Ed io

 

potevo vederli,  ora che essa non era più dinanzi a me,  assai più

 

distintamente  di  quanto  non li avessi già visti nella realtà...

 

quei denti, oh! quei denti... erano dappertutto,  visibili davanti

 

a me,  ed io potevo perfino toccarli...  lunghi erano e stretti, e

 

terribilmente  bianchi,  nel  mentre  che  le  pallide  labbra  si

 

contraevano    sopra  di  essi,  come  nell'istante  in  cui mi si

 

rivelarono per la prima volta.  Fui  nuovamente  posseduto,  così,

 

dalla  furia  della  mia  monomanìa  e  fu  invano  che lottai per

 

sottrarmi al suo strano ed irresistibile influsso.  Ed  arrivai  a

 

non  essere  capace  di  nutrire  alcun  altro  pensiero che fosse

 

estraneo a quei terribili denti. Provavo,  per essi,  un frenetico

 

desiderio  e,  come  se  fosse  assorbita  da  quella  particolare

 

contemplazione, sparì ogni altra materia d'interesse. Essi ed essi

 

soli furono sempre, da allora,  presenti all'animo mio e in quella

 

loro singolare individualità divennero come l'intima essenza della

 

mia vita spirituale.  Io, per l'intanto, li andavo considerando in

 

ogni loro aspetto,  studiavo le loro caratteristiche e indugiavo a

 

riflettere  sulla  loro conformazione,  meditavo sulle alterazioni

 

della loro pàtina e rabbrividivo al pensiero che  potessero  esser

 

dotati  di  sensibilità e come d'una facoltà di sentire ed ancora,

 

sebbene fossero privi delle labbra,  d'una capacità di espressione

 

morale. Furono dette molte cose a proposito di Mademoiselle Sallé,

 

"que  tous  ses pas etaient des sentiments",  e,  di Berenice,  io

 

credetti sul serio QUE TOUS  SES  DENTS  ETAIENT  DES  IDEES.  DES

 

IDEES!...   Ecco  lo  sciocco  pensiero  che  mi  annientava!  DES

 

IDEES!...  Era forse solo per questo che io  ero  portato  fino  a

 

idolatrarti!  Io sentivo che soltanto se li avessi posseduti avrei

 

ritrovato la mia pace, sarei tornato sullo smarrito sentiero della

 

ragione.

 

E la sera si chiuse in tal  modo  su  me  e  vennero  le  tenebre,

 

soggiornarono  e  poi  se  ne  andarono e spuntò un altro giorno e

 

nuovamente le notturne ombre si raccolsero e ancora s'addensarono,

 

ma io restavo seduto, senza muovermi, solo,  nella mia stanza,  ed

 

ero assorto completamente a meditare,  nel mentre che il terribile

 

fantasma dei denti di Berenice manteneva su di me la sua  sinistra

 

influenza  e  volteggiava  intorno  a  me,  variando  in  una  con

 

l'alternarsi della luce e dell'ombra.

 

Ma tra quei sogni avvenne,  a un tratto,  che irrompesse un grido,

 

simile  a  quello di un'anima sopraffatta dal terrore e,  dopo una

 

pausa,  avvenne che gli tenesse dietro un suono d'afflitte e meste

 

voci e di sordi,  dolorosi e affannosi lamenti.  Mi drizzai,  d'un

 

subito,  in piedi,  e spalancata una delle porte della biblioteca,

 

vidi nell'anticamera una fante che,  sciogliendosi in lacrime,  mi

 

narrò come Berenice non fosse più.

 

Essa era stata colpita,  all'alba,  da  un'attacco  di  epilessia.

 

Giunta la sera,  il sepolcro attendeva l'ospite sua.  Ed ogni cosa

 

era preparata per la funebre cerimonia.

 

 

Ero nuovamente seduto nella mia biblioteca ed ero solo.  E  ancora

 

credevo  d'essermi desto da un sogno angoscioso e non bene chiaro.

 

Sapevo che la notte era,  in quel  punto,  al  suo  mezzo,  e  che

 

Berenice  era  stata inumata al calar del sole.  E nondimeno,  dei

 

paurosi istanti ch'erano seguiti,  non riuscivo a ricordar  nulla.

