Ed io
potevo vederli, ora che essa non era più dinanzi a me, assai più
distintamente di quanto non li avessi già visti nella realtà...
quei denti, oh! quei denti... erano dappertutto, visibili davanti
a me, ed io potevo perfino toccarli... lunghi erano e stretti, e
terribilmente bianchi, nel mentre che le pallide labbra si
contraevano sopra di essi, come nell'istante in cui mi si
rivelarono per la prima volta. Fui nuovamente posseduto, così,
dalla furia della mia monomanìa e fu invano che lottai per
sottrarmi al suo strano ed irresistibile influsso. Ed arrivai a
non essere capace di nutrire alcun altro pensiero che fosse
estraneo a quei terribili denti. Provavo, per essi, un frenetico
desiderio e, come se fosse assorbita da quella particolare
contemplazione, sparì ogni altra materia d'interesse. Essi ed essi
soli furono sempre, da allora, presenti all'animo mio e in quella
loro singolare individualità divennero come l'intima essenza della
mia vita spirituale. Io, per l'intanto, li andavo considerando in
ogni loro aspetto, studiavo le loro caratteristiche e indugiavo a
riflettere sulla loro conformazione, meditavo sulle alterazioni
della loro pàtina e rabbrividivo al pensiero che potessero esser
dotati di sensibilità e come d'una facoltà di sentire ed ancora,
sebbene fossero privi delle labbra, d'una capacità di espressione
morale. Furono dette molte cose a proposito di Mademoiselle Sallé,
"que tous ses pas etaient des sentiments", e, di Berenice, io
credetti sul serio QUE TOUS SES DENTS ETAIENT DES IDEES.
DES
IDEES!... Ecco lo sciocco pensiero che mi annientava! DES
IDEES!... Era forse solo per questo che io ero portato fino a
idolatrarti! Io sentivo che soltanto se li avessi posseduti avrei
ritrovato la mia pace, sarei tornato sullo smarrito sentiero della
ragione.
E la sera si chiuse in tal modo su me e vennero le tenebre,
soggiornarono e poi se ne andarono e spuntò un altro giorno e
nuovamente le notturne ombre si raccolsero e ancora s'addensarono,
ma io restavo seduto, senza muovermi, solo, nella mia stanza, ed
ero assorto completamente a meditare, nel mentre che il terribile
fantasma dei denti di Berenice manteneva su di me la sua sinistra
influenza e volteggiava intorno a me, variando in una con
l'alternarsi della luce e dell'ombra.
Ma tra quei sogni avvenne, a un tratto, che irrompesse un grido,
simile a quello di un'anima sopraffatta dal terrore e, dopo una
pausa, avvenne che gli tenesse dietro un suono d'afflitte e meste
voci e di sordi, dolorosi e affannosi lamenti. Mi drizzai, d'un
subito, in piedi, e spalancata una delle porte della biblioteca,
vidi nell'anticamera una fante che, sciogliendosi in lacrime, mi
narrò come Berenice non fosse più.
Essa era stata colpita, all'alba, da un'attacco di epilessia.
Giunta la sera, il sepolcro attendeva l'ospite sua. Ed ogni cosa
era preparata per la funebre cerimonia.
Ero nuovamente seduto nella mia biblioteca ed ero solo. E ancora
credevo d'essermi desto da un sogno angoscioso e non bene chiaro.
Sapevo che la notte era, in quel punto, al suo mezzo, e che
Berenice era stata inumata al calar del sole. E nondimeno, dei
paurosi istanti ch'erano seguiti, non riuscivo a ricordar nulla.
La mia memoria era piena soltanto del terrore, il quale era tanto
più orribile in quanto era vago e in quanto, del pari, esso era
ambiguo. Una paurosa pagina della mia vita era stata scritta con
oscure e indecifrabili memorie di raccapriccio. Tutti i miei
sforzi intesi a decifrarla furono vani, epperò, di tanto in tanto,
come lo spirito d'un suono svanito, il grido penetrante d'una voce
femminile sembrava risuonare alle mie orecchie. Avevo fatto
qualcosa. Ma che cosa? Me lo chiedevo ad alta voce, e sempre l'eco
della stanza bisbigliava, in risposta, "che cosa?".
