Così

 

ch'io vidi uscire fuori da quelle labbra i decreti di ciò che, per

 

me,  era  il  Fato.  Le  vidi  mentre si torcevano in un mortifero

 

eloquio.  Le vidi mentre foggiavano le sillabe del mio nome e  fui

 

squassato  da  un violento tremore poiché,  a quel movimento,  non

 

seguì alcun suono. E vidi ancora,  per taluni istanti di delirio e

 

di orrore,  la lenta e quasi impercettibile ondulazione  dei  neri

 

cortinaggi  che pendevano dai muri della sala.  E in quel punto il

 

mio sguardo cadde  sopra  i  sette  enormi  candelabri  che  erano

 

poggiati sul tavolo. E distinguendo, in essi, da principio, solo i

 

simboli  della    carità,  furono veduti da me quali snelli angeli

 

candidi,   votati  alla  mia  salvezza;   ma  come   in   seguito,

 

improvvisamente, una nausea mortale annegò il mio spirito e sentii

 

vibrare il mio corpo in tutte le sue fibre, come se avessi toccato

 

il  filo  d'una batteria galvanica,  quelle angelicate immagini si

 

trasmutarono in incomprensibili spettri dalla testa  incendiata  e

 

parlarono  per  apprendermi  che  sarebbe  stato  invano,  per me,

 

sperare nel loro soccorso.  E allora,  simile a una armoniosa nota

 

musicale,  penetrò nel mio animo l'idea del dolce riposo dal quale

 

siamo  attesi  nel  sepolcro.   E   quel   pensiero   mi   vinceva

 

fuggevolmente  e  con  grande  dolcezza e sembrò che impiegasse un

 

lungo tempo ad assumere tutt'intero il suo valore,  e proprio  nel

 

mentre  che  l'animo  mio  giungeva  a  possederlo,  e a divenire,

 

infine, una sola cosa con esso, sparirono, per opera di magia,  le

 

figure  degli  inquisitori,  si  disfecero  gli  steli  dei lunghi

 

candelabri,  si spensero le loro fiammelle  e  gravò  la  tenebra.

 

Tutti  i  sensi  dell'anima  sembrò  che  fossero  ingoiati in una

 

discesa folle e precipite all'imo Ade.  Ed ogni cosa dell'universo

 

fu notte, fu silenzio, fu immobilità.

 

Io  ero  svenuto.  Non  dirò  tuttavia    che  avessi perduto ogni

 

sentimento.  Non sarò tentato a descrivere e non pure  a  definire

 

quel  che poteva rimanerne di speranza: essa,  nondimeno,  non era

 

del tutto perduta. No: nel sonno più fondo, nel delirio, nel venir

 

meno, e ancora nella morte e,  infine,  nel sepolcro,  tutto NON è

 

perduto.  A  che si ridurrebbe,  allora,  l'immortalità dell'uomo?

 

Quando noi ci destiamo da un sonno profondo,  noi non facciamo che

 

strappare la ragnatela di un QUALCHE sogno, e nondimeno, appena un

 

solo istante appresso,  noi non riteniamo - tant'è fragile la tela

 

- d'aver mai sognato.  Nel ritorno alla  vita  da  un  mancamento,

 

vanno  distinti  due  gradi:  è il primo quello che ci da il senso

 

dell'esistenza mentale ovvero spirituale,  è il secondo quello  in

 

cui  acquistiamo  coscienza dell'esistenza fisica.  E quando siamo

 

pervenuti al secondo grado,  è  da  credere  che,  se    potessimo

 

ritenere le impressioni che riguardano il primo,  esso conterrebbe

 

alquante rivelazioni dell'abisso che s'apre oltre.  E cos'è questo

 

abisso?  E come si possono distinguere, da quelle del sepolcro, le

 

sue ombre? Se le impressioni, bensì,  di quel ch'io ho definito il

 

primo  grado,   non  rispondono  tempestivamente  al  nostro  vano

 

richiamarle allo spirito,  esse  riaffiorano  nondimeno,  dopo  un

 

lungo  spazio  di  tempo,  senza che siano evocate,  mentre noi ci

 

chiediamo stupiti donde possano esser sorte.  Colui che non è  mai

 

venuto  meno,  non  ha  mai potuto vedere stravaganti strutture di

 

palazzi nelle braci mentre ardono, e volteggiare qui, deformati in

 

modo bizzarro,  volti familiari;  egli non  può  contemplare,  nel

 

mentre che si librano nell'aria,  le malinconiche visioni al volgo

 

proibite,  e ancora egli non sa meditare sul profumo d'un  qualche

 

ignoto fiore e non sa correre dietro al suo cervello mentr'esso si

 

perde  in  una  melodia che non aveva mai fermata,  prima,  la sua

 

attenzione.

