Racconti

RACCONTI di Edgar Allan Poe.

 

  INDICE.

 

 

1. Berenice: pagina 3.

 

2. Eleonora: pagina 19.

 

3. Morella: pagina 29.

 

4. Metzengerstein: pagina 38.

 

5. Il pozzo e il pendolo: pagina 52.

 

6. Il gatto nero: pagina 83.

 

7. La cassa oblunga: pagina 100.

 

8. I delitti della Rue Morgue: pagina 126.

 

 

 

 

 

1. Berenice.

 

 

La miseria è molteplice.  E la sventura sulla terra è  multiforme.

 

Essa  difatti domina il largo orizzonte,  simile all'arcobaleno e,

 

come quello, è di vario colore, e consente alle diverse tinte, pur

 

essendo tra loro fuse,  d'essere l'una dall'altra  distinta.  Come

 

l'arcobaleno,   essa  domina  il  largo  orizzonte!   E  così,  da

 

un'immagine di bellezza,  io avrei tratto il paragone con una tale

 

bruttura?  Dal simbolo della pace io avrei tratto una similitudine

 

col dolore? Eppure,  allo stesso modo che,  nell'etica,  il male è

 

considerato come una conseguenza del bene, nella realtà delle cose

 

è  soltanto dalla gioia che nasce il dolore.  O è la memoria della

 

felicità trascorsa a formare l'angoscia del presente,  ovvero sono

 

le attuali agonie a essere originate da estasi, le quali avrebbero

 

potuto essere.

 

Il  mio  nome  di  battesimo è Egeus;  quello di famiglia lasciate

 

ch'io non lo scriva. Non esiste un castello più ricco di anni e di

 

gloria della malinconica e antica dimora dei miei  antenati.  Essi

 

sono  sempre passati per una razza di  visionari ed è indubitabile

 

che in non pochi e rilevanti  particolari,  come  ad  esempio  nel

 

carattere della casa,  negli affreschi del salone principale,  nei

 

parati delle camere da letto,  nei lavori  di  cesello  di  alcuni

 

sostegni  della  sala  d'armi,  ma  soprattutto  nella galleria di

 

quadri antichi e nella biblioteca e da ultimo nella  natura  degli

 

specialissimi  oggetti  contenuti  in questa,  vi sia molto più di

 

quanto occorra a giustificare una simile reputazione.

 

Le  memorie  dei  miei  primi  anni  d'infanzia  sono  intimamente

 

collegate  a quella sala e a quei libri dei quali,  peraltro,  non

 

avverrà ch'io dica più nulla.  E' là che morì mia madre,  è là che

 

sono  nato io.  E nondimeno è del tutto ozioso affermare ch'io non

 

abbia già vissuta un'altra vita,  che l'anima mia non abbia  avuta

 

nessuna  esistenza anteriore!  Credete che non sia così?  Ma non è

 

luogo questo di discussioni per una simile materia: a me basta che

 

sia convinto io;  non tento affatto di convincere  gli  altri.  Vi

 

sono tuttavia alcune memorie d'aeree forme, di occhi che dicono la

 

loro spiritualità, e melodiosi e mesti suoni ancora... memorie che

 

non si lasciano cancellare,  ombre vaghe,  mutevoli, sfumate e non

 

mai ferme un solo istante,  come quell'ombra della quale non  sarà

 

concesso ch'io mi liberi fintanto che nel mio cervello sarà luce.