Sul tavolo accanto a me, ardeva un lume e vicino ad esso era una
piccola scatola. La sua foggia non presentava nulla di notevole ed
io l'avevo già veduta altre volte, prima d'allora, poiché essa era
appartenuta al medico della mia famiglia. Ma quale poteva essere
la ragione per cui essa era là, sul mio tavolo? E sopra tutto,
perché rabbrividivo, nel guardarla? Erano cose, per certo, a cui
non metteva conto di far caso e i miei occhi caddero, così, sulla
pagina aperta d'un libro, su una frase che in essa era stata
sottolineata. Erano alcune semplici e pur tuttavia singolari
parole del poeta Ebn Zaiat: "Dicebant mihi sodales, si sepulcrum
amice visitarem, curas meas aliquantulum fore levàtas". Ma perché,
nel mentre che io scorrevo, i capelli mi si drizzarono sul capo e
il sangue mi si agghiacciò nelle vene?
Ed in quel punto s'udì un lieve picchiare alla porta della
biblioteca e un famiglio si fece innanzi, in punta di piedi, ed
era più pallido che l'ospite di una tomba. Il suo occhio era
stravolto dal terrore e la sua voce era tremante, rauca,
bassissima. Che cosa disse? Udii solo delle frasi rotte. Egli
raccontò d'un urlo selvaggio che aveva incrinato la silenziosa
pace della notte e come l'intera servitù si fosse adoperata a
ricercare nella direzione da cui il grido sembrava scaturito e la
sua voce, a questo punto, si fece più chiara e penetrante e mi
sussurrò all'orecchio d'una tomba violata e d'una spoglia
sfigurata cui era stato tolto il sudario... e d'essa che ancora
respirava, che ancor palpitava... che era ancor viva!
Puntò un dito sui miei abiti. Essi erano lordi di fango e di
sangue. E mi prese dolcemente una mano, come per mostrargliela, ed
io vidi che su di essa s'erano impressi i segni di unghie umane. E
poi richiamò la mia attenzione su di un oggetto poggiato al muro.
Mi volsi a guardarlo: era una vanga.
Scattai, allora, in piedi e mi diressi urlando verso la tavola: e
afferrai la scatola che era vicina al lume. Ma non riuscii ad
aprirla e poiché tremavo in tutte le giunture, essa mi scivolò
dalle mani e cadde in terra, pesantemente, e si ruppe in pezzi e
da essa, con uno strepito che risuonò per tutta la casa,
rotolarono fuori degli strumenti di chirurgia dentaria e ancora,
mescolati a quelli, trentadue piccole bianche cose simili
all'avorio, ed esse si sparpagliarono qua e là, per terra.
2. Eleonora.
"Sub conservatione formae specicae salva anima".
Raimondo Lullo.
Io appartengo a una stirpe nota per vigore di fantasia e ardore di
passione. Gli uomini mi hanno chiamato pazzo; ma ancora non è
risolta la questione se la pazzia sia o non sia l'intelligenza più
elevata, se molto di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è
profondo, non scaturisca da una malattia del pensiero, da umori
della mente esaltati a spese dell'intelletto generale. Coloro che
sognano a occhi aperti avvertono molte cose che sfuggono a chi
sogna soltanto di notte. Nelle loro grigie visioni essi afferrano
squarci d'eternità, e svegliandosi vibrano intimamente allo
scoprire di essere stati sul limitare del gran segreto. A tratti,
imparano qualcosa della sapienza che riguarda il bene, e qualcosa
di più sulla pura conoscenza del male. Penetrano, benché senza
bussola e timone, nel vasto oceano della ' luce ineffabile ' e
ancora, come gli avventurieri del geografo nubiano, "agressi sunt
mare tenebrarum, quid in eo esset exploraturi".
Diremo allora che sono pazzo. Ammetto, almeno, che la mia
esistenza mentale ha due condizioni distinte: uno stato di ragione
lucida, indiscutibile, e relativa alla memoria di eventi che
formano la prima epoca della mia vita, e una condizione d'ombra e
di dubbio, legata al presente e al ricordo di quella che
costituisce la seconda grande epoca della mia vita. Perciò quanto
dirò del periodo precedente credetelo; e a quanto potrò narrare
del tempo successivo date solo quel credito che vi sembri dovuto;
o, se non saprete dubitarne, comportatevi come Edipo di fronte al
suo enigma. La donna che amai in gioventù e della quale vergo ora
calmo e preciso questi ricordi, era figlia unica della sorella di
mia madre, da tempo dipartita. Eleonora era il nome di mia cugina.