 

La mia memoria era piena soltanto del terrore,  il quale era tanto

 

più orribile in quanto era vago e in quanto,  del pari,  esso  era

 

ambiguo.  Una  paurosa pagina della mia vita era stata scritta con

 

oscure e indecifrabili  memorie  di  raccapriccio.  Tutti  i  miei

 

sforzi intesi a decifrarla furono vani, epperò, di tanto in tanto,

 

come lo spirito d'un suono svanito, il grido penetrante d'una voce

 

femminile  sembrava  risuonare  alle  mie  orecchie.  Avevo  fatto

 

qualcosa. Ma che cosa? Me lo chiedevo ad alta voce, e sempre l'eco

 

della stanza bisbigliava, in risposta, "che cosa?".

 

Sul tavolo accanto a me,  ardeva un lume e vicino ad esso era  una

 

piccola scatola. La sua foggia non presentava nulla di notevole ed

 

io l'avevo già veduta altre volte, prima d'allora, poiché essa era

 

appartenuta  al medico della mia famiglia.  Ma quale poteva essere

 

la ragione per cui essa era là,  sul mio tavolo?  E  sopra  tutto,

 

perché rabbrividivo,  nel guardarla?  Erano cose, per certo, a cui

 

non metteva conto di far caso e i miei occhi caddero, così,  sulla

 

pagina  aperta  d'un  libro,  su  una  frase che in essa era stata

 

sottolineata.  Erano alcune  semplici  e  pur  tuttavia  singolari

 

parole  del poeta Ebn Zaiat: "Dicebant mihi sodales,  si sepulcrum

 

amice visitarem, curas meas aliquantulum fore levàtas". Ma perché,

 

nel mentre che io scorrevo,  i capelli mi si drizzarono sul capo e

 

il sangue mi si agghiacciò nelle vene?

 

Ed  in  quel  punto  s'udì  un  lieve  picchiare  alla porta della

 

biblioteca e un famiglio si fece innanzi,  in punta di  piedi,  ed

 

era  più  pallido  che  l'ospite  di una tomba.  Il suo occhio era

 

stravolto  dal  terrore  e  la  sua  voce  era  tremante,   rauca,

 

bassissima.  Che  cosa  disse?  Udii solo delle frasi rotte.  Egli

 

raccontò d'un urlo selvaggio che  aveva  incrinato  la  silenziosa

 

pace  della  notte  e  come  l'intera servitù si fosse adoperata a

 

ricercare nella direzione da cui il grido sembrava scaturito e  la

 

sua  voce,  a  questo punto,  si fece più chiara e penetrante e mi

 

sussurrò  all'orecchio  d'una  tomba  violata  e   d'una   spoglia

 

sfigurata  cui  era stato tolto il sudario...  e d'essa che ancora

 

respirava, che ancor palpitava... che era ancor viva!

 

Puntò un dito sui miei abiti.  Essi erano  lordi  di  fango  e  di

 

sangue. E mi prese dolcemente una mano, come per mostrargliela, ed

 

io vidi che su di essa s'erano impressi i segni di unghie umane. E

 

poi  richiamò la mia attenzione su di un oggetto poggiato al muro.

 

Mi volsi a guardarlo: era una vanga.

 

Scattai, allora,  in piedi e mi diressi urlando verso la tavola: e

 

afferrai  la  scatola  che  era vicina al lume.  Ma non riuscii ad

 

aprirla e poiché tremavo in tutte le  giunture,  essa  mi  scivolò

 

dalle mani e cadde in terra,  pesantemente,  e si ruppe in pezzi e

 

da  essa,  con  uno  strepito  che  risuonò  per  tutta  la  casa,

 

rotolarono  fuori  degli strumenti di chirurgia dentaria e ancora,

 

mescolati  a  quelli,   trentadue  piccole  bianche  cose   simili

 

all'avorio, ed esse si sparpagliarono qua e là, per terra.

 

 

 

2. Eleonora.

 

"Sub conservatione formae specicae salva anima".

 

Raimondo Lullo.