 

Io sono nato in quella camera. Nell'atto di ridestarmi dalla lunga

 

notte di quel che sembrava - ma non era - la non esistenza,  e nel

 

trovarmi,  d'un subito,  in un  magico  paese,  in  un  fantastico

 

maniero,  negli stravaganti dominii del pensiero e dell'erudizione

 

monastica,   non  dovrebbe  meravigliare  ch'io  mi  sia  guardato

 

all'intorno  con  occhio  vivido  e  impaurito...  e che poi abbia

 

logorata  sui  libri  la  mia  infanzia  e  nei   sogni   la   mia

 

giovinezza...  ma  è singolare,  invece,  ch'io mi trovassi ancora

 

nella dimora dei miei padri negli  anni  della  virilità...  ed  è

 

singolare ancora e, anzi, straordinario, come man mano le sorgenti

 

della  mia vita furono arrestate e spente dall'inazione,  come una

 

completa inversione nei miei più ordinari  pensieri  intervenne  a

 

confonderli...  le  realtà  del  mondo  esterno m'impressionavano,

 

infatti, soltanto come visioni e nulla più che visioni, nel mentre

 

che le pazze fantasie che abitavano, invece, la regione dei sogni,

 

erano divenute per me molto più  che  non  la  materia  della  mia

 

esistenza  quotidiana,   esse  erano  divenute  la  mia  esistenza

 

medesima, in assoluto.

 

 

Berenice e io eravamo cugini,  ed eravamo cresciuti assieme  nelle

 

sale  del  mio  castello  avito.  Tuttavia crescemmo assai diversi

 

l'uno dall'altra.  Io ero di salute cagionevole e  d'umore  sempre

 

melanconico, e lei, invece, agile, aggraziata e nel pieno rigoglìo

 

della  salute.  A lei le corse pazze giù per la collina,  a me gli

 

studi severi, nel chiostro.  Io non vivevo che nell'intimo del mio

 

cuore,  consacrando l'anima mia e il mio corpo alla più estenuante

 

meditazione,  e lei,  per contro,  errava spensierata per la vita,

 

senza  preoccuparsi  se mai calasse qualche ombra sul suo cammino,

 

ovvero se volassero via silenziose  le  ore  dalle  nere  ali  del

 

corvo.

 

Berenice!  Io invoco il suo nome,  Berenice! E dalle grigie rovine

 

della memoria ecco risvegliarsi,  a quel suono,  mille tumultuanti

 

immagini!  O  meravigliosa  e  pur fantasiosa bellezza!  O sìlfide

 

gentile fra i roveti d'Arnheim!  O Najade tra  le  sue  acque!  Ed

 

oltre... oltre non c'è che orrore e mistero e, insomma, una storia

 

che è meglio non raccontare.  Un morbo,  un fatale morbo s'abbatté

 

su di lei come il vento infuocato del  deserto,  e  mentre  io  la

 

stavo  ancor  riguardando,  scorreva su di lei il sinistro spirito

 

della  sua  trasformazione  e  invadeva  l'essere  suo  e  le  sue

 

abitudini, il suo carattere, e perfino alterava, nel più sottile e

 

orribile dei modi,  l'identità della sua persona. Venne, ahimè, il

 

Distruttore! Venne e tornò via! E la vittima?  Dov'era la vittima?

 

Io  non  la  conobbi più,  voglio dire che non la conobbi più come

 

Berenice.

 

Tra i numerosi mali che seguirono quel primo e  fatale,  il  quale

 

tanto operò e così radicalmente a mutare il fisico e lo spirito di

 

mia cugina,  io ricordo che il più penoso ed ostinato fu una sorta

 

di epilessìa che terminava sovente in  uno  stato  di  transe,  in

 

tutto  simile  ad  una  morte  apparente  e  dal  quale  accadeva,

 

talvolta,  ch'ella si riavesse d'un  subito,  con  uno  spasmodico

 

sussulto.

 

Nello  stesso  tempo  il mio male - quel male di cui,  come ho già

 

detto, non specificherò il nome e la natura - cresceva rapidamente

 

e finì con l'assumere il carattere  d'una  monomanìa  di  nuova  e

 

straordinaria forma, la quale, d'ora in ora e di minuto in minuto,

 

acquistava novello impulso, rinvigorendo, in me, la più misteriosa

 

delle  influenze.  Tale monomanìa, s'io debbo definirla con questa

 

espressione,  consisteva in una  morbosa  irritabilità  di  quelle

 

facoltà  psichiche che la scienza ha convenuto di definire facoltà

 

d'attenzione. Non sono sicuro d'esser compreso, a questo punto, ma

 

temo davvero di essere nella più assoluta impossibilità di fornire

 

al lettore medio un'idea esatta di questa sorta di nervoso acuirsi

 

dell'interesse in virtù del quale,  la mia facoltà di riflettere -

 

per  non usare un linguaggio tecnico - si fissava e si sprofondava

 

nella contemplazione dei più volgari oggetti materiali.