Avevamo sempre vissuto insieme, sotto un sole tropicale, nella
Valle dell'Erba Multicolore. Mai passo fortuito giunse a quella
valle; poiché giaceva lontano fra una catena di alture giganti che
la sovrastavano tutt'intorno, escludendo la luce del sole dai suoi
più dolci recessi. Non un sentiero era battuto in vicinanza; e per
raggiungere la nostra casa felice bisognava scostare con la forza
il fogliame di molte migliaia di alberi della foresta, e
schiacciare mortalmente le glorie di molti milioni di fiori
fragranti. E così vivevamo soli, senza nulla sapere del mondo
oltre la valle, io, mia cugina e sua madre.
Dalle regioni indistinte oltre le montagne che limitavano
all'estremità superiore il nostro dominio isolato, sbucava un
fiume stretto e profondo, più lucente d'ogni altra cosa tranne gli
occhi di Eleonora; e serpeggiando lento in molti meandri, si
allontanava infine attraverso una gola ombrosa tra alture ancor
più indistinte di quelle da cui era scaturito. Noi lo chiamavamo '
Fiume del Silenzio '; poiché nel suo fluire pareva ìnsito un alone
taciturno. Non un mormorìo sorgeva dal suo letto, e così
dolcemente errava seguendo il suo corso che i ciottoli perlacei
cari al nostro sguardo, giù in fondo al suo seno, non si muovevano
per nulla, ma giacevano in immobile contentezza, ciascuno al suo
vecchio posto, brillando gloriosamente perenni.
Il margine del fiume, e dei molti abbaglianti ruscelli che per vie
oblique vi confluivano, come pure gli spazi che dai margini si
stendevano alle profondità dei corsi d'acqua sino a raggiungerne
il letto sassoso, questi spiazzi, non meno della valle in tutta la
sua superficie dal fiume alle montagne circostanti, erano
tappezzati di un'erbetta tenera, verde, fitta, perfettamente
pareggiata e profumata di vaniglia, ma talmente costellata di
gialli ranuncoli, candide margherite, violette purpuree e asfodeli
rossi come rubini, che la sua generosa bellezza parlava ad alta
voce ai nostri cuori dell'amore e della gloria di Dio. E qua e là,
a boschi sparsi per quest'erba come intrichi di sogni, sorgevano
alberi fantastici, i cui tronchi slanciati non erano diritti ma
s'inclinavano graziosamente verso la luce affacciantesi a
mezzogiorno sul centro della valle. La loro corteccia si variegava
d'uno splendore alterno d'ebano e argento, ed era più liscia
d'ogni cosa tranne le guance d'Eleonora; cosicché se non fosse
stato per il verde brillante delle enormi foglie che dalle cime si
spandevano a lunghe linee tremule, scherzando con gli zefiri, li
si sarebbe potuti scambiare per giganteschi serpenti di Siria che
rendessero omaggio al loro Sovrano, il Sole.