 

 

Io appartengo a una stirpe nota per vigore di fantasia e ardore di

 

passione.  Gli  uomini  mi  hanno chiamato pazzo;  ma ancora non è

 

risolta la questione se la pazzia sia o non sia l'intelligenza più

 

elevata,  se molto di ciò che è  glorioso,  se  tutto  ciò  che  è

 

profondo,  non  scaturisca da una malattia del pensiero,  da umori

 

della mente esaltati a spese dell'intelletto generale.  Coloro che

 

sognano  a  occhi  aperti  avvertono molte cose che sfuggono a chi

 

sogna soltanto di notte.  Nelle loro grigie visioni essi afferrano

 

squarci  d'eternità,   e  svegliandosi  vibrano  intimamente  allo

 

scoprire di essere stati sul limitare del gran segreto.  A tratti,

 

imparano qualcosa della sapienza che riguarda il bene, e  qualcosa

 

di  più  sulla pura conoscenza del male.  Penetrano,  benché senza

 

bussola e timone,  nel vasto oceano della ' luce  ineffabile  '  e

 

ancora,  come gli avventurieri del geografo nubiano, "agressi sunt

 

mare tenebrarum, quid in eo esset exploraturi".

 

Diremo  allora  che  sono  pazzo.  Ammetto,  almeno,  che  la  mia

 

esistenza mentale ha due condizioni distinte: uno stato di ragione

 

lucida,  indiscutibile,  e  relativa  alla  memoria  di eventi che

 

formano la prima epoca della mia vita,  e una condizione d'ombra e

 

di  dubbio,  legata  al  presente  e  al  ricordo  di  quella  che

 

costituisce la seconda grande epoca della mia vita.  Perciò quanto

 

dirò  del  periodo precedente credetelo;  e a quanto potrò narrare

 

del tempo successivo date solo quel credito che vi sembri  dovuto;

 

o,  se non saprete dubitarne, comportatevi come Edipo di fronte al

 

suo enigma.  La donna che amai in gioventù e della quale vergo ora

 

calmo e preciso questi ricordi,  era figlia unica della sorella di

 

mia madre, da tempo dipartita. Eleonora era il nome di mia cugina.

 

Avevamo sempre vissuto insieme,  sotto un  sole  tropicale,  nella

 

Valle  dell'Erba  Multicolore.  Mai passo fortuito giunse a quella

 

valle; poiché giaceva lontano fra una catena di alture giganti che

 

la sovrastavano tutt'intorno, escludendo la luce del sole dai suoi

 

più dolci recessi. Non un sentiero era battuto in vicinanza; e per

 

raggiungere la nostra casa felice bisognava scostare con la  forza

 

il  fogliame  di  molte  migliaia  di  alberi  della  foresta,   e

 

schiacciare mortalmente  le  glorie  di  molti  milioni  di  fiori

 

fragranti.  E  così  vivevamo  soli,  senza nulla sapere del mondo

 

oltre la valle, io, mia cugina e sua madre.

 

Dalle  regioni  indistinte  oltre  le  montagne   che   limitavano

 

all'estremità  superiore  il  nostro  dominio isolato,  sbucava un

 

fiume stretto e profondo, più lucente d'ogni altra cosa tranne gli

 

occhi di Eleonora;  e serpeggiando  lento  in  molti  meandri,  si

 

allontanava  infine  attraverso  una gola ombrosa tra alture ancor

 

più indistinte di quelle da cui era scaturito. Noi lo chiamavamo '

 

Fiume del Silenzio '; poiché nel suo fluire pareva ìnsito un alone

 

taciturno.  Non  un  mormorìo  sorgeva  dal  suo  letto,   e  così

 

dolcemente  errava  seguendo  il suo corso che i ciottoli perlacei

 

cari al nostro sguardo, giù in fondo al suo seno, non si muovevano

 

per nulla,  ma giacevano in immobile contentezza,  ciascuno al suo

 

vecchio posto, brillando gloriosamente perenni.

 

Il margine del fiume, e dei molti abbaglianti ruscelli che per vie

 

oblique  vi  confluivano,  come  pure gli spazi che dai margini si

 

stendevano alle profondità dei corsi d'acqua sino  a  raggiungerne

 

il letto sassoso, questi spiazzi, non meno della valle in tutta la

 

sua   superficie  dal  fiume  alle  montagne  circostanti,   erano

 

tappezzati  di  un'erbetta  tenera,  verde,  fitta,  perfettamente

 

pareggiata  e  profumata  di  vaniglia,  ma talmente costellata di

 

gialli ranuncoli, candide margherite, violette purpuree e asfodeli

 

