Così
ch'io vidi uscire fuori da quelle labbra i decreti di ciò che, per
me, era il Fato. Le vidi mentre si torcevano in un mortifero
eloquio. Le vidi mentre foggiavano le sillabe del mio nome e fui
squassato da un violento tremore poiché, a quel movimento, non
seguì alcun suono. E vidi ancora, per taluni istanti di delirio e
di orrore, la lenta e quasi impercettibile ondulazione dei neri
cortinaggi che pendevano dai muri della sala. E in quel punto il
mio sguardo cadde sopra i sette enormi candelabri che erano
poggiati sul tavolo. E distinguendo, in essi, da principio, solo i
simboli della carità, furono veduti da me quali snelli angeli
candidi, votati alla mia salvezza; ma come in seguito,
improvvisamente, una nausea mortale annegò il mio spirito e sentii
vibrare il mio corpo in tutte le sue fibre, come se avessi toccato
il filo d'una batteria galvanica, quelle angelicate immagini si
trasmutarono in incomprensibili spettri dalla testa incendiata e
parlarono per apprendermi che sarebbe stato invano, per me,
sperare nel loro soccorso. E allora, simile a una armoniosa nota
musicale, penetrò nel mio animo l'idea del dolce riposo dal quale
siamo attesi nel sepolcro. E quel pensiero mi vinceva
fuggevolmente e con grande dolcezza e sembrò che impiegasse un
lungo tempo ad assumere tutt'intero il suo valore, e proprio nel
mentre che l'animo mio giungeva a possederlo, e a divenire,
infine, una sola cosa con esso, sparirono, per opera di magia, le
figure degli inquisitori, si disfecero gli steli dei lunghi
candelabri, si spensero le loro fiammelle e gravò la tenebra.
Tutti i sensi dell'anima sembrò che fossero ingoiati in una
discesa folle e precipite all'imo Ade. Ed ogni cosa dell'universo
fu notte, fu silenzio, fu immobilità.
Io ero svenuto. Non dirò tuttavia che avessi perduto ogni
sentimento. Non sarò tentato a descrivere e non pure a definire
quel che poteva rimanerne di speranza: essa, nondimeno, non era
del tutto perduta. No: nel sonno più fondo, nel delirio, nel venir
meno, e ancora nella morte e, infine, nel sepolcro, tutto NON è
perduto. A che si ridurrebbe, allora, l'immortalità dell'uomo?
Quando noi ci destiamo da un sonno profondo, noi non facciamo che
strappare la ragnatela di un QUALCHE sogno, e nondimeno, appena un
solo istante appresso, noi non riteniamo - tant'è fragile la tela
- d'aver mai sognato. Nel ritorno alla vita da un mancamento,
vanno distinti due gradi: è il primo quello che ci da il senso
dell'esistenza mentale ovvero spirituale, è il secondo quello in
cui acquistiamo coscienza dell'esistenza fisica. E quando siamo
pervenuti al secondo grado, è da credere che, se potessimo
ritenere le impressioni che riguardano il primo, esso conterrebbe
alquante rivelazioni dell'abisso che s'apre oltre. E cos'è questo
abisso? E come si possono distinguere, da quelle del sepolcro, le
sue ombre? Se le impressioni, bensì, di quel ch'io ho definito il
primo grado, non rispondono tempestivamente al nostro vano
richiamarle allo spirito, esse riaffiorano nondimeno, dopo un
lungo spazio di tempo, senza che siano evocate, mentre noi ci
chiediamo stupiti donde possano esser sorte. Colui che non è mai
venuto meno, non ha mai potuto vedere stravaganti strutture di
palazzi nelle braci mentre ardono, e volteggiare qui, deformati in
modo bizzarro, volti familiari; egli non può contemplare, nel
mentre che si librano nell'aria, le malinconiche visioni al volgo
proibite, e ancora egli non sa meditare sul profumo d'un qualche
ignoto fiore e non sa correre dietro al suo cervello mentr'esso si
perde in una melodia che non aveva mai fermata, prima, la sua
attenzione.