La mano nella mano, per questa valle ben quindici anni vagai con
Eleonora prima che Amore entrasse nei nostri cuori. Fu una sera al
volgere del terzo lustro della sua vita, e quarto della mia, che
ci sedemmo stretti in reciproco abbraccio sotto gli alberi
serpentini, e abbassando lo sguardo sul Fiume del Silenzio vi
cercammo, nel vivo dell'acqua, le nostre immagini. Per il resto di
quella dolce giornata non dicemmo una parola; e anche all'indomani
le nostre parole furono tremule e rade. Avevamo tratto da
quell'onda il dio Eros, e ora sentivamo che egli ci aveva acceso
dentro le anime di fuoco degli antenati. Le passioni che da secoli
contraddistinguevano la nostra stirpe affiorarono in folla con
gli impeti visionari per cui andava altrettanto famosa, e assieme
spirarono una delirante felicità sulla Valle dell'Erba
Multicolore. Colse ogni cosa un mutamento. Strani fiori brillanti
a forma di stella scoppiarono sugli alberi dove non s'era mai
vista traccia di fiore. Le tinte del tappeto verde si fecero più
intense; e quando ad una ad una appassirono le bianche
margherite, sbocciarono al loro posto a dieci per volta gli
asfodeli color del rubino. E la vita trionfava sul nostro cammino;
poiché l'alto fenicottero, sinora invisibile, con tutti gli altri
uccelli allietati da fulgido piumaggio sfoggiava davanti a noi le
sue ali scarlatte. Pesci d'oro e d'argento frequentavano il fiume,
dal cui seno esalava a poco a poco un mormorìo crescente fino a
farsi soave melodìa più divina dell'arpa eòlia; più dolce d'ogni
altra voce tranne quella d'Eleonora. E ora pure una nube
voluminosa, che avevamo a lungo osservato nelle regioni di Espero,
ne salpò, in uno sfarzo di crèmisi e d'oro, e fermatasi in pace
sopra di noi affondò di giorno in giorno sempre di più, finché non
giunse a poggiare con gli orli sulle vette dei monti,
convertendone la penombra in splendore e rinserrandoci sempre in
una magica prigione di grandiosità e di gloria. La leggiadrìa di
Eleonora era quella dei serafini; ma la fanciulla era ignara e
innocente come la sua breve vita trascorsa tra i fiori. Nessuna
astuzia mascherava il fervido amore che le avvivava il cuore, e
con me essa esaminò i suoi più intimi recessi mentre insieme
passeggiavamo per la Valle dell'Erba Multicolore, e discorrevamo
dei grandi cambiamenti che vi si erano prodotti.
Finalmente, avendo parlato un giorno, tutta in lacrime, del
mutamento estremo che doveva incogliere all'Umanità, da allora in
poi si soffermò unicamente su questo tema doloroso, intessendolo
in tutto il nostro conversare, come nelle canzoni del bardo Sciraz
si vedono ricorrere più volte le stesse immagini in ogni
espressiva variazione di fraseggio.
Aveva visto che il dito della Morte era sul suo petto, che al pari
della effimera essa era stata fatta in perfezione di forme solo
per morire; ma i terrori della tomba, per lei, stavano soltanto in
una considerazione che mi rivelò, in un crepuscolo vespertino,
presso le rive del Fiume del Silenzio. La addolorava il pensiero
che io, dopo averla inumata nella Valle dell'Erba Multicolore, ne
abbandonassi per sempre i recessi felici, per donare a qualche
fanciulla del mondo esterno e quotidiano l'amore che adesso era
così appassionatamente suo. E io subito mi gettai ai piedi di
Eleonora, e feci voto a lei e al Cielo di non legarmi mai in
matrimonio a nessuna figlia della Terra, di non venir mai meno
alla sua cara memoria, o alla memoria del devoto affetto che mi
aveva elargito. E invocai il Re Sovrano dell'Universo a testimone
della pia solennità del mio voto. E la maledizione che da Lui e da
lei, santa d'Helusion, invocai, qualora tradissi quella promessa,
comportava un castigo di tale immenso orrore che non posso qui
precisarlo. E gli occhi luminosi di Eleonora si fecero più
luminosi alle mie parole; e sospirò come se un peso mortale le
fosse stato levato dal petto; e tremò e amaramente pianse; ma
accettò il voto (era forse altro che una bambina?) ed esso le rese
lieve il morire. E dal letto della sua morte tranquilla mi disse
di lì a non molti giorni, che a causa di quanto avevo fatto per
confortare il suo spirito, in quello spirito avrebbe vegliato su
di me dopo la dipartita, e se le era concesso sarebbe visibilmente
tornata a me nelle veglie notturne; ma che se questa cosa non era
in potere delle anime del Paradiso, mi avrebbe almeno dato
frequenti indizi della sua presenza; sospirando su di me nei venti
della sera, o riempiendo l'aria che respiravo di profumi esalati
dagli incensieri degli angeli. E con queste parole sulle labbra
rese a Dio la sua vita innocente, ponendo fine alla prima epoca
della mia vita.
