Il conforto delle parole di Simone Pau m'era venuto però sopra tutto per ciò che si riferiva alla mia professione. Invidiabile, sì forse; ma se fosse applicata solamente a cogliere, senz'alcuna stupida invenzione o costruzione immaginaria di scene e di fatti, la vita, così come vien viene, senza scelta e senz'alcun proposito; gli atti della vita come si fanno impensatamente quando si vive e non si sa che una macchinetta di nascosto li stia a sorprendere. Chi sa come ci sembrerebbero buffi! più di tutti, i nostri stessi. Non ci riconosceremmo, in prima; esclameremmo, stupiti, mortificati, offesi: - Ma come? Io, così? io, questo? cammino così? rido così? io, quest'atto? io, questa faccia? - Eh, no, caro, non tu: la tua fretta, la tua voglia di fare questa o quella cosa, la tua impazienza, la tua smania, la tua ira, la tua gioja, il tuo dolore... Come puoi sapere tu, che le hai dentro, in qual maniera tutte queste cose si rappresentano fuori! Chi vive, quando vive, non si vede: vive... Veder come si vive sarebbe uno spettacolo ben buffo! Ah se fosse destinata a questo solamente la mia professione! Al solo intento di presentare agli uomini il buffo spettacolo dei loro atti impensati, la vista immediata delle loro passioni, della loro vita così com'è. Di questa vita, senza requie, che non conclude.

IV

- Signor Gubbio, scusi: voglio dirle una cosa. Era già bujo: andavo di fretta sotto i grandi platani del viale. Sapevo che egli - Carlo Ferro - mi veniva dietro, affannato, per sorpassarmi e poi forse volgersi, fingendo di ricordarsi tutt'a un tratto, che aveva da dirmi qualche cosa. Volevo levargli il piacere di questa finzione, e acceleravo sempre più il passo, aspettandomi di mano in mano, che - stanco alla fine - si desse per vinto e mi chiamasse. Difatti... Mi voltai, come sorpreso. Egli mi raggiunse e con mal dissimulato dispetto mi domandò: - Permette? - Dica pure. - Va a casa? - Sì. - Abita lontano? - Parecchio. - Voglio dirle una cosa, - ripeté, e si fermò a guardarmi con bieco lustro negli occhi. - Lei dovrebbe sapere che, grazie a Dio, posso sputare su la scrittura che ho qua con la Kosmograph. Un'altra, come questa, meglio di questa, la trovo subito, appena voglio, dovunque, per me e per la mia signora. Lo sa o non lo sa? Sorrisi; mi strinsi nelle spalle: - Posso crederlo, se le fa piacere. - Può crederlo, perché è così! - ribatté forte, in tono di provocazione e di sfida. Tornai a sorridere; dissi: - Sarà pure così; ma non vedo perché venga a dirlo a me, e con codesto tono. - Ecco perché, - riprese - Io rimango, caro signore, alla Kosmograph. - Rimane? Guardi: non sapevo nemmeno che avesse in animo di andarsene. - Altri lo aveva in animo, - ripigliò Carlo Ferro, pigiando con la voce su altri - Ma io le dico che rimango: ha capito? - Ho capito. - E rimango, non perché m'importi della scrittura, che non me n'importa un corno; ma perché io non sono mai fuggito di fronte a nessuno! Così dicendo, mi prese la giacca sul petto, con due dita, e me la scosse un po'. - Permette? - dissi io, a mia volta, con calma, levandogli quella mano; e presi dalla tasca una scatola di fiammiferi: ne accesi uno per la sigaretta che avevo già cavato dell'astuccio e tenevo in bocca; trassi due boccate di fumo, rimasi ancora un po' col fiammifero acceso tra le dita, per fargli vedere che le sue parole, il tono minaccioso, il fare aggressivo non mi cagionavano il minimo turbamento; poi risposi, piano: - Potrei anche aver capito a che cosa ella voglia alludere; ma, ripeto, non intendo perché viene a dire proprio a me codeste cose. - Non è vero! - gridò allora Carlo Ferro. - Lei finge di non intendere! Pacatamente, ma con voce ferma, risposi: - Non ne vedo la ragione. Se lei, caro signore, vuol provocarmi, sbaglia; non solo perché senza motivo, ma anche perché, precisamente come lei, io non soglio fuggire di fronte a nessuno. - Come no? - sghignò egli allora.