In mezzo ai tentativi insistiti e concentrati, in mezzo ai
vigorosi sforzi per recuperare una qualche vestigia di quello
stato d'annullamento nel quale era stata apparentemente sommersa
l'anima mia, vi sono stati pure degli istanti in cui ho
fantasticato di riuscirvi. E furono istanti brevissimi, durante i
quali ho evocato delle memorie che, a freddo, in seguito, ho avuto
la certezza di saper ricondurre a quell'apparente incoscienza. E
coteste larve di memorie mi dicono di enormi forme indefinite le
quali mi sollevarono e mi trascinarono silenziosamente in basso,
in basso, sempre più in basso, fintantoché l'idea medesima della
discesa all'infinito non mi comunicò la vertigine. E mi dicono
ancora d'un vago orrore che mi possedette l'animo, per la ragione
appunto, che una sovrumana calma abitava il mio cuore. E poi mi
dicono di un'improvvisa immobilità di tutte le cose, come se
coloro che mi trascinavano in spettrale corteo avessero passati,
in quella loro caduta, i limiti dell'infinito e si fossero
arrestati, stremati dalla loro stessa fatica. E ancora, dopo
questo, la sensazione dell'infimo, dell'umido... il resto è
pazzia, pazzia della memoria che si affanna dietro argomenti
proibiti.
Tutt'a un tratto ho ritrovato il SUONO. E poi il MOVIMENTO. Il
tumulto del cuore. E il suono dei suoi battiti, all'orecchio. E
poi una pausa, durante la quale ogni cosa divenne, come dianzi,
vuota. E poi ancora il suono e il movimento e le facoltà TATTILI,
e i brividi, e un formicolare delle membra che mi si perdeva per
tutto l'essere. Poi la coscienza d'esistere nuovamente, senza
tuttavia poterlo pensare. Tale condizione durò a lungo. Poi,
tutt'a un tratto, il PENSIERO: e subito un fremebondo terrore, uno
struggente e concentrato studio per capire il mio effettivo stato.
E un desiderio vivissimo, quindi, di tornare al più presto
nell'insensibilità e un rivivere subitaneo dello spirito assieme
al tentativo di muovermi. Quest'ultimo riuscì. E allora tornò,
tutt'intero, il ricordo del processo, dei giudici, dei neri
cortinaggi, della sentenza, della mia debolezza e infine del mio
mancamento. Indi la più completa perdita di memoria per tutto
quello che seguì, per tutto quello che sono riuscito a ricordare,
e con molta approssimazione, soltanto molto tempo dopo e a prezzo
di applicato studio.
Fino a quel punto non avevo aperti gli occhi. Sentivo d'essere
disteso, sul dorso e senza lacci. Tentai d'allungare una mano ma
essa ricadde subito, e con pesantezza, su alcunché d'umido e di
duro. Ve la lasciai qualche minuto mentre duravo gli sforzi per
indovinare in qual luogo potessi essere e che cosa fosse per
accadermi. Cresceva, in me, l'impazienza di servirmi degli occhi:
e tuttavia non osavo. Temevo la prima occhiata sugli oggetti
all'intorno. Non mi aspettavo di vedere cose orribili, ma ero
bensì atterrito dall'idea che attorno a me, non ci potesse essere
nulla da vedere. Alfine, mentre il mio cuore era divorato da una
folle angoscia, apersi, d'un sol colpo, gli occhi. I miei più
orribili presentimenti si stavano confermando. Tutto all'intorno
era soltanto la tenebra d'una notte sempiterna. Mi sforzai di
respirare, ma la profondità di quel buio aveva come il potere di
soffocarmi. L'aria era pesante fino a non poterla più sopportare.
Tentai di tenere in esercizio la ragione nel mentre che rimanevo
disteso.
Tentai ancora di fissare i miei pensieri sulla procedura
dell'Inquisizione e, cominciando di lì, pervenni a identificare la
mia reale condizione. La sentenza era stata pronunciata: ed io
avevo la sensazione che, da allora, fosse trascorso un tempo
lunghissimo. Epperò non supposi d'essere già trapassato, nemmeno
un solo istante. Nonostante si legga diversamente nei romanzi, una
simile idea è incompatibile con l'esistenza reale. Ma in qual
luogo e in quale stato io mi trovavo? Ero a parte del fatto che di
solito le sentenze venivano eseguite negli ' auto-da-fé ', e che
uno di questi era stato tenuto la sera medesima del giorno in cui
s'era svolto il mio processo. M'avevano ricondotto nella segreta e
mi ci avrebbero lasciato fino al prossimo sacrificio che non
sarebbe avvenuto prima di alcuni mesi? Immediatamente capii che
non poteva essere così. Le vittime si dovevano offrire
immediatamente, e la segreta che abitavo prima della sentenza,
come del resto tutte quelle dei condannati di Toledo, era
lastricata di pietra e vi filtrava un qualche lume.