rossi come rubini,  che la sua generosa bellezza parlava  ad  alta

 

voce ai nostri cuori dell'amore e della gloria di Dio. E qua e là,

 

a  boschi sparsi per quest'erba come intrichi di sogni,  sorgevano

 

alberi fantastici,  i cui tronchi slanciati non erano  diritti  ma

 

s'inclinavano   graziosamente   verso   la  luce  affacciantesi  a

 

mezzogiorno sul centro della valle. La loro corteccia si variegava

 

d'uno splendore alterno d'ebano  e  argento,  ed  era  più  liscia

 

d'ogni  cosa  tranne  le guance d'Eleonora;  cosicché se non fosse

 

stato per il verde brillante delle enormi foglie che dalle cime si

 

spandevano a lunghe linee tremule,  scherzando con gli zefiri,  li

 

si  sarebbe potuti scambiare per giganteschi serpenti di Siria che

 

rendessero omaggio al loro Sovrano, il Sole.

 

La mano nella mano,  per questa valle ben quindici anni vagai  con

 

Eleonora prima che Amore entrasse nei nostri cuori. Fu una sera al

 

volgere del terzo lustro della sua vita,  e quarto della mia,  che

 

ci  sedemmo  stretti  in  reciproco  abbraccio  sotto  gli  alberi

 

serpentini,  e  abbassando  lo  sguardo  sul Fiume del Silenzio vi

 

cercammo, nel vivo dell'acqua, le nostre immagini. Per il resto di

 

quella dolce giornata non dicemmo una parola; e anche all'indomani

 

le  nostre  parole  furono  tremule  e  rade.  Avevamo  tratto  da

 

quell'onda  il dio Eros,  e ora sentivamo che egli ci aveva acceso

 

dentro le anime di fuoco degli antenati. Le passioni che da secoli

 

contraddistinguevano la nostra stirpe  affiorarono  in  folla  con

 

gli impeti visionari per cui andava altrettanto famosa,  e assieme

 

spirarono   una   delirante   felicità   sulla   Valle   dell'Erba

 

Multicolore.  Colse ogni cosa un mutamento. Strani fiori brillanti

 

a forma di stella scoppiarono sugli  alberi  dove  non  s'era  mai

 

vista  traccia di fiore.  Le tinte del tappeto verde si fecero più

 

intense;   e  quando  ad    una  ad  una  appassirono  le  bianche

 

margherite,  sbocciarono  al  loro  posto  a  dieci  per volta gli

 

asfodeli color del rubino. E la vita trionfava sul nostro cammino;

 

poiché l'alto fenicottero, sinora invisibile,  con tutti gli altri

 

uccelli  allietati da fulgido piumaggio sfoggiava davanti a noi le

 

sue ali scarlatte. Pesci d'oro e d'argento frequentavano il fiume,

 

dal cui seno esalava a poco a poco un mormorìo  crescente  fino  a

 

farsi  soave melodìa più divina dell'arpa eòlia;  più dolce d'ogni

 

altra  voce  tranne  quella  d'Eleonora.   E  ora  pure  una  nube

 

voluminosa, che avevamo a lungo osservato nelle regioni di Espero,

 

ne  salpò,  in uno sfarzo di crèmisi e d'oro,  e fermatasi in pace

 

sopra di noi affondò di giorno in giorno sempre di più, finché non

 

giunse  a  poggiare  con  gli  orli   sulle   vette   dei   monti,

 

convertendone  la  penombra in splendore e rinserrandoci sempre in

 

una magica prigione di grandiosità e di gloria.  La leggiadrìa  di

 

Eleonora  era  quella  dei serafini;  ma la fanciulla era ignara e

 

innocente come la sua breve vita trascorsa tra  i  fiori.  Nessuna

 

astuzia  mascherava  il fervido amore che le avvivava il cuore,  e

 

con me essa esaminò i  suoi  più  intimi  recessi  mentre  insieme

 

passeggiavamo  per la Valle dell'Erba Multicolore,  e discorrevamo

 

dei grandi cambiamenti che vi si erano prodotti.

 

Finalmente,  avendo parlato  un  giorno,  tutta  in  lacrime,  del

 

mutamento estremo che doveva incogliere all'Umanità,  da allora in

 

poi si soffermò unicamente su questo tema  doloroso,  intessendolo

 

in tutto il nostro conversare, come nelle canzoni del bardo Sciraz

 

si   vedono  ricorrere  più  volte  le  stesse  immagini  in  ogni

 

espressiva variazione di fraseggio.