 

Meditavo,  in tal modo,  senza stancarmi,  per ore intere,  avendo

 

tutta  la  mia  attenzione  concentrata  su  una  qualche  puerile

 

notazione  sul  margine  ovvero  nella  pagina  d'un  qualsivoglia

 

volume...  restavo  interamente  assorto,  durante una lunghissima

 

parte del giorno,  in un'ombra  bizzarra  che  il  sole  moribondo

 

disegnava  obliquamente  sui  damaschi  polverosi  e  sul  tappeto

 

tarlato... e mi perdevo, inoltre, intere notti, con l'occhio fisso

 

al  palpito  della  fiammella  d'un  lume,   ovvero   alle   braci

 

rosseggianti  del  camino...   e  ancora,  per  giorni  e  giorni,

 

fantasticavo sul profumo dei fiori... o ripetevo,  con esasperante

 

monotonìa,  una parola assolutamente banale... e la ripetevo tanto

 

e poi tanto che essa finiva per spogliarsi totalmente d'ogni larva

 

di umano significato...  e così perdevo ogni senso del  movimento,

 

come pure dell'esistenza fisica, prolungando ostinatamente un ozio

 

assoluto...

 

Tali  furono le più ordinarie e le meno dannose fra le aberrazioni

 

a cui si abbandonarono la mia mente e  il  mio  spirito:  non  del

 

tutto,  certamente,eccezionali,  e  nulladimeno al di fuori d'ogni

 

spiegazione  o  analisi.   Ma  io  non  voglio  essere  frainteso.

 

L'attenzione  avida,  morbosa  e del tutto anormale che era in tal

 

modo eccitata in me dai più comuni e futili  oggetti,  non  va  in

 

alcun  modo  scambiata  con quella disposizione dell'animo d'andar

 

ruminando tra sé le proprie doglie,  la quale è comune a tutto  il

 

genere  umano  ed  in  special  modo  alle persone afflitte da una

 

vivace immaginazione.  La mia  non  era,  quindi,  una  condizione

 

puramente esterna o una esagerazione di quella tendenza: essa,  al

 

contrario,  si distingueva dall'altra così per l'origine come  per

 

l'intima essenza,  le quali erano del tutto opposte. In quel primo

 

caso, il sognatore - ovvero l'esaltato,  se così si vuole definire

 

- il quale ha l'interesse risvegliato,  solitamente, da oggetti di

 

non futile natura, perde di vista, appunto, cotesto interesse, col

 

mezzo d'innumerevoli deduzioni o  supposizioni  che  a  quello  si

 

riferiscono,  fintantoché,  al  termine d'una giornata trascorsa a

 

sognare,  la  quale  è    spesso  piena  di  piacere,  scopre  che

 

l'incitamento  -  e  cioè la causa prima e origine di tutte le sue

 

divagazioni - è del tutto svanito e come  straniato  dalla  mente.

 

Nel   caso  mio,   al  contrario,   il  punto  di  partenza,   era

 

costantemente frivolo anche    se,  alterato  dalla  mia  fantasia

 

sovreccitata,  finiva  con  l'assumere,  per riflesso,  un'irreale

 

consistenza.  Seppure mi accadeva  di  farne,  io  ero  pochissimo

 

propenso  alle  deduzioni,  e  quelle  poche  in cui m'imbrogliavo

 

tornavano  con  ostinazione,  sempre  e  sempre,  sull'oggetto  di

 

partenza   come   su  di  un  centro  magico  d'attrazione.   Tali

 

meditazioni non erano mai piacevoli e,  al  dileguarsi  di  quelle

 

chimeriche  fantasie,  anziché  disperdersi  anch'essa,  la  causa

 

principale e originatrice di esse era la prima caratteristica  del

 

mio  male.  Le  facoltà,  in  breve  che  venivano  più facilmente

 

eccitate in me,  erano  quelle  dell'attenzione  al  contrario  di

 

quelle  che  sono  eccitate  nel  sognatore comune,  le quali sono

 

puramente speculative.