Un agghiacciante pensiero mi fece affluire, tutt'a un tratto, il
sangue al cuore ed io perdetti nuovamente i sensi. Al mio
risveglio, balzai in piedi: un convulso tremore mi scuoteva ogni
fibra. Tesi le braccia attorno a me, sopra di me, levandomi sulle
punte dei piedi, in tutte le direzioni senza incontrar nulla, e
avevo nondimeno, il terrore di muovere un passo, ché non avessi ad
urtare contro le mura di una TOMBA. Il sudore si scioglieva da
tutti i pori e sulla fronte mi si gelava in grosse gocce.
L'angoscia per quell'incertezza della mia sorte divenne a un
tratto insopportabile e avanzai guardingo, protendendo le braccia
in avanti e sporgendo gli occhi fuori dalle orbite, nella speranza
di poter, infine, percepire un qualche debole raggio di luce.
Mossi qualche passo ancora, ma ogni cosa all'intorno era tenebra e
vuoto. Respiravo, ora, con maggiore libertà. Era evidente, almeno,
che non mi era stata riservata la più orribile delle morti.
E nel mentre che seguitavo ad avanzare con cautela, la memoria mi
s'affollava di mille dicerìe contrastanti e vaghe sugli orrori di
Toledo. Si raccontavano, attorno alle segrete, alcuni bizzarri
fatti che io avevo sempre considerati come delle fole, ma tanto
bizzarri, e insieme tanto paurosi che si possono solo bisbigliare
all'orecchio. Ero forse dannato a morire di fame in quella tenebra
sotterranea? Quale altro destino, fors'anche più spaventoso, m'era
riservato? Che il risultato dovesse essere la morte e, per giunta,
una morte straordinariamente amara, non era più dubbio, da che
conoscevo troppo bene il carattere dei miei giudici, e nondimeno
io ero angosciato dal desiderio di conoscere il modo e l'ora.
Le mie mani tese in avanti urtarono, infine, in un solido
ostacolo. Era un muro che pareva costruito di pietra, molto
levigato, molto umido e freddissimo. Lo seguii con quella
diffidente prudenza che m'avevano ispirata taluni antichi
racconti. Quell'aggirarmi, però, non mi offriva alcun modo di
capire quali realmente fossero le dimensioni della mia prigione,
dal momento che il muro appariva tanto uniformemente levigato che
potevo fare il giro completo del vano e tornare al luogo donde ero
venuto senza peraltro accorgermene. Tastai allora, nelle mie
tasche, per vedere se avessi ancora il coltello che avevo al
momento in cui mi condussero al tribunale dell'Inquisizione: era
scomparso. E i miei abiti erano stati sostituiti da un ruvido
saio. L'idea che m'era balenata, era stata quella di infigger la
lama in una qualche crepa dell'intonaco, per fissare, e quindi
poter ritrovare, il mio punto di partenza. La difficoltà di
attuare un disegno consimile era minima, e nondimeno per il
disordine di cui era preda in quel momento la mia mente, mi parve
in quel momento insormontabile. Lacerai una striscia dall'orlo del
mio abito e la posi in terra per tutta la sua lunghezza, ad angolo
retto con la parete di muro. Seguendo il cammino, a tentoni,
attorno alla segreta, non avrei potuto far di meglio che ritrovare
quello straccio, e in quel punto il mio giro sarebbe stato
completo: almeno supponevo così. Ma in quella supposizione non
avevo tenuto conto dell'eventualità che l'ambiente fosse molto
vasto e della certezza che io ero, per contro, assai debole. Il
terreno era umido e sdrucciolevole. Procedetti ancora per qualche
tempo, vacillando, poi inciampai e stramazzai a terra. L'estrema
stanchezza mi fece restare prono per un pezzo e fui così fui
ripreso dal sonno.