 

Aveva visto che il dito della Morte era sul suo petto, che al pari

 

della effimera essa era stata fatta in perfezione  di  forme  solo

 

per morire; ma i terrori della tomba, per lei, stavano soltanto in

 

una  considerazione  che  mi rivelò,  in un crepuscolo vespertino,

 

presso le rive del Fiume del Silenzio.  La addolorava il  pensiero

 

che io,  dopo averla inumata nella Valle dell'Erba Multicolore, ne

 

abbandonassi per sempre i recessi felici,  per  donare  a  qualche

 

fanciulla  del  mondo  esterno e quotidiano l'amore che adesso era

 

così appassionatamente suo.  E io subito mi  gettai  ai  piedi  di

 

Eleonora,  e  feci  voto  a  lei  e al Cielo di non legarmi mai in

 

matrimonio a nessuna figlia della Terra,  di non  venir  mai  meno

 

alla  sua  cara memoria,  o alla memoria del devoto affetto che mi

 

aveva elargito.  E invocai il Re Sovrano dell'Universo a testimone

 

della pia solennità del mio voto. E la maledizione che da Lui e da

 

lei,  santa d'Helusion, invocai, qualora tradissi quella promessa,

 

comportava un castigo di tale immenso orrore  che  non  posso  qui

 

precisarlo.  E  gli  occhi  luminosi    di Eleonora si fecero  più

 

luminosi alle mie parole;  e sospirò come se un  peso  mortale  le

 

fosse  stato  levato  dal petto;  e tremò e amaramente pianse;  ma

 

accettò il voto (era forse altro che una bambina?) ed esso le rese

 

lieve il morire.  E dal letto della sua morte tranquilla mi  disse

 

di    a non molti giorni,  che a causa di quanto avevo fatto per

 

confortare il suo spirito,  in quello spirito avrebbe vegliato  su

 

di me dopo la dipartita, e se le era concesso sarebbe visibilmente

 

tornata a me nelle veglie notturne;  ma che se questa cosa non era

 

in  potere  delle  anime  del  Paradiso,  mi  avrebbe  almeno dato

 

frequenti indizi della sua presenza; sospirando su di me nei venti

 

della sera,  o riempiendo l'aria che respiravo di profumi  esalati

 

dagli  incensieri  degli angeli.  E con queste parole sulle labbra

 

rese a Dio la sua vita innocente,  ponendo fine alla  prima  epoca

 

della mia vita.

 

Finora  ho parlato in modo veritiero.  Ma varcando la barriera che

 

la morte della mia amata forma nel sentiero del Tempo,  e passando

 

alla   seconda   epoca  della  mia    esistenza,   sento  un'ombra

 

addensarmisi sul cervello e diffido della lucidità o attendibilità

 

dei  miei  ricordi.  Ma  proseguiamo.  Gli  anni  si  trascinavano

 

pesanti,  e ancora dimoravo nella Valle dell'Erba Multicolore;  ma

 

un secondo mutamento era sopraggiunto in tutte  le cose. I fiori a

 

forma di stella si ritrassero nei  tronchi  degli  alberi,  e  non

 

ricomparvero più.  Le tinte del tappeto verde svanirono;  e ad uno

 

ad uno gli asfodeli color del rubino avvizzirono;  e al loro posto

 

spuntarono scure viole simili ad occhi,  che si torcevano inquiete

 

sotto un gravame perpetuo di rugiada.  E la Vita si allontanò  dai

 

nostri sentieri; poiché l'alto fenicottero non sfoggiò più davanti

 

a noi il suo piumaggio scarlatto, ma triste svolò dalla valle alle

 

colline,  con  tutti  i fulvidi uccelli che in sua compagnia erano

 

giunti ad allietarci. E i pesci d'oro e d'argento guizzarono fuori

 

dalla gola che delimitava il nostro dominio dalla parte più  bassa

 

e  non  animarono  più  il  dolce  fiume.  E  la soave melodia più

 

delicata dell'arpa eòlia mossa dal vento e più divina d'ogni altra

 

voce tranne quella d'Eleonora,  morì  a  poco  a  poco,  facendosi

 

sempre  più  sommessa  nel  suo  mormorio,  finché  il  fiume  non

 

risprofondò nella solennità del suo silenzio originario. E poi, da

 

ultimo la nube voluminosa si alzò,  e  abbandonando  le  cime  dei

 

monti all'antica penombra ricadde nelle regioni di Espero, e privò

 

di tutta la sua gloria d'oro la Valle dell'Erba Multicolore.

