Vedi questa bella piscina? Sprofondai gli occhi e guardai. Piscina? Era un antro mùffido, angusto e profondo, una specie di cava da ricettarvi majali, tagliata nella pietra viva per lungo, a cui si scendeva per cinque o sei gradini e da cui esalava un puzzo ardente di lavatojo. Un tubo di latta, tutto a forellini gialli di ruggine, vi correva sopra, in mezzo, da un capo all'altro. - Ebbene? - Ti spogli di là; consegni gli abiti... -...scarpe comprese... -...scarpe comprese, per la disinfezione, e t'introduci nudo qua dentro. - Nudo? - Nudo in compagnia d'altri sei o sette nudi. Uno di questi cari amici qua della bacheca apre la chiavetta dell'acqua, e tu, sotto il tubo, zifff... ti prendi gratis, in piedi, una bellissima doccia. Poi t'asciughi magnificamente con l'accappatojo, ti calzi le pantofole di tela, te ne sali zitto zitto in processione con gli altri incappati per la scala; eccola qua; là c'è la porta del dormitorio, e buona notte. - Imprescindibile? - Che? La doccia? Ah, perché tu hai i guanti e le ghette, amico Serafino? Ma te le puoi levare senza vergogna. Ciascuno qua si leva le proprie vergogne d'addosso, e si presenta nudo al battesimo di questa piscina! Non hai il coraggio di scendere fino a queste nudità? Non ce ne fu bisogno. La doccia è obbligatoria solo per i mendicanti sporchi. Simone Pau non l'aveva mai presa. Egli è lì, veramente, professore. Sono annessi a quell'asilo notturno una cucina economica e un ricovero per i ragazzi senza tetto, d'ambo i sessi, figli di mendicanti, figli di carcerati, figli di tutte le colpe. Sono sotto la custodia di alcune suore di carità, che han trovato modo d'istituire per essi anche una scoletta. Simone Pau, quantunque per professione nimicissimo dell'umanità e di qualsiasi insegnamento, dà lezione con molto piacere a quei ragazzi, per due ore al giorno, la mattina per tempo; e i ragazzi gli vogliono un gran bene. Egli ha là, in compenso, alloggio e vitto: cioè una cameretta, tutta per lui, comoda e decente, e un servizio di cucina particolare, insieme con quattro altri insegnanti, che sono un povero vecchietto pensionato dal Governo pontificio e tre zitellone maestre, amiche delle suore e lì ricoverate. Ma Simone Pau lascia il vitto particolare perché a mezzogiorno non è mai all'ospizio, e soltanto la sera, quando gli va, prende qualche ciotola di minestra dalla cucina comune; tiene la cameretta, ma non ne approfitta mai, perché va a dormire nel dormitorio dell'asilo notturno, per la compagnia che vi trova, e a cui ha preso gusto, di esseri obliqui e randagi. Tolte quelle due ore di lezione, passa tutto il tempo nelle biblioteche e nei caffè; ogni tanto, stampa su qualche rassegna di filosofia uno studio che stordisce tutti per la bizzarra novità delle vedute, la stranezza delle argomentazioni e la copia della dottrina; e si rimpannuccia. Io, allora, ripeto, non sapevo tutto questo. Credevo, e forse in parte era vero, ch'egli mi avesse condotto lì per il piacere di sbalordirmi; e poiché non c'è miglior mezzo di sconcertare chi voglia sbalordirvi con paradossi sbardellati o con le più strane e bislacche proposte, che fingere d'accettar quei paradossi come fossero le verità più ovvie e quelle proposte come naturalissime e del caso; così feci io quella sera, per sconcertare il mio amico Simone Pau. Il quale, capito il mio proposito, mi guardò negli occhi e, vedendomeli perfettamente impassibili, esclamò sorridendo: - Come sei imbecille! Mi profferse la sua cameretta; credetti in principio che scherzasse; ma quando m'assicurò che aveva lì veramente una cameretta per sé non volli accettare e andai con lui nel dormitorio dell'asilo. Non me ne pento, perché al disagio e al ribrezzo che provai in quell'orrido luogo ebbi due compensi: 1° quello di trovare il posto, che occupo al presente, o meglio, l'occasione di entrare come operatore nella grande Casa di cinematografia La Kosmograph; 2° quello di conoscere l'uomo, che per me è rimasto il simbolo della sorte miserabile, a cui il continuo progresso condanna l'umanità. Ecco, prima, l'uomo.

V

Me lo mostrò Simone Pau, la mattina appresso, quando ci levammo dalla branda. Non descriverò quello stanzone del dormitorio appestato da tanti fiati, nella squallida luce dell'alba, né l'esodo di quei ricoverati, che scendevano irti e rabbuffati dal sonno nei lunghi càmici bianchi, con le pantofole di tela ai piedi e la tèssera in mano, giù allo spogliatojo, per ritirare a turno i loro panni. Uno era in mezzo a questi, che fra gli sgonfii del bianco accappatojo teneva stretto sotto il braccio un violino, chiuso nella fodera di panno verde, logora, sudicia, stinta, e se n'andava inarcocchiato e tenebroso, come assorto a guardarsi i peli spioventi delle foltissime sopracciglia aggrottate. - Amico! amico! - lo chiamò Simone Pau. Quegli si fece avanti, tenendo il capo chino e sospeso, come se gli pesasse enormemente il naso rosso e carnuto; e pareva dicesse, avanzandosi: "Fate largo! fate largo! Vedete come la vita può ridurre il naso d'un uomo?" Simone Pau gli s'accostò; amorevolmente con una mano gli sollevò il mento; gli batté l'altra su la spalla, per rinfrancarlo, e ripeté: - Amico mio! Poi, rivolgendosi a me: - Serafino - disse, ti presento un grande artista.