Al mio risveglio, nell'atto che feci di stendere le braccia, urtai
contro un pane e una brocca piena d'acqua. Non ero in condizioni
di riflettere, a causa della mia debolezza, su questa nuova
circostanza, e nondimeno bevvi e mangiai con avidità. Ripresi a
camminare attorno al mio carcere, e infine, dopo molta fatica,
pervenni a rintracciare la striscia di stoffa. Prima di cadere ero
riuscito a contare cinquantadue passi, ed ora, dopo aver ripreso
il cammino, ne contai, per ritrovare lo straccio, altri
quarantotto. Erano dunque un centinaio di passi fra tutto;
calcolando una yarda ogni due passi, la mia cella poteva misurare
un circuito di cinquanta yarde. Avevo incontrati, però, nel mio
cammino, alcuni angoli e non potevo fare, in questo modo, alcuna
congettura sulla probabile forma di quel sotterraneo, da che io lo
credevo tale.
Non v'era alcun preciso oggetto - e meno che meno poteva esservi,
al fondo, il desiderio d'alimentare una qualche speranza a quelle
mie ricerche; - una vaga curiosità, nondimeno, mi spingeva a
seguitarle. Mi staccai, così, dal muro, e mi decisi a traversare,
diametralmente, la superficie circoscritta dalle pareti del vano.
Avanzai, in principio, con estrema circospezione, da che il
pavimento, quantunque sembrasse costruito di materiale solido e
duro, era nondimeno come allagato da una viscida palta. Mi
rinfrancai, in seguito, e presi un'andatura più spedita, studiando
di seguire una direzione la più dritta possibile. Avevo fatto, a
quel modo, una dozzina appena di passi, allorché il rimanente
dell'orlo stracciato al mio vestito mi s'attorcigliò alle gambe e
mi fece inciampare e stramazzare nuovamente a terra, colla faccia
in avanti.
Nella confusione di quella caduta, non badai ad osservare subito
una circostanza abbastanza bizzarra, la quale, nondimeno, qualche
secondo appresso, allorché ero ancora disteso, attrasse la mia
attenzione. Il mio mento toccava il suolo del carcere, ma le
labbra e la parte superiore del capo, quantunque sembrassero
essere in luogo meno elevato che non il mento, non lo toccavano.
Nello stesso momento mi sentii la fronte madida per un vapore
ghiacciato, e le narici furono ferite, ancor esse dall'odore
caratteristico dei funghi putrefatti. Tesi il braccio in avanti e
trasalii. Ero caduto sull'orlo d'un pozzo circolare del quale non
avevo, però, alcun mezzo per calcolare l'ampiezza. Tastando la
parete al di sotto del margine, riuscii a rimuovere un piccolo
frammento e lo lasciai cadere nell'abisso. Restai qualche secondo,
colle orecchie tese ai rimbalzi che esso faceva contro le pareti
del pozzo, cadendo, e infine udii un tonfo sordo e lontano,
seguito da echi e sciacquii rumorosi. Nell'identico istante un
rumore si produsse al di sopra della mia testa - come di una porta
aperta e poi richiusa con grande rapidità - e un debole chiarore
balenò all'improvviso e subito sparì.
Compresi, con tutta chiarezza, la sorte che mi era stata
riservata, e mi rallegrai non poco per l'opportuno incidente cui
dovevo la salvezza. Ancora un passo e nessuno al mondo avrebbe
saputo più nulla di me. Quella morte, così tempestivamente
evitata, apparteneva proprio al genere che io mi ostinavo a
considerare partecipe dell'assurdo e del fiabesco in tutto ciò che
mi era giunto all'orecchio riguardo all'Inquisizione. Alle vittime
di quella tirannide era riservata una scelta tra la morte in preda
alle più atroci agonìe fisiche, ovvero quella che traeva tutto il
suo orrore dalle più feroci torture dello spirito. Io ero stato
votato a quest'ultima. I miei nervi erano talmente eccitati dalle
estenuanti sofferenze che perfino il suono della mia stessa voce
mi spingeva a rabbrividire. Ero diventato, in breve, un soggetto
particolarmente atto alla specie di tortura che mi si voleva
infliggere, e sotto tutti gli aspetti.
Scosso da un pauroso tremito per tutte le membra, arretrai
paurosamente, a tentoni, verso la parete, nella ferma risoluzione
di lasciarmi morire addossato ad essa, anziché affrontare l'orrore
dei pozzi che la mia immaginazione moltiplicava nell'oscurità
dalla cella. S'io mi fossi trovato in una diversa condizione di
spirito, non c'è dubbio che avrei avuto il coraggio di finire, in
un sol colpo, le mie miserie, gettandomi a capofitto in uno di
quei baratri; ma in quel momento mi sentivo il più codardo fra
tutti gli uomini. Giacché non potevo aver dimenticato che quei
pozzi erano costruiti - secondo talune mie antiche letture - in
modo tale che chi vi precipitava non poteva in alcun modo, per
questo soltanto, assicurarsi d'una morte subitanea.