 

Eppure  le  promesse  di  Eleonora non furono dimenticate;  poiché

 

udivo il suono degli oscillanti incensieri degli  angeli;  fiumane

 

di  sacro  profumo  aleggiavano  perenni sulla valle;  e nelle ore

 

solitarie,  quando  il  cuore  mi  batteva  più  greve,   i  venti

 

giungevano  alla  mia fronte carichi di tenui sospiri;  e mormorii

 

indistinti spesso riempivano l'aria notturna; e una volta - oh, ma

 

solo una volta!  - mi destò da un sonno come di morte il bacio  di

 

labbra spirituali.

 

Ma  anche  così  il  vuoto  del mio cuore non si colmava.  Anelavo

 

all'amore che un tempo l'aveva riempito fino a  traboccarne.  Alla

 

fine  la  valle mi riuscì penosa per il ricordo di Eleonora,  e la

 

lasciai per sempre per le vanità e i turbolenti trionfi del mondo.

 

Mi trovavo in una città straniera,  dove tutto  poteva  giovare  a

 

cancellarmi  dal  ricordo i dolci sogni così a lungo sognati nella

 

Valle  dell'Erba  Multicolore.   Fasto  e  cerimonie  d'una  corte

 

maestosa,  e il folle strepito delle armi, e la raggiante bellezza

 

delle donne,  mi stordivano d'ebbrezza.  Ma finora l'anima mia  si

 

era  mantenuta  fedele ai suoi voti,  e ancora mi giungevano nelle

 

silenziose ore notturne gli indizi della presenza di Eleonora.  Di

 

colpo  queste  manifestazioni  cessarono;  e  il  mondo  si oscurò

 

davanti ai miei occhi; e rimasi allibito ai pensieri brucianti che

 

mi possedevano,  alle terribili  tentazioni  che  mi  insidiavano;

 

poiché da qualche terra lontana, lontana e sconosciuta, venne alla

 

gaia  corte  del  re  che  servivo una fanciulla alla cui bellezza

 

tutto il mio cuore infedele  subito  cedette;  ai  suoi  piedi  mi

 

chinai  senza  lotta,   nella  più  ardente,   nella  più  schiava

 

adorazione d'amore.  E che cos'era infatti la mia passione per  la

 

giovinetta  della  valle  in  confronto  al fervore,  al delirio e

 

all'esaltante estasi di adorazione con cui  riversavo  in  lacrime

 

tutta  l'anima mia ai piedi dell'etèrea Ermengarda?  Oh,  luminosa

 

era la serafica Ermengarda!  e in questa certezza non avevo  posto

 

per altra. Oh, divina era l'angelica Ermengarda! e guardando nelle

 

profondità  dei  suoi  occhi memori pensavo soltanto ad essi;  e a

 

lei.

 

Mi sposai;  e non temetti la maledizione che avevo invocato;  e la

 

sua  amarezza  non  mi  fu inflitta.  E una volta,  solo una volta

 

ancora  nel  silenzio  della  notte,  mi  giunsero  attraverso  le

 

persiane  i  tenui  sospiri  che  mi  avevano  abbandonato;  e  si

 

modellarono in una voce soave e familiare, che diceva:

 

"Dormi in  pace!  perché  lo  Spirito  d'Amore  regna  sovrano,  e

 

stringendo  al  tuo cuore appassionato colei che è Ermengarda,  tu

 

sei sciolto,  per ragioni che ti saranno rese note in  Cielo,  dai

 

tuoi voti verso Eleonora".

 

 

 

 

 

 

3. Morella.

 

"Esso stesso, di per sé solo, eternamente UNO, e singolo".

 

Platone, "Il Simposio".

