ecco, voleva fare un articolo su lui... non lo farà più! Avvilito, con la faccia verde di bile, ma qua e là chiazzata, come se gli amici mortificandolo si fossero divertiti a dargli tanti pizzichi su la fronte, su le guance, sul naso, Cavalena si divora dentro, intanto, la moglie, come un cannibale digiuno da tre giorni: la moglie, che l'ha reso, così, lo zimbello di tutti. Giura a se stesso di non ricadere più tra le grinfie di lei; ma a poco a poco, ahimè, l'ansia di riprendere "la vita" comincia a cangiarglisi in una smania che in prima non sa definire, ma che gli si esaspera dentro sempre più. Da anni e anni ha esercitato tutte le facoltà mentali per difendere contro gl'iniqui sospetti della moglie la propria dignità. Ora esse, distratte improvvisamente da quest'assidua, accanita difesa, non son più atte, stentano a volgersi e a dedicarsi ad altri ufficii. Ma la dignità, così a lungo e strenuamente difesa, gli s'è ormai imposta addosso, come il calco d'una statua, irremovibile. Cavalena si sente vuoto dentro, ma tutto incrostato di fuori. È diventato il calco ambulante di quella statua. Non se lo può più scrostare d'addosso. Per sempre, ormai, inesorabilmente, egli è l'uomo più dignitoso del mondo. E questa sua dignità ha una sensibilità così squisita, che s'aombra, si turba al più piccolo cenno che le baleni, d'una minima trasgressione ai doveri di cittadino, di marito, di padre di famiglia. Tante volte ha giurato alla moglie di non esser venuto meno, mai, neppure col pensiero, a questi doveri, che veramente ormai non può più neppur pensare di trasgredirli, e soffre, e si fa di mille colori nel veder gli altri, così a cuor leggero, trasgredirli. Gli amici lo deridono e gli dànno dell'ipocrita. Là, in mezzo a loro, così tutto incrostato, tra il fracasso e l'impetuosa volubilità d'una vita senza più ritegni né di fede né d'affetti, Cavalena si sente violentato, comincia a credersi in serio pericolo; ha l'impressione d'avere i piedi di vetro in mezzo a un tumulto di pazzi che s'arrabattino con scarpe di ferro. La vita immaginata nel reclusorio come piena d'attrattive e a lui indispensabile gli si scopre vacua, stupida, insulsa. Com'ha potuto soffrir tanto per la privazione della compagnia di quegli amici? dello spettacolo di tante fatuità, di tanti miserabili disordini? Povero Cavalena! La verità è forse un'altra! La verità è che nel suo ispido reclusorio, senza volerlo, egli s'è purtroppo abituato a conversar con se stesso, cioè col peggior nemico che ciascuno di noi possa avere; e ha avuto così nette percezioni dell'inutilità di tutto, e s'è visto così perduto, così solo, circondato da tenebre e schiacciato dal mistero suo stesso e di tutte le cose... Illusioni? speranze? A che servono? Vanità... E il suo essere, prosternato, annullato per sé, a poco a poco è risorto come pietosa coscienza degli altri, che non sanno e s'illudono, che non sanno e operano e amano e soffrono. Che colpa ha la moglie, quella sua povera Nene, se è così gelosa? Egli è medico e sa che questa gelosia feroce è una vera e propria malattia mentale, una forma di pazzia ragionante. Tipica, tipica forma di paranoja, anche coi delirii della persecuzione. Lo va dicendo a tutti. Tipica, tipica! Arriva finanche a sospettare, la sua povera Nene, ch'egli voglia ucciderla per appropriarsi, insieme con la figliuola, del denaro di lei! Ah che vita beata, allora, senza di lei... Libertà, libertà: una gamba qua, una gamba là! Dice così, povera Nene, perché lei stessa s'accorge che la vita, così com'ella la fa a se stessa e agli altri, non è possibile; è la soppressione della vita; si sopprime da sé, povera Nene, con la sua follia, e crede naturalmente che vogliano sopprimerla gli altri: col coltello, no, ché si scoprirebbe! a furia di dispetti! E non s'accorge che i dispetti se li fa lei, da sé; se li fa fare da tutte le ombre della sua follia, a cui dà corpo. Ma non è medico lui? E se egli, da medico, capisce tutto questo, non ne segue che dovrebbe trattar la sua povera Nene come un'inferma, irresponsabile del male che gli ha fatto e séguita a fargli? Perché si ribella? contro chi si ribella? Egli deve compatirla e averne pietà, starle attorno amoroso, sopportarne paziente e rassegnato l'inevitabile sevizia. E poi c'è la povera Luisetta, lasciata sola in quell'inferno, a tu per tu con la mamma che non ragiona... Ah, via, via, bisogna subito ritornare a casa! subito. Forse, sotto sotto, mascherato di questa pietà per la moglie e la figliuola, c'è il bisogno di sottrarsi a quella vita precaria e incerta, che non è più per lui. Del resto, non ha pur diritto d'avere anche pietà di sé? Chi l'ha ridotto in quelle condizioni? Può all'età sua riprendere la vita, dopo averne reciso tutte le fila, dopo essersi privato di tutti i mezzi, per contentare la moglie? E, in fin de' conti, va a rinchiudersi in galera! Ha così dipinta, il pover'uomo, in tutto l'aspetto la grande sciagura ond'è oppresso, la dà tanto a vedere con l'impaccio d'ogni passo, d'ogni sguardo, quand'ha accanto la moglie, per la costernazione assidua, ch'ella in quel passo, in quel gesto, in quello sguardo non abbia a trovar pretesto per una scenata, che non si può fare a meno, pur commiserandolo, di ridere di lui. E forse ne avrei riso anch'io, questa mattina, se non ci fosse stata lì la signorina Luisetta. Chi sa quanto soffre dell'inevitabile ridicolaggine del padre, quella povera figliuola! Un uomo di quarantacinque anni, ridotto in quello stato, di cui la moglie sia ancora così ferocemente gelosa, non può non essere enormemente ridicolo! Tanto più poi, in quanto per un'altra sciagura nascosta, un'oscena calvizie precoce, dovuta a un'infezione tifoidea, di cui poté salvarsi per miracolo, il pover'uomo è costretto a portar quella parrucca artistica sotto un cappellaccio capace di sostenerla.
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