L'agitazione dell'anima mia ebbe ragione del mio sonno durante
interminabili ore, in capo alle quali mi assopii nuovamente. Al
mio risveglio, come già l'altra volta, mi trovai accanto un pane e
una brocca d'acqua. La sete mi ardeva la gola e vuotai il boccale
d'un solo sorso. Un narcotico doveva essere stato sciolto
nell'acqua, poiché non appena ebbi finito di bere, ricaddi subito,
sospinto da una irresistibile forza, a dormire. Un sonno
profondissimo, un sonno in tutto simile a quello mortale,
s'impadronì di me. Quanto durasse, naturalmente, non so dire; ma
nel momento in cui mi destai di nuovo ed ebbi nuovamente riaperti
gli occhi, mi accorsi che gli oggetti intorno a me erano diventati
man mano visibili. Ciò era grazie a uno strano riflesso sulfureo,
del quale sul principio tardai a scoprire l'origine, ma che mi
permetteva di vedere l'ampiezza e l'aspetto del mio carcere.
Scoprii, così, che per quel che riguardava la grandezza, io m'ero
molto discosto dal vero; la circonferenza, infatti, di tutte
intere le pareti, non poteva misurare un giro superiore alla
venticinque yarde. Tale scoperta fu causa, per qualche minuto,
d'un grande turbamento il quale era, per la verità, del tutto
inutile e ingiustificato, poiché, di fatto, non v'era nulla che
potesse rivestire, nei terribili frangenti in cui ero, minore
importanza che le dimensioni della segreta. Epperò l'animo mio
prendeva un profondo interesse per consimili futilità ed io non mi
diedi pace fintantoché non ebbi trovato la ragione dell'errore
commesso nell'assumere quelle misure. Quella ragione mi balenò
alla mente improvvisa: durante il mio primo tentativo
d'esplorazione, infatti, fino al momento, cioè, in cui stramazzai
a terra, avevo contati cinquantadue passi: dovevo essere stato,
allora, a un passo o due dalla striscia di stoffa, e per
conseguenza, dovevo aver già compiuto l'intero periplo del
carcere. Ma al momento di risvegliarmi, dovevo esser ritornato sui
miei passi ed avevo, in tal modo, calcolata una circonferenza
quasi doppia di quella reale. La confusione cui era in preda il
mio cervello, non m'aveva permesso di osservare che avevo iniziato
il mio giro col muro alla mia sinistra, e l'avevo invece terminato
col muro alla mia destra.
E ancora mi ero ingannato, per ciò che riguardava l'aspetto
dell'ambiente. Nell'avanzare tentoni avevo incontrato parecchi
angoli e da ciò avevo dedotto che il carcere doveva avere una
pianta del tutto irregolare. Gli angoli - tanto può l'effetto
d'una totale oscurità su colui che viene da uno stato letargico! -
altro non erano che semplici rientranze, ovvero nicchie, le quali
s'aprivano nelle pareti a intervalli regolari. La segreta era
quadrata. Ciò che io avevo scambiato per una parete di muro era,
invece, una sorta di materia simile al ferro, ovvero a un altro
metallo, in enormi lastre, le cui giunture determinavano le
rientranze che ho detto sopra. L'intera superficie di quella
struttura metallica era rozzamente istoriata di tutti quegli
emblemi orribili e ripugnanti alla vista dei quali è soltanto
origine la sepolcrale superstizione dei monaci, ed essi
rappresentavano dèmoni in atto di minaccia, e scheletri e altre
forme e figure più orribili e verosimiglianti. Notai così, che i
contorni di quei mostri erano sufficientemente definiti ma che i
colori erano, invece alterati e sbiaditi, come se avesse operato,
su di essi, l'atmosfera umida del luogo. Anche il pavimento era di
pietra e, nel suo centro, s'apriva un pozzo circolare - uno solo -
quello medesimo alla cui voragine io ero miracolosamente scampato.
