ingordo riguardò da terra

L’armi del padre;

E crebbe fero giovinetto, spene

Cara a la patria e forza di sua gente.

Bello di gioventù, d’armi lucente,

Ei viene, ei viene.

Suonano i campi sotto il gran cavallo

Che altero agita in corso onda di chiome:

Fuggon le schiere e pavide il suo nome

Gridan nel vallo.

Chi fia che tenti quel novel lione?

Morte de la sua vista esce e paura.

Ei passa, e pianta su le vinte mura

Il gonfalone.

Or tòsco a i figli è il prepotente canto

E il docil guizzo de’ seguaci moti

Onde vergogna passerà a i nepoti

D’Ellsler il vanto.

Vile ed infame chi annebbiò il pudico

Fior de’ tuoi sensi ne’ frementi balli,

O giovinetta, e stimolò de’ falli

Il germe antico!

E maledetta la procace nota

Ch’alto ti scuote il bel virgineo petto

E che nel foco del segreto affetto

Tinge la gota!

Gioite, o padri; e a l’alma ed a la mente

Galliche fole di peccar mezzane

Ésca porgete. Da le carte insane

Surga sapiente,

Surga e proceda l’erudita e bella

Vostra Lucrezia a gl’itali mariti,

Pura accrescendo a i sacri rami aviti

Fronda novella.

Ma non di tal vasello uscìa l’antico

Guerrier, che, a sciolte redini, feroce,

Premea de l’asta infensa e de la voce

Te, Federico.

O di cor peregrina e di favella

E di vesti e di vizi, o in odio a’ numi

E a gli avi ed a la patria, or che presumi,

Stirpe rubella?

Sgombra di te la sacra terra; o in fondo

Putrida giaci dal tuo morbo sfatta,

E i vanti posa e la superbia matta,

Favola al mondo.

Oh, poi ch’avverso è il fato ed a noi giova

L’oblio perenne e i gravi pesi e l’onte,

Rompa su d’oltre mare e d’oltre monte

Barbarie nova!

Frughin de gli avi ne le tombe sante

Con le spade ne’ figli insanguinate,

E calpestin le sacre al vento date

Ossa di Dante!

LXIII.

A ENRICO PAZZI

QUANDO SCOLPIVA IL BUSTO DI VITTORIO ALFIERI

E ALTRI D’ALTRI ILLUSTRI UOMINI

Perché sdegno di fati

E l’ozio reo che nostre voglie ha piene

Vie piú ti prema, italo sangue, in basso,

Né tu ti volga o guati,

Peregrin tardo e vuoto d’ogni spene,

A le glorie che son sovra il tuo passo;

Non è senza gl’iddii se teco in basso

Luogo ancor non ruina

Ogni antica virtú: ché in te sormonta

Viltade sì ch’ogni speranza è gioco.

Oh, se pur sotto a’ gravi pesi e a l’onta

Sfavilla ancor di quel leggiadro foco

Che tutta corse un dí terra latina,

Vostra mercé, petti gentili, dove

Or fa nostro valor l’ultime prove.

E te a la bella schiera

Il fortissimo amor fece consorte

Che oprando hai mostro per sí nove guise.

Deh chi potea la fiera

E grande imago vendicar da morte,

Di noi da ignavia rea menti conquise?

Te, certo, te l’ombra divina arrise;

Sì ch’eguale al subietto

Tua virtú si levò. D’amor, d’iroso

Amor vampò su l’alta impresa il core.

Come cred’io che al ciglio lacrimoso

E a l’occhio ardente ed a l’ansar del petto

Si paresse il magnanimo furore!

Ché nulla, o prode, è di tua man la bella

Lode verso il pensier che in te favella.

O caro, a cui possente

Spirò pietà di questa madre antica

E a l’opra degna carità suase!

Vedi la nova gente

Come a’ parenti suoi fatta è nemica

E deserta di sua luce rimase.

Rea servitú gli antichi spirti rase

Da’ cor difformi; e omai

A noi disnaturar fatti siam pronti,

Come turbo d’usanza avvien che spiri.

Ahi scesa giú de’ mal vietati monti

Pèste diversa che le menti aggiri;

Per te vita n’è spenta. E nostri guai

Cresce la vana gioventú superba

Che tutti i frutti suoi consuma in erba.

Alto è d’amor consiglio

Ritornare al primier rito civile

Quel che di tanta gloria oggi ci avanza,

Sí che dal turpe esiglio

Ripigli l’arte il suo cammin, gentile

Confortatrice a l’itala speranza.