Finora ho parlato in modo veritiero. Ma varcando la barriera che
la morte della mia amata forma nel sentiero del Tempo, e passando
alla seconda epoca della mia esistenza, sento un'ombra
addensarmisi sul cervello e diffido della lucidità o attendibilità
dei miei ricordi. Ma proseguiamo. Gli anni si trascinavano
pesanti, e ancora dimoravo nella Valle dell'Erba Multicolore; ma
un secondo mutamento era sopraggiunto in tutte le cose. I fiori a
forma di stella si ritrassero nei tronchi degli alberi, e non
ricomparvero più. Le tinte del tappeto verde svanirono; e ad uno
ad uno gli asfodeli color del rubino avvizzirono; e al loro posto
spuntarono scure viole simili ad occhi, che si torcevano inquiete
sotto un gravame perpetuo di rugiada. E la Vita si allontanò dai
nostri sentieri; poiché l'alto fenicottero non sfoggiò più davanti
a noi il suo piumaggio scarlatto, ma triste svolò dalla valle alle
colline, con tutti i fulvidi uccelli che in sua compagnia erano
giunti ad allietarci. E i pesci d'oro e d'argento guizzarono fuori
dalla gola che delimitava il nostro dominio dalla parte più bassa
e non animarono più il dolce fiume. E la soave melodia più
delicata dell'arpa eòlia mossa dal vento e più divina d'ogni altra
voce tranne quella d'Eleonora, morì a poco a poco, facendosi
sempre più sommessa nel suo mormorio, finché il fiume non
risprofondò nella solennità del suo silenzio originario. E poi, da
ultimo la nube voluminosa si alzò, e abbandonando le cime dei
monti all'antica penombra ricadde nelle regioni di Espero, e privò
di tutta la sua gloria d'oro la Valle dell'Erba Multicolore.
Eppure le promesse di Eleonora non furono dimenticate; poiché
udivo il suono degli oscillanti incensieri degli angeli; fiumane
di sacro profumo aleggiavano perenni sulla valle; e nelle ore
solitarie, quando il cuore mi batteva più greve, i venti
giungevano alla mia fronte carichi di tenui sospiri; e mormorii
indistinti spesso riempivano l'aria notturna; e una volta - oh, ma
solo una volta! - mi destò da un sonno come di morte il bacio di
labbra spirituali.
Ma anche così il vuoto del mio cuore non si colmava. Anelavo
all'amore che un tempo l'aveva riempito fino a traboccarne. Alla
fine la valle mi riuscì penosa per il ricordo di Eleonora, e la
lasciai per sempre per le vanità e i turbolenti trionfi del mondo.
Mi trovavo in una città straniera, dove tutto poteva giovare a
cancellarmi dal ricordo i dolci sogni così a lungo sognati nella
Valle dell'Erba Multicolore. Fasto e cerimonie d'una corte
maestosa, e il folle strepito delle armi, e la raggiante bellezza
delle donne, mi stordivano d'ebbrezza. Ma finora l'anima mia si
era mantenuta fedele ai suoi voti, e ancora mi giungevano nelle
silenziose ore notturne gli indizi della presenza di Eleonora. Di
colpo queste manifestazioni cessarono; e il mondo si oscurò
davanti ai miei occhi; e rimasi allibito ai pensieri brucianti che
mi possedevano, alle terribili tentazioni che mi insidiavano;
poiché da qualche terra lontana, lontana e sconosciuta, venne alla
gaia corte del re che servivo una fanciulla alla cui bellezza
tutto il mio cuore infedele subito cedette; ai suoi piedi mi
chinai senza lotta, nella più ardente, nella più schiava
adorazione d'amore. E che cos'era infatti la mia passione per la
giovinetta della valle in confronto al fervore, al delirio e
all'esaltante estasi di adorazione con cui riversavo in lacrime
tutta l'anima mia ai piedi dell'etèrea Ermengarda? Oh, luminosa
era la serafica Ermengarda! e in questa certezza non avevo posto
per altra. Oh, divina era l'angelica Ermengarda! e guardando nelle
profondità dei suoi occhi memori pensavo soltanto ad essi; e a
lei.