Tutto questo fu veduto, da me, in modo annebbiato e non senza che
io operassi un qualche sforzo, da che nel frattempo, la mia
posizione era singolarmente cambiata. Nel sonno, infatti, ero
stato coricato sul dorso e solidamente legato con una sorta di
lunga fascia, su di un basso telaio di legno. La fascia mi
s'avvolgeva, più volte, attorno al corpo e lasciava liberi
soltanto la testa e il braccio sinistro, sicché io potessi
prendere, sebbene a prezzo d'un incredibile sforzo per torcermi,
il cibo che era posto accanto a me, sul suolo, in un recipiente.
Rimasi atterrito nell'avvedermi che la brocca era stata tolta.
Atterrito, dico, dal momento ch'io ero divorato da una
insoffribile sete. E credo che l'esasperazione di questa fosse
calcolata nel piano dei miei persecutori, giacché il piatto che
m'era posto accanto, era della carne terribilmente pepata.
Levai gli occhi ad esaminare il soffitto della segreta. Esso era
ad un'altezza di trenta o quaranta piedi da me, e costruito in
maniera assai somigliante a quella delle mura laterali. In uno
degli scomparti vidi dipinta una figura talmente strana che
assorbì tutta la mia attenzione: essa rappresentava il Tempo, con
tutti gli attributi che sogliono darglisi, eccetto che, invece
d'una falce, egli aveva in mano un oggetto che io credetti, a una
prima occhiata, un grosso pendolo, simile a quello che posseggono
taluni orologi antichi. Nell'aspetto di quell'ordigno, v'era,
però, qualcosa che mi costrinse ad esaminarlo più attentamente.
Mentre lo stavo guardando, di sottinsù - poiché esso si trovava
proprio sopra di me - mi parve che si muovesse. La sua
oscillazione era breve e, com'è naturale, molto lenta. Continuai a
guardarlo per alcuni minuti diffidente e stupìto: stanco, in
seguito, di quel suo monotono oscillamento, abbassai gli occhi per
scoprire gli altri oggetti di quella mia prigione.
Un lieve fruscìo attirò in quel momento la mia attenzione, e
buttando un'occhiata sul pavimento, nella direzione da cui
proveniva, vidi alcuni sorci giganteschi che lo attraversavano.
Uscivano dal pozzo - del quale potevo vedere la bocca alla mia
destra - lesti, a gruppi, con occhietti avidi, stimolati
dall'odore della carne. Per tenerli lontani dal recipiente dove
questa era conservata dovetti spendere non poco di fatica e
d'attenzione.
Era passata una mezz'ora, o forse anche tutt'intera un'ora - dato
che io potevo calcolare il tempo solo con grande approssimazione -
allorché, nell'alzare gli occhi, vidi tale spettacolo da
confondermi e vieppiù meravigliarmi. Il percorso oscillatorio del
pendolo era infatti aumentato di una yarda all'incirca. Ne veniva
di conseguenza che la velocità del suo moto era aumentata
anch'essa. E, sopra ogni altra cosa, ebbe a turbarmi l'impressione
che esso fosse disceso, e sensibilmente. Vidi - in preda a quale
agghiacciante terrore è inutile che io dica - che la sua estremità
inferiore era formata da una lama, da una lucente falce d'acciaio,
lunga, da corno a corno, un piede all'incirca, colle punte
all'insù e il taglio inferiore affilato come un rasoio. E difatti
la falce sembrava massiccia e pesante, come appunto un rasoio, e
dal filo si allargava in una struttura ampia e solida. Esso era
appeso a una grossa verga di ottone e, nel mentre che oscillava
nell'aria della segreta, mandava un orribile fischio.
Non potevo più serbare alcun dubbio sul destino che l'inventiva
dei monaci, tanto esperti di torture, m'aveva preparato. Era
evidente che gli agenti dell'inquisizione s'erano accorti della
scoperta che avevo fatta, del pozzo; il POZZO, del quale avevano
divisato di riservare gli orrori a un temerario eresiarca qual'io
sono, il POZZO emblema dell'inferno, e che l'opinione considerava
come l'ultima Thule di tutti i loro castighi. Un caso fortunato,
mi aveva fatto evitare il salto fatale nella sua voragine, ma io
sapevo che l'arte di trasformare il supplizio in un continuo
agguato, in una snervante successione di sorprese, era tra i
canoni fondamentali di tutto quel fantasioso sistema di segrete
esecuzioni. Poiché io avevo mancato di precipitar nell'abisso, non
rientrava più, nei loro piani, il costringermi a cadervi mediante
la forza. Mi attendeva, così, non essendoci alternativa, una morte
differente e più mite. Più mite! Mi venne quasi da sorridere, in
quella mia agonia, al pensiero di quell'espressione che m'era
fiorita nel cervello.
