Debbo a lui il posto e alla fortunata congiuntura d'essermi trovato quella notte con Simone Pau in quell'asilo notturno. Ma né a me, ripeto, venne in mente, quella mattina, che mi sarei ridotto a collocar sul treppiedi una macchina di presa, come vedevo fare a quei due signori, né a Cocò Polacco di propormi un tale ufficio. Egli, da quel buon figliuolo che è, non stentò molto a riconoscermi, quantunque io - riconosciutolo subito - facessi di tutto per non essere scorto da lui in quel luogo miserabile, vedendolo raggiante d'eleganza parigina e con un'aria e un'impostatura di condottiero invincibile, tra quegli attori, quelle attrici e tutte quelle reclute della miseria, che non capivano più nei loro bianchi càmici dalla gioja d'un guadagno insperato. Si mostrò sorpreso di trovarmi là, ma soltanto per l'ora mattutina, e mi domandò come avessi saputo ch'egli con la sua compagnia dovesse venire quella mattina nell'asilo per un interno dal vero. Lo lasciai nell'inganno, che mi trovassi lì per caso come un curioso; gli presentai Simone Pau (l'uomo dal violino, nella confusione, era sgattajolato via); e rimasi ad assistere disgustato alla sconcia contaminazione di quella triste realtà, di cui avevo nella notte assaporato l'orrore, con la stupida finzione che il Polacco era venuto a iscenarvi. Ma il disgusto, forse, lo sento adesso. Quella mattina, dovevo avere più che altro curiosità d'assistere per la prima volta all'iscenatura d'una cinematografia. Pure la curiosità, a un certo punto, mi fu distratta da una di quelle attrici, la quale, appena intravista, me ne suscitò un'altra assai più viva. La Nestoroff... Possibile? Mi pareva lei e non mi pareva. Quei capelli d'uno strano color fulvo quasi cùpreo, il modo di vestire, sobrio, quasi rigido, non erano suoi. Ma l'incesso dell'esile elegantissima persona, con un che di felino nella mossa dei fianchi; il capo alto, un po' inclinato da una parte, e quel sorriso dolcissimo su le labbra fresche come due foglie di rosa, appena qualcuno le rivolgeva la parola; quegli occhi stranamente aperti, glauchi, fissi, e vani a un tempo, e freddi nell'ombra delle lunghissime ciglia, erano suoi, ben suoi, con quella sicurezza tutta sua, che ciascuno, qualunque cosa ella fosse per dire o per chiedere, le avrebbe risposto di sì. Varia Nestoroff... Possibile? Attrice d'una Casa di cinematografia? Mi balenarono in mente Capri, la Colonia russa, Napoli, tanti rumorosi convegni di giovani artisti, pittori, scultori, in strani ridotti eccentrici, pieni di sole e di colore, e una casa, una dolce casa di campagna, presso Sorrento, dove quella donna aveva portato lo scompiglio e la morte. Quando, ripetuta per due volte la scena per cui la compagnia era venuta in quell'asilo, Cocò Polacco m'invitò ad andarlo a trovare alla Kosmograph, io, ancora in dubbio gli domandai se quell'attrice fosse proprio la Nestoroff. - Sì, caro, - mi rispose, sbuffando. - Ne sai forse la storia? Gli accennai di sì col capo. - Ah, ma non puoi saperne il seguito - riprese il Polacco. - Vieni, vieni a trovarmi alla Kosmograph; te ne dirò di belle. Gubbio, pagherei non so che cosa per levarmi dai piedi questa donna. Ma, guarda, è più facile che... - Polacco! Polacco! - chiamò a questo punto colei. E dalla premura con cui Cocò Polacco accorse alla chiamata, compresi bene qual potere ella avesse nella Casa, ov'era scritturata quale prima attrice con uno dei più lauti stipendii. Alcuni giorni dopo mi recai alla Kosmograph, non per altro, per conoscere il seguito della storia, purtroppo a me nota, di quella donna.

Quaderno secondo

I

Dolce casa di campagna, Casa dei nonni, piena del sapore ineffabile dei più antichi ricordi familiari, ove tutti i mobili di vecchio stile, animati da questi ricordi, non erano più cose ma quasi intime parti di coloro che v'abitavano, perché in essi toccavano e sentivano la realtà cara, tranquilla, sicura della loro esistenza. Covava davvero in quelle stanze un alito particolare, che a me pare di sentire ancora, mentre scrivo: alito d'antica vita, che aveva dato un odore a tutte le cose che vi erano custodite. Rivedo la sala, un po' tetra veramente, dalle pareti stuccate, a riquadri che volevan sembrare di marmo antico: uno rosso, uno verde; e ogni riquadro aveva la sua brava cornice, anch'essa di stucco, a fogliami; se non che, col tempo, quei finti marmi antichi s'erano stancati della loro ingenua finzione, s'erano un po' gonfiati qua e là, e si vedeva qualche piccola crepacchiatura. La quale mi diceva benignamente: - Tu sei povero; hai l'abito sdrucito; ma vedi bene che pure nelle case dei signori... Eh sì! Bastava mi voltassi a guardare quelle mensole curiose, che pareva avessero schifo di toccare la terra con le loro zampe dorate, di ragno... Il piano di marmo era un po' ingiallito, e nello specchio inclinato si rivedevano precisi nell'immobilità i due cestelli posati sul piano: cestelli di frutta, anch'esse di marmo, colorate: fichi, pesche, cedri, a riscontro, di qua e di là, proprio precise, nel riflesso come se fossero quattro e non due. In quella immobilità di lucido riflesso era tutta la calma limpida, che regnava in quella casa.