 

In mezzo  ai  tentativi  insistiti  e  concentrati,  in  mezzo  ai

 

vigorosi  sforzi  per  recuperare  una  qualche vestigia di quello

 

stato d'annullamento nel quale era stata  apparentemente  sommersa

 

l'anima  mia,   vi  sono  stati  pure  degli  istanti  in  cui  ho

 

fantasticato di riuscirvi. E furono istanti brevissimi,  durante i

 

quali ho evocato delle memorie che, a freddo, in seguito, ho avuto

 

la  certezza di saper ricondurre a quell'apparente incoscienza.  E

 

coteste larve di memorie mi dicono di enormi forme  indefinite  le

 

quali  mi  sollevarono e mi trascinarono silenziosamente in basso,

 

in basso,  sempre più in basso,  fintantoché l'idea medesima della

 

discesa  all'infinito  non  mi comunicò la vertigine.  E mi dicono

 

ancora d'un vago orrore che mi possedette l'animo,  per la ragione

 

appunto,  che  una sovrumana calma abitava il mio cuore.  E poi mi

 

dicono di un'improvvisa immobilità  di  tutte  le  cose,  come  se

 

coloro  che  mi trascinavano in spettrale corteo avessero passati,

 

in quella  loro  caduta,  i  limiti  dell'infinito  e  si  fossero

 

arrestati,  stremati  dalla  loro  stessa fatica.  E ancora,  dopo

 

questo,  la  sensazione  dell'infimo,  dell'umido...  il  resto  è

 

pazzia,  pazzia  della  memoria  che  si  affanna dietro argomenti

 

proibiti.

 

Tutt'a un tratto ho ritrovato il SUONO.  E poi  il  MOVIMENTO.  Il

 

tumulto del cuore.  E il suono dei suoi battiti,  all'orecchio.  E

 

poi una pausa,  durante la quale ogni cosa divenne,  come  dianzi,

 

vuota.  E poi ancora il suono e il movimento e le facoltà TATTILI,

 

e i brividi,  e un formicolare delle membra che mi si perdeva  per

 

tutto  l'essere.  Poi  la  coscienza d'esistere nuovamente,  senza

 

tuttavia poterlo pensare.  Tale  condizione  durò  a  lungo.  Poi,

 

tutt'a un tratto, il PENSIERO: e subito un fremebondo terrore, uno

 

struggente e concentrato studio per capire il mio effettivo stato.

 

E  un  desiderio  vivissimo,  quindi,  di  tornare  al  più presto

 

nell'insensibilità e un rivivere subitaneo dello  spirito  assieme

 

al  tentativo  di muovermi.  Quest'ultimo riuscì.  E allora tornò,

 

tutt'intero,  il ricordo  del  processo,  dei  giudici,  dei  neri

 

cortinaggi,  della sentenza,  della mia debolezza e infine del mio

 

mancamento.  Indi la più completa perdita  di  memoria  per  tutto

 

quello che seguì,  per tutto quello che sono riuscito a ricordare,

 

e con molta approssimazione,  soltanto molto tempo dopo e a prezzo

 

di applicato studio.

 

Fino  a  quel  punto non avevo aperti gli occhi.  Sentivo d'essere

 

disteso,  sul dorso e senza lacci.  Tentai d'allungare una mano ma

 

essa  ricadde subito,  e con pesantezza,  su alcunché d'umido e di

 

duro.  Ve la lasciai qualche minuto mentre duravo gli  sforzi  per

 

indovinare  in  qual  luogo  potessi  essere  e che cosa fosse per

 

accadermi. Cresceva, in me,  l'impazienza di servirmi degli occhi:

 

e  tuttavia  non  osavo.  Temevo  la  prima occhiata sugli oggetti

 

all'intorno.  Non mi aspettavo di vedere  cose  orribili,  ma  ero

 

bensì atterrito dall'idea che attorno a me,  non ci potesse essere

 

nulla da vedere.  Alfine,  mentre il mio cuore era divorato da una

 

folle  angoscia,  apersi,  d'un sol colpo,  gli occhi.  I miei più

 

orribili presentimenti si stavano confermando.  Tutto  all'intorno

 

era  soltanto  la  tenebra  d'una notte sempiterna.  Mi sforzai di

 

respirare,  ma la profondità di quel buio aveva come il potere  di

 

soffocarmi.  L'aria era pesante fino a non poterla più sopportare.