A quale scopo raccontare lunghe, eterne ore d'angoscia più che
mortale, durante le quali io non mi stancavo di contare le
oscillazioni fischianti dell'acciaio? Pollice per pollice...
frazione per frazione... in una discesa apprezzabile solo a
intervalli che mi parevano secoli, esso si abbassava man mano,
senza fermarsi, mai, mai...
Trascorsero alcuni giorni - è probabile che fossero anche molti -
prima che egli venisse ad oscillare tanto vicino a me da farmi
vento col suo alito acre. L'odore dell'acciaio affilato mi
s'infilava nelle narici. Io supplicai il cielo, lo stancai con le
mie preghiere, perché egli facesse scendere il ferro il più
rapidamente possibile. E montai fino a una rabbiosa follia e
operai sforzi sovrumani per andare incontro al moto regolare di
quell'orribile scimitarra. Finché io non caddi tutt'a un tratto,
preda d'una calma vasta e potente, e giacqui, arridendo a quella
morte lampeggiante, come un bimbo a un raro balocco.
Una nuova porzione di tempo in totale insensibilità, seguì in
breve. Ma fu di corta durata. Com'io ritornai in me, mi accorsi
che il pendolo non si era abbassato in misura apprezzabile. E
nondimeno la durata del mio assopimento poteva anche essere stata
lunga, ma, essendovi alcuni dèmoni a spiarmi, essi avevano
sospesa, in quel frattempo, l' oscillazione. Mentr'io riprendevo i
sensi, assaporai un malessere, una sensazione di fiacchezza che
meglio non so esprimere, pari a quella che mi avrebbe preso dopo
un lungo digiuno. Anche in quelle orribili torture, la natura
umana chiedeva d'essere sostentata. Allungai, in uno sforzo
penoso, il braccio sinistro quanto m'era consentito dai lacci, e
tolsi il misero avanzo di cibo che i topi m'avevano lasciato.
Nell'istante che ne recavo alle labbra un boccone, un pensiero
d'indistinta gioia, di balenante speranza, m'attraversò in furia
il cervello. E nondimeno, cosa poteva esservi ormai di comune, tra
la speranza e me? Esso era - l'ho già detto - un pensiero non ben
precisato, quale l'uomo, talvolta, assapora, fuggevole, da non
vederne con chiarezza il fondo e le ragioni e la natura. Ma
compresi che esso era un pensiero di gioia e di speranza, e nel
medesimo tempo, che esso era già morto in sul nascere. Tentai di
riafferrarlo e di completarlo, ma tutto fu vano. Le interminabili
sofferenze cui ero sottoposto, avevano annientate le facoltà che
la mia mente aveva d'ordinario: io ero divenuto un completo
imbecille, un assoluto idiota.
L'oscillazione del pendolo procedeva in una direzione ad angolo
retto con quella della mia lunghezza, ed osservai che la lama era
così disposta che avrebbe attraversata la regione del cuore: essa
avrebbe dapprima leggermente graffiata la stoffa della mia veste e
poi sarebbe di nuovo tornata indietro a ripetere quel debole
graffio, e poi di nuovo, e poi ancora... e ancora... e nonostante
l'ampiezza dell'oscillazione - la quale s'apriva per una trentina,
se non di più, di piedi - e la fischiante forza della sua discesa,
la quale sarebbe stata sufficiente anche ad atterrare quelle
ferree muraglie, la lama del pendolo non avrebbe potuto far altro,
durante alcuni lunghi minuti, che lacerarmi il vestito. M'arrestai
a questo pensiero giacché non osavo spingermi oltre. E mi
concentrai in quello con ostinazione, come se, arrestandomi a
pensare lì, avessi potuto fermare lì anche la lama, nella sua
discesa. Io facevo ogni sforzo, per pensare al suono che avrebbe
emesso la lama al momento di tagliare il panno della veste, e posi
mente ancora al brivido che produce lo sfregamento della stoffa. E
non smisi di pensare a tutte queste sciocchezze fintantoché non mi
sentii allegare i denti.
Giù... la lama scendeva uniformemente, sempre più giù.
1 comment