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A riportar nel vero

Imagine cotanta, egli la vita

Che per lo mar de l’essere si volve

Cercò; d’entro la polve

E dal suon del passato il bene e il male

Trasse, vate fatale: e la sua voce

Come voce di Dio da’ sette colli

Tuonò su ’l mondo, e tutti a sé d’intorno

I secoli evocò. Giudice e donno

In lor suo sguardo mise;

Ammirò e pianse, disdegnò e sorrise:

Poi li schierava ne l’eterno canto,

21 Questo stava bene dirlo nel 1854; ma che Dante pensasse all’unità d’Italia, oggi, studiati un po’ meglio i tempi l’uomo e il poema, non lo direi piú né pure in un ditirambo. Le son novelle che oramai bisogna lasciarle a quei che sudano a lusingare il veltro.

Piacendo pure a sé di poter tanto.

Ma questa umile aiuola

Ove si piange e s’odia,

E questo eterno inganno, e questa vana

Ombra ch’ha nome vita ed è sì bassa,

T’era in dispetto. Poi che il sacro verso

A tutto l’universo

Descrisse fondo, e il buon sofo gentile

Te mise dentro a le secrete cose,

Veder volesti come l’angel vede

Colà dove non è di nebbia velo,

Amar volesti come s’ama in cielo.

Su per le vie d’amore

Quest’umil creatura

Risospingendo innanzi al creatore,

Quetar volesti in quell’eterno vero

Che il grande amor ti dette e il gran pensiero.

Cesse Virgilio a tanto;

E tu, deserto e solo

Spirito uman, per entro il gran desio

Sommerso vaneggiavi, e dubitando

Tu disperavi: quando

Su l’angeliche penne

Al tuo dolor sovvenne

Quella ch’è amore e visïone e luce

Tra l’intelletto e ’l vero:

Nomarla a me lingua mortal non lice;

Tu la dicesti, amando, Beatrice.

Cosí di sfera in sfera,

Tutto era melodia quello che udivi,

Tutto quel che vedevi era una luce,

E tutti quanti erano amore i sensi,

E lo spirto ed il verso un’armonia

Simile a quella che là su s’indìa.

Deh, qual parveti allora

Quest’umil patria e qual de le partite

Città la lite (ahi come quella eterna

Che sempre trista fa la valle inferna!),

Quando novellamente

Di ciel disceso ne portavi il canto

Supremo, e tutto avevi il nume in fronte,

Come l’antico che scendea dal monte?

Innanzi a te, splendente

Pur anche nel fulgor del regno santo,

Balenò di vermiglia

Luce il campo feral di Montaperto,

E pe ’l tristo deserto

De le crete maligne

Un fioco suon correa

Come sospir di battaglier morenti;

Cui lontan rispondea

Con un rumor di molto pianto umano

Di Campaldino il maledetto piano.

E tu dal mar toscano,

Rea Meloria, sorgesti;

E la gloria dicesti

De le nefande stragi, e da la nostra

Rabbia infamati i sassi ermi al Tirreno,

E ’l grande equoreo seno

Incestato di sangue, e tristo il bello

Ligure lito di pisani esigli,

E nati solo al fratricidio i figli.

… … … … … … … … … … . .

LXI.

BEATRICE

La luminosa testa

Dritta al ciel sorridea,

E il collo si volgea — roseo fulgente.

La fronte splendïente,

Alta, serena, bella,

E la rosa novella — del suo viso

E il freschissimo riso

Di pura giovinezza

Mi svegliaron dolcezza — nova in cuore.

Ma di soave orrore

Tutto mi sbigottiva

De la persona diva — il portamento.

Ondeggiava co ’l vento

A l’aere mattutina

La vesta cilestrina — e il bianco velo.

Cosí donna dal cielo

Mi passava d’avanti

Angelica in sembianti — e tutta accesa.

La mente mia sospesa

Pur a lei riguardava,

E l’alma quïetava — sospirando.

Poi dissi: == Or come, or quando

Fu la terra sí degna

Che tal d’amore insegna — in lei si posi?

Che padri avventurosi

Al secol ti donaro?

Che tempi di portaro — cosí bella?

Qual piú serena stella

Prima forma t’accolse?

Qual divo amor t’avvolse — del suo lume?

Ben fia l’uman costume

Volto a segno felice

Se di te beatrice — si ricrea. ==

== Non donna, io sono idea

Che a l’uomo il ciel propose

Quando de l’alte cose — ardean gli studi,

E i cuor non anche nudi

Di lor potenza ignita

Combattean con la vita — aspra e co ’l vero,

E al valido pensiero

E a la balda speranza

Diêr l’armi di costanza — amor e fede.

Allor d’aerea sede

Tra quei gagliardi io venni,

Ed accesi e sostenni — le tenzoni,

E stretta a’ miei campioni

Fei ne l’amplesso forte

Bella parer la morte — e la disfatta.

Da i vaghi ingegni tratta

In versi ed in colori

Io vagai tra gli allori — in riva d’Arno.

Voi mi cercate indarno

Ne’ vostri angusti lari.

Non Bice Portinari, — io son l’idea. ==

LXII.

AGL’ITALIANI

Divinatrice d’altre genti indaghe

Barbari flutti la britanna prora

Là dove l’indo pelago colora

L’ultime plaghe:

Artici ghiacci a’ liberi navili

Vietino indarno i bene invasi mari,

E ’l fero lito d’Orenoco impari

Culti civili:

Frema natura, e i combattuti arcani

Ceda a l’intenta chimica pupilla:

Fulminea voli elettrica scintilla

Per gli oceàni:

Umana industria in divo lume avvolta

Spezzi il mistero e le sognate porte,

E minacciando insultino a la morte

Galvani e Volta:

Che val, se in vizi pallidi feconda

Del lento morbo suo l’età si gode

E colpe antiche di moderna lode

Orna e circonda?

Odi sonare i facili profeti

Con larga bocca e Cristo ed evangelo

Odi rapiti in santo ardor di cielo

Sofi e poeti

Vaticinanti. — Da l’avita asprezza

Nel mitic’oro il docil tempo riede:

Del lauro antico degnamente erede

La giovinezza

Già de la patria medita l’onore:

Gli anni volanti interroga la speme:

Guatan placati al bello italo seme

Gloria e valore. —

Oh non di forza un secol guasto allieta

Sillogismo di mistica sofia,

Non clamor di tribuni e non follia

D’ebro poeta.