[21]
A riportar nel vero
Imagine cotanta, egli la vita
Che per lo mar de l’essere si volve
Cercò; d’entro la polve
E dal suon del passato il bene e il male
Trasse, vate fatale: e la sua voce
Come voce di Dio da’ sette colli
Tuonò su ’l mondo, e tutti a sé d’intorno
I secoli evocò. Giudice e donno
In lor suo sguardo mise;
Ammirò e pianse, disdegnò e sorrise:
Poi li schierava ne l’eterno canto,
21 Questo stava bene dirlo nel 1854; ma che Dante pensasse all’unità d’Italia, oggi, studiati un po’ meglio i tempi l’uomo e il poema, non lo direi piú né pure in un ditirambo. Le son novelle che oramai bisogna lasciarle a quei che sudano a lusingare il veltro.
Piacendo pure a sé di poter tanto.
Ma questa umile aiuola
Ove si piange e s’odia,
E questo eterno inganno, e questa vana
Ombra ch’ha nome vita ed è sì bassa,
T’era in dispetto. Poi che il sacro verso
A tutto l’universo
Descrisse fondo, e il buon sofo gentile
Te mise dentro a le secrete cose,
Veder volesti come l’angel vede
Colà dove non è di nebbia velo,
Amar volesti come s’ama in cielo.
Su per le vie d’amore
Quest’umil creatura
Risospingendo innanzi al creatore,
Quetar volesti in quell’eterno vero
Che il grande amor ti dette e il gran pensiero.
Cesse Virgilio a tanto;
E tu, deserto e solo
Spirito uman, per entro il gran desio
Sommerso vaneggiavi, e dubitando
Tu disperavi: quando
Su l’angeliche penne
Al tuo dolor sovvenne
Quella ch’è amore e visïone e luce
Tra l’intelletto e ’l vero:
Nomarla a me lingua mortal non lice;
Tu la dicesti, amando, Beatrice.
Cosí di sfera in sfera,
Tutto era melodia quello che udivi,
Tutto quel che vedevi era una luce,
E tutti quanti erano amore i sensi,
E lo spirto ed il verso un’armonia
Simile a quella che là su s’indìa.
Deh, qual parveti allora
Quest’umil patria e qual de le partite
Città la lite (ahi come quella eterna
Che sempre trista fa la valle inferna!),
Quando novellamente
Di ciel disceso ne portavi il canto
Supremo, e tutto avevi il nume in fronte,
Come l’antico che scendea dal monte?
Innanzi a te, splendente
Pur anche nel fulgor del regno santo,
Balenò di vermiglia
Luce il campo feral di Montaperto,
E pe ’l tristo deserto
De le crete maligne
Un fioco suon correa
Come sospir di battaglier morenti;
Cui lontan rispondea
Con un rumor di molto pianto umano
Di Campaldino il maledetto piano.
E tu dal mar toscano,
Rea Meloria, sorgesti;
E la gloria dicesti
De le nefande stragi, e da la nostra
Rabbia infamati i sassi ermi al Tirreno,
E ’l grande equoreo seno
Incestato di sangue, e tristo il bello
Ligure lito di pisani esigli,
E nati solo al fratricidio i figli.
… … … … … … … … … … . .
LXI.
BEATRICE
La luminosa testa
Dritta al ciel sorridea,
E il collo si volgea — roseo fulgente.
La fronte splendïente,
Alta, serena, bella,
E la rosa novella — del suo viso
E il freschissimo riso
Di pura giovinezza
Mi svegliaron dolcezza — nova in cuore.
Ma di soave orrore
Tutto mi sbigottiva
De la persona diva — il portamento.
Ondeggiava co ’l vento
A l’aere mattutina
La vesta cilestrina — e il bianco velo.
Cosí donna dal cielo
Mi passava d’avanti
Angelica in sembianti — e tutta accesa.
La mente mia sospesa
Pur a lei riguardava,
E l’alma quïetava — sospirando.
Poi dissi: == Or come, or quando
Fu la terra sí degna
Che tal d’amore insegna — in lei si posi?
Che padri avventurosi
Al secol ti donaro?
Che tempi di portaro — cosí bella?
Qual piú serena stella
Prima forma t’accolse?
Qual divo amor t’avvolse — del suo lume?
Ben fia l’uman costume
Volto a segno felice
Se di te beatrice — si ricrea. ==
== Non donna, io sono idea
Che a l’uomo il ciel propose
Quando de l’alte cose — ardean gli studi,
E i cuor non anche nudi
Di lor potenza ignita
Combattean con la vita — aspra e co ’l vero,
E al valido pensiero
E a la balda speranza
Diêr l’armi di costanza — amor e fede.
Allor d’aerea sede
Tra quei gagliardi io venni,
Ed accesi e sostenni — le tenzoni,
E stretta a’ miei campioni
Fei ne l’amplesso forte
Bella parer la morte — e la disfatta.
Da i vaghi ingegni tratta
In versi ed in colori
Io vagai tra gli allori — in riva d’Arno.
Voi mi cercate indarno
Ne’ vostri angusti lari.
Non Bice Portinari, — io son l’idea. ==
LXII.
AGL’ITALIANI
Divinatrice d’altre genti indaghe
Barbari flutti la britanna prora
Là dove l’indo pelago colora
L’ultime plaghe:
Artici ghiacci a’ liberi navili
Vietino indarno i bene invasi mari,
E ’l fero lito d’Orenoco impari
Culti civili:
Frema natura, e i combattuti arcani
Ceda a l’intenta chimica pupilla:
Fulminea voli elettrica scintilla
Per gli oceàni:
Umana industria in divo lume avvolta
Spezzi il mistero e le sognate porte,
E minacciando insultino a la morte
Galvani e Volta:
Che val, se in vizi pallidi feconda
Del lento morbo suo l’età si gode
E colpe antiche di moderna lode
Orna e circonda?
Odi sonare i facili profeti
Con larga bocca e Cristo ed evangelo
Odi rapiti in santo ardor di cielo
Sofi e poeti
Vaticinanti. — Da l’avita asprezza
Nel mitic’oro il docil tempo riede:
Del lauro antico degnamente erede
La giovinezza
Già de la patria medita l’onore:
Gli anni volanti interroga la speme:
Guatan placati al bello italo seme
Gloria e valore. —
Oh non di forza un secol guasto allieta
Sillogismo di mistica sofia,
Non clamor di tribuni e non follia
D’ebro poeta.
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