 

Seppure non erano causa diretta nello  stuzzicare  quel  mio  male

 

segreto,  è  fatale che i libri,  per la loro stessa fantastica ed

 

inconseguente natura, partecipassero,  nella maniera più ampia,  a

 

svilupparne  le peculiari caratteristiche.  Io rammento bene,  tra

 

gli altri,  il trattato ' De amplitudine beati  regni  Dei  '  del

 

nobile italiano Celius Secundus Curio,  come pure il capolavoro di

 

Sant'Agostino, ' La città  di Dio ',  e quello di Tertulliano ' De

 

carne  Cristi  ',  il  cui paradossale pensiero,  "Mortuus est Dei

 

filius;  credibile est quia ineptus est;  et sepultus  resurrexit;

 

certum  est quia impossibile est",  assorbì per più settimane,  in

 

laboriose e sterili investigazioni, il mio povero tempo.

 

Appare  in  tal  modo  evidente  come  la  mia  ragione,  messa  a

 

repentaglio  dai  più futili motivi,  potesse paragonarsi a quella

 

rupe di cui dice Tolomeo Efestione,  la quale  resisteva  ad  ogni

 

umana  violenza  e  al  più  orribile  infuriare delle acque e dei

 

venti, come una torre saldamente radicata nel terreno, epperò, non

 

appena toccata dal fiore chiamato asfodelo,  vacillava  fin  dalle

 

scaturìgini.

 

Potrà  sembrare  ovvio,  ad  un  superficiale  pensatore,  che  la

 

terribile alterazione prodotta  dalla  malattia  sulle  condizioni

 

spirituali di Berenice,  fornisse,  a me,  non poco incremento per

 

una intensa meditazione,  quella medèsima della  quale  ho  potuto

 

testé   definire   la   natura  soltanto  in  modo  eccessivamente

 

complicato e confuso. Non era così,  invece.  Negli intervalli che

 

la  mia    malattia  consentiva alla lucidità,  quella sventura mi

 

colmava di pena e come io prendevo a cuore,  nel più partecipe dei

 

modi,  la  compiuta  rovina  della  bella  e  dolce Berenice,  non

 

mancavo, sovente,  di riflettere con amarezza,  al modo misterioso

 

per il quale era avvenuto in lei un sì strano rivolgimento. Queste

 

riflessioni,  non partecipavano,  però, dell'idiosincrasia del mio

 

male ed erano tutte le medesime,  anzi,  che sarebbe  avvenuto  di

 

fare  alla  media  degli uomini,  in circostanze analoghe.  La mia

 

infermità,  fedele alla propria  natura,  faceva  presa  sui  meno

 

importanti  -  epperò più repentini - mutamenti che avvenivano nel

 

fisico di Berenice e cioè sulla singolare  e  paurosa  alterazione

 

che subiva la sua personale identità.

 

Io ero sicurissimo,  nei più radiosi giorni della sua bellezza, la

 

quale era al di fuori d'ogni paragone, che non mi era mai accaduto

 

d'amarla. Sono, infatti, in grado d'affermare, con tutta certezza,

 

che per le strane anomalìe della mia natura, i miei sentimenti non

 

furono mai originati dal cuore e le mie passioni ebbero sempre  ad

 

accendersi   soltanto  nel  mio  cervello.   Nel  grigio  annuncio

 

dell'alba, nel meriggio,  traverso i foschi tralicci d'ombre della

 

selva,  e  ancora,  la  sera,  nel  silenzio della mia biblioteca,

 

Berenice m'era balenata davanti agli occhi ed  io  l'avevo  veduta

 

non già quale era da viva e col respiro sulle labbra, ma  come una

 

Berenice  di  sogno;  non  una  creatura terrestre fatta di carne,

 

l'astrazione,  bensì,  d'una tale creatura.  E non una creatura da

 

contemplare  e  ammirare: da studiare,  invece.  Non tema d'amore,

 

infine,  ma di  astrusa  e  strampalata  speculazione.  Ed  eccomi

 

dinanzi a lei,  in preda a un tremore violento e convulso, pallido

 

al suo accostarsi, epperò dolente della sua condizione e sventura.

