L'ho sorpresa, per esempio, a un certo punto, che rispondeva a un supplice sguardo delle figliuola, accomodando la bocca ad O e ponendovi in mezzo il dito. Evidentemente, questo gesto significava: - Sciocca! perché mi guardi così? Ma la guardano sempre, almeno di sfuggita, il marito e la figliuola, perplessi e ansiosi nella paura, che da un momento all'altro non dia in qualche furiosa escandescenza. E certo guardandola così, la irritano di più. Ma chi sa che vita è la loro poveretti! Già Polacco me n'ha dato qualche ragguaglio. Non ha forse pensato mai d'esser madre, quella donna! Ha trovato quel pover'uomo, il quale, tra le grinfie, dopo tant'anni, le si è ridotto come peggio non si potrebbe; non importa: se lo difende; séguita a difenderselo ferocemente. Polacco m'ha detto che, assalita dalle furie della gelosia, perde ogni ritegno di pudore; e, inanzi a tutti, senza badar più neanche alla figliuola che sta a sentire a guardare, sculaccia nude (nude, come in quelle furie le balenano davanti agli occhi) le pretese colpe del marito: colpe inverosimili. Certo, in questo laido svergognamento, la signorina Luisetta non può non vedere ridicolo il padre, che pure, come si nota dagli sguardi che gli rivolge, deve farle tanta pietà! Ridicolo per il modo con cui, denudato, sculacciato, il pover'uomo cerca di tirar sù da ogni parte, per ricoprirsi frettolosamente alla meglio, la sua dignità ridotta a brani. Me n'ha dette parecchie Cocò Polacco delle frasi che, sbalordito dagli assalti selvaggi improvvisi, rivolge alla moglie, in quei momenti: più sciocche, più ingenue, più puerili, non si potrebbero immaginare! E per ciò solo credo, che Cocò Polacco non se le sia inventate lui. - Nene, per carità, ho compito quarantacinque anni... - Nene, sono stato ufficiale... - Nene, santo Dio, quand'uno è stato ufficiale e dà la sua parola d'onore... Ma pure, ogni tanto - oh, alla fin fine, la pazienza ha un limite! - ferito con raffinata crudeltà nei più gelosi sentimenti, barbaramente fustigato dove più la piaga duole - ogni tanto, dice, pare che Cavalena scappi di casa, evada dall'ergastolo. Come un pazzo, da un momento all'altro, si ritrova in mezzo alla strada senza un soldo in tasca, deciso a riprendere comunque "la sua vita": va di qua, di là, in cerca degli amici; e gli amici, in prima, lo accolgono festosamente nei caffè, nelle redazioni dei giornali, perché se lo pigliano a godere; ma la festa subito s'intepidisce, appena egli manifesta il bisogno urgente di trovar posto di nuovo in mezzo a loro, di darsi attorno per provvedere a se stesso, in qualche modo, al più presto. Eh sì! perché non ha nemmeno da pagarsi il caffè, un boccone di cena, l'alloggio in un albergo per la notte. Chi gli presta, per il momento, una ventina di lire? Fa appello, coi giornalisti, sullo spirito d'antica colleganza. Porterà domani un articolo al suo antico giornale. Che? Sì, di letteratura o di varietà scientifica. Ha tanta materia accumulata dentro... cose nuove, sì... Per esempio? Oh Dio, per esempio, questa... Non ha finito d'enunziarla, che tutti quei buoni amici gli sbruffano a ridere in faccia. Cose nuove? Nell'arca Noè, ai suoi figliuoli, per ingannare gli ozii della navigazione su le onde del diluvio universale... Ah, li conosco bene anch'io, questi buoni amici del caffè! Parlano tutti così, con uno stile burlesco sforzato, e ciascuno s'eccita alle altrui esagerazioni verbali e prende coraggio a dirne qualcuna più grossa, che non passi però la misura, non esca di tono, per non essere accolta da un'urlata generale; si deridono a vicenda, fanno strazio delle loro vanità più carezzate, se le buttano in faccia con gaja ferocia, e nessuno in apparenza se n'offende; ma la stizza, dentro, s'accende, la bile fermenta; lo sforzo per tenere ancora la conversazione su quel tono burlesco, che suscita le risa, perché nelle risa comuni l'ingiuria si stemperi e perda il fiele, diviene a mano a mano più penoso e difficile; poi, del lungo sforzo durato resta in ciascuno una stanchezza di noja e di nausea; ciascuno sente con aspro rammarico d'aver fatto violenza ai proprii pensieri, ai proprii sentimenti; più che rimorso, fastidio della sincerità offesa; disagio interno, quasi che l'animo gonfiato e illividito non aderisca più al proprio intimo essere; e tutti sbuffano per cacciarsi via d'attorno l'afa del proprio disgusto; ma, il giorno appresso, tutti ricascano in quell'afa e daccapo ci si scaldano, cicale tristi, condannate a segar frenetiche la loro noja. Guaj a chi càpita nuovo, o dopo qualche tempo, in mezzo a loro! Ma Cavalena forse non s'offende, non si lagna dello strazio che i suoi buoni amici fanno di lui, crucciato com'è in cuore dal riconoscimento ch'egli ha perduto nella sua reclusione "il contatto con la vita". Dall'ultima sua evasione dall'ergastolo son passati, poniamo, diciotto mesi? bene: come se fossero passati diciotto secoli! Tutti, a risentir da lui certe parole di gergo, vive vive allora, ch'egli ha custodito come gemme preziose nello scrigno della memoria, storcono la bocca e lo guardano, come si guarda in trattoria una pietanza riscaldata, che sappia di strutto ràncido, lontano un miglio! Oh povero Cavalena, ma sentitelo! sentitelo! s'è fermato nell'ammirazione di colui che, diciotto mesi fa, era il più grand'uomo del secolo XX. Ma chi era? Ah, senti... Il Tal dei Tali... quell'imbecille! quel seccatore! quella cariatide! Ma come, è ancora vivo? Oh vah! proprio vivo? Sissignori, Cavalena giura d'averlo visto, ancora vivo, una settimana fa; anzi, ecco... credendo che... - (no per essere vivo, è vivo) - ma, se non è più un grand'uomo...
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