Mi sposai; e non temetti la maledizione che avevo invocato; e la
sua amarezza non mi fu inflitta. E una volta, solo una volta
ancora nel silenzio della notte, mi giunsero attraverso le
persiane i tenui sospiri che mi avevano abbandonato; e si
modellarono in una voce soave e familiare, che diceva:
"Dormi in pace! perché lo Spirito d'Amore regna sovrano, e
stringendo al tuo cuore appassionato colei che è Ermengarda, tu
sei sciolto, per ragioni che ti saranno rese note in Cielo, dai
tuoi voti verso Eleonora".
3. Morella.
"Esso stesso, di per sé solo, eternamente UNO, e singolo".
Platone, "Il Simposio".
Con un senso di affetto profondo e pur singolarissimo consideravo
la mia amica Morella. Capitato a godere della sua compagnia molti
anni fa, sin dal primo incontro l'anima mia arse di fuochi che non
aveva mai conosciuto; ma i fuochi non erano di Eros, e amara e
tormentosa per il mio spirito la graduale convinzione di non
poterne affatto definire l'insolito significato o regolare la vaga
intensità. Eppure ci incontrammo; e il fato ci legò all'altare; e
io non parlai mai di passione né pensai all'amore. Essa però
rifuggiva dalla vita di società, e attaccandosi a me soltanto mi
rese felice. E' una felicità vivere nella meraviglia; è una
felicità sognare.
L'erudizione di Morella era profonda. Quant'è vero che spero di
vivere, il suo ingegno era fuori del comune, le sue capacità
mentali gigantesche. Io lo sentivo, e in molte cose divenni suo
alunno. Mi accorsi però ben presto che, forse a causa dei suoi
studi fatti a Presburgo, essa mi proponeva molti di quegli scritti
mistici che vengono solitamente considerati una semplice scoria
della letteratura tedesca primitiva. Per una ragione che non
potevo immaginare, essi divennero il suo studio favorito e
costante, e che con l'andar del tempo dovesse succedere la stessa
cosa a me bisogna attribuirlo al semplice ma efficace influsso
dell'abitudine e dell'esempio.
In tutto questo, se non sbaglio, la mia ragione ben poco
c'entrava. Le mie convinzioni, purché la memoria non mi tradisca,
non subirono affatto l'influsso dell'ideale, e, salvo grande
errore, le mie letture mistiche non lasciarono traccia alcuna
sulle mie azioni o pensieri. Persuaso di ciò, mi abbandonai
implicitamente alla guida di mia moglie, e mi addentrai a cuore
saldo nel groviglio dei suoi studi. E allora - allora, quando,
meditando su pagine proibite, sentivo accendersi dentro di me uno
spirito proibito - Morella poneva sulla mia la sua fredda mano, e
dalle ceneri d'una filosofia morta smuoveva sommesse, singolari
parole, il cui strano significato si stampava a fuoco nella mia
memoria. E allora, di ora in ora, indugiavo al suo fianco e mi
soffermavo sulla musica della sua voce, sinché alla fine la sua
melodìa non si macchiava di terrore, e un'ombra cadeva sull'anima
mia, ed io impallidivo, internamente rabbrividendo a quei toni
troppo ultraterreni. E così la gioia svaniva in subitaneo orrore,
e ciò che era vi era di più bello diveniva quanto mai
spaventevole, come Hinnon divenne Ge-Henna.
Non è necessario precisare il carattere di quelle disposizioni
che, prendendo lo spunto dai volumi menzionati, per tanto tempo
formarono quasi l'unica conversazione fra Morella e me. I dotti in
quella che si potrebbe chiamare morale teologica se ne faranno
prontamente un'idea, e i profani comunque non ne capirebbero gran
che. Lo sfrenato panteismo di Fichte; ' la palingenesi '
modificata dei pitagorici; e soprattutto le dottrine
dell'IDENTITA' caldeggiate da Shelling erano in genere gli
argomenti che più attraevano per la loro bellezza la vivace
fantasia di Morella. Quell'identità che si chiama personale il
signor Locke, credo, la definisce opportunamente come sano
equilibrio di un essere razionale. E siccome intendiamo come
persona un'essenza intelligente fornita di ragione, e c'è una
coscienza che sempre accompagna il pensiero, è questo appunto che
fa di noi tutti ciò che chiamiamo NOI STESSI, così distinguendoci
da altri esseri pensanti, e conferendoci un'identità personale.
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