 

Poiché essa mi  aveva  lungamente  amato,  com'io  potei,  infine,

 

rammentarmi e in un maligno istante,  io le avevo anche parlato di

 

sposarla.

 

S'avvicinava l'epoca fissata per le nostre nozze ed ecco,  in  una

 

sera  d'inverno,  ma  calda per la nebbia stagnante delle giornate

 

care ad Alcione,  io sedevo - credendo d'essere solo -  nella  mia

 

biblioteca.  E  come sollevai gli occhi da un volume nel quale ero

 

immerso, vidi Berenice, ritta innanzi a me.

 

Era la mia immaginazione sovreccitata,  ovvero soltanto un effetto

 

dell'atmosfera  nebbiosa  dei  paraggi,  o  l'incerta penombra che

 

regnava nella stanza, o ancora i drappi grigi dei quali ella s'era

 

avviluppata la persona che rendevano tanto sfumato il suo profilo?

 

Non posso affermarlo con certezza. Ella non disse  parola e io non

 

aveva  parimenti  l'animo  di  rivolgerle  in  quel  punto  alcuna

 

domanda.  Un brivido ghiacciato mi corse giù per la schiena e, nel

 

mentre che  ero    oppresso  da  una  sensazione    d'insoffribile

 

ansietà,  mi sentii penetrar l'animo d'una curiosità divorante. Mi

 

abbattei su una sedia e rimasi per qualche istante  immobile,  con

 

gli occhi sbarrati,  fissi su di lei.  La sua magrezza, ahimè, era

 

estrema e non le appariva indosso alcun segno di ciò che essa  era

 

stata  un tempo,  neppure in uno solo dei suoi lineamenti.  Il mio

 

sguardo allucinato si posò infine sul suo  volto.  La  fronte  era

 

alta,   pallidissima  e  stranamente  calma;   i  capelli  che  le

 

ricoprivano,   un  tempo,   ombreggiandole,   le   scarne   tempie

 

d'innumerevoli  boccoli neri come l'ebano s'andavano trasformando,

 

ora,  in un biondo rossiccio la cui apparenza  fantastica  formava

 

uno  stridente contrasto con la mestizia cui era ispirata tutta la

 

sua fisionomìa. Senza più vita e splendore,  i suoi occhi sembrava

 

non  avessero più pupille,  per modo ch'io distolsi il mio sguardo

 

di su quella vitrea immobilità e lo posai sulle sue labbra sottili

 

che apparivano, in quel punto, contratte. Ed esse s'aprirono e con

 

un riso il quale apparve subito carico  di  mille  significati,  i

 

denti  della  nuova  Berenice  furono lentamente rivelati alla mia

 

vista. Così volesse il Cielo che io non li avessi mai veduti!... O

 

che almeno, una volta veduti, io non fossi subito morto!

 

 

Il rumore d'una porta richiusa mi scosse da una sorta  di  torpore

 

e,  buttato uno sguardo in giro per la biblioteca,  mi accorsi che

 

mia cugina l'aveva abbandonata.  Ma il mio  cervello,  eccitato  e

 

sconvolto, non sarebbe mai stato abbandonato dal bianco e sinistro

 

aspetto  di  quei denti.  La loro superficie non presentava alcuna

 

screpolatura, non alcuna ombra il loro purissimo smalto,  sul loro

 

filo  non  era  il minimo intacco!  Era stato sufficiente quel suo

 

breve riso a fissarmene per sempre l'immagine nella memoria.