 

 

Con  un senso di affetto profondo e pur singolarissimo consideravo

 

la mia amica Morella.  Capitato a godere della sua compagnia molti

 

anni fa, sin dal primo incontro l'anima mia arse di fuochi che non

 

aveva  mai  conosciuto;  ma i fuochi non erano di Eros,  e amara e

 

tormentosa per il mio  spirito  la  graduale  convinzione  di  non

 

poterne affatto definire l'insolito significato o regolare la vaga

 

intensità.  Eppure ci incontrammo; e il fato ci legò all'altare; e

 

io non parlai mai di  passione    pensai  all'amore.  Essa  però

 

rifuggiva  dalla vita di società,  e attaccandosi a me soltanto mi

 

rese felice.  E' una  felicità  vivere  nella  meraviglia;  è  una

 

felicità sognare.

 

L'erudizione  di  Morella era profonda.  Quant'è vero che spero di

 

vivere,  il suo ingegno era fuori  del  comune,  le  sue  capacità

 

mentali  gigantesche.  Io lo sentivo,  e in molte cose divenni suo

 

alunno.  Mi accorsi però ben presto che,  forse a causa  dei  suoi

 

studi fatti a Presburgo, essa mi proponeva molti di quegli scritti

 

mistici  che  vengono  solitamente considerati una semplice scoria

 

della letteratura tedesca  primitiva.  Per  una  ragione  che  non

 

potevo  immaginare,  essi  divennero  il  suo  studio  favorito  e

 

costante,  e che con l'andar del tempo dovesse succedere la stessa

 

cosa  a  me  bisogna  attribuirlo al semplice ma efficace influsso

 

dell'abitudine e dell'esempio.

 

In  tutto  questo,  se  non  sbaglio,  la  mia  ragione  ben  poco

 

c'entrava.  Le mie convinzioni, purché la memoria non mi tradisca,

 

non subirono  affatto  l'influsso  dell'ideale,  e,  salvo  grande

 

errore,  le  mie  letture  mistiche  non lasciarono traccia alcuna

 

sulle mie azioni  o  pensieri.  Persuaso  di  ciò,  mi  abbandonai

 

implicitamente  alla  guida di mia moglie,  e mi addentrai a cuore

 

saldo nel groviglio dei suoi studi.  E allora  -  allora,  quando,

 

meditando su pagine proibite,  sentivo accendersi dentro di me uno

 

spirito proibito - Morella poneva sulla mia la sua fredda mano,  e

 

dalle  ceneri  d'una filosofia morta smuoveva sommesse,  singolari

 

parole,  il cui strano significato si stampava a fuoco  nella  mia

 

memoria.  E  allora,  di ora in ora,  indugiavo al suo fianco e mi

 

soffermavo sulla musica della sua voce,  sinché alla fine  la  sua

 

melodìa non si macchiava di terrore,  e un'ombra cadeva sull'anima

 

mia,  ed io impallidivo,  internamente rabbrividendo a  quei  toni

 

troppo ultraterreni.  E così la gioia svaniva in subitaneo orrore,

 

e  ciò  che  era  vi  era  di  più  bello  diveniva   quanto   mai

 

spaventevole, come Hinnon divenne Ge-Henna.

 

Non  è  necessario  precisare  il carattere di quelle disposizioni

 

che,  prendendo lo spunto dai volumi menzionati,  per tanto  tempo

 

formarono quasi l'unica conversazione fra Morella e me. I dotti in

 

quella  che  si  potrebbe  chiamare morale teologica se ne faranno

 

prontamente un'idea,  e i profani comunque non ne capirebbero gran

 

che.   Lo  sfrenato  panteismo  di  Fichte;  '  la  palingenesi  '

 

modificata   dei   pitagorici;    e   soprattutto   le    dottrine

 

dell'IDENTITA'   caldeggiate  da  Shelling  erano  in  genere  gli

 

argomenti che più  attraevano  per  la  loro  bellezza  la  vivace

 

fantasia  di  Morella.  Quell'identità  che si chiama personale il

 

signor  Locke,  credo,   la  definisce  opportunamente  come  sano

 

equilibrio  di  un  essere  razionale.  E  siccome intendiamo come

 

persona un'essenza  intelligente fornita di  ragione,  e  c'è  una

 

coscienza che sempre accompagna il pensiero,  è questo appunto che

 

fa di noi tutti ciò che chiamiamo NOI STESSI,  così distinguendoci

 

da altri esseri pensanti, e conferendoci un'identità personale.