 

Tentai di tenere in esercizio la ragione nel mentre  che  rimanevo

 

disteso.

 

Tentai   ancora   di  fissare  i  miei  pensieri  sulla  procedura

 

dell'Inquisizione e, cominciando di lì, pervenni a identificare la

 

mia reale condizione.  La sentenza era stata  pronunciata:  ed  io

 

avevo  la  sensazione  che,  da  allora,  fosse trascorso un tempo

 

lunghissimo.  Epperò non supposi d'essere già trapassato,  nemmeno

 

un solo istante. Nonostante si legga diversamente nei romanzi, una

 

simile  idea  è  incompatibile  con l'esistenza reale.  Ma in qual

 

luogo e in quale stato io mi trovavo? Ero a parte del fatto che di

 

solito le sentenze venivano eseguite negli ' auto-da-fé ',  e  che

 

uno  di questi era stato tenuto la sera medesima del giorno in cui

 

s'era svolto il mio processo. M'avevano ricondotto nella segreta e

 

mi ci avrebbero lasciato  fino  al  prossimo  sacrificio  che  non

 

sarebbe  avvenuto  prima di alcuni mesi?  Immediatamente capii che

 

non  poteva  essere  così.   Le  vittime   si   dovevano   offrire

 

immediatamente,  e  la  segreta  che abitavo prima della sentenza,

 

come  del  resto  tutte  quelle  dei  condannati  di  Toledo,  era

 

lastricata di pietra e vi filtrava un qualche lume.

 

Un agghiacciante pensiero mi fece affluire,  tutt'a un tratto,  il

 

sangue al  cuore  ed  io  perdetti  nuovamente  i  sensi.  Al  mio

 

risveglio,  balzai  in piedi: un convulso tremore mi scuoteva ogni

 

fibra. Tesi le braccia attorno a me, sopra di me,  levandomi sulle

 

punte  dei piedi,  in tutte le direzioni senza incontrar nulla,  e

 

avevo nondimeno, il terrore di muovere un passo, ché non avessi ad

 

urtare contro le mura di una TOMBA.  Il sudore  si  scioglieva  da

 

tutti  i  pori  e  sulla  fronte  mi  si  gelava  in grosse gocce.

 

L'angoscia per quell'incertezza  della  mia  sorte  divenne  a  un

 

tratto insopportabile e avanzai guardingo,  protendendo le braccia

 

in avanti e sporgendo gli occhi fuori dalle orbite, nella speranza

 

di poter,  infine,  percepire un qualche debole  raggio  di  luce.

 

Mossi qualche passo ancora, ma ogni cosa all'intorno era tenebra e

 

vuoto. Respiravo, ora, con maggiore libertà. Era evidente, almeno,

 

che non mi era stata riservata la più orribile delle morti.

 

E nel mentre che seguitavo ad avanzare con cautela,  la memoria mi

 

s'affollava di mille dicerìe contrastanti e vaghe sugli orrori  di

 

Toledo.  Si  raccontavano,  attorno alle segrete,  alcuni bizzarri

 

fatti che io avevo sempre considerati come delle  fole,  ma  tanto

 

bizzarri,  e insieme tanto paurosi che si possono solo bisbigliare

 

all'orecchio. Ero forse dannato a morire di fame in quella tenebra

 

sotterranea? Quale altro destino, fors'anche più spaventoso, m'era

 

riservato? Che il risultato dovesse essere la morte e, per giunta,

 

una morte straordinariamente amara,  non era più  dubbio,  da  che

 

conoscevo  troppo bene il carattere dei miei giudici,  e nondimeno

 

io ero angosciato dal desiderio di conoscere il modo e l'ora.

 

Le mie  mani  tese  in  avanti  urtarono,  infine,  in  un  solido

 

ostacolo.  Era  un  muro  che  pareva  costruito di pietra,  molto

 

levigato,  molto  umido  e  freddissimo.   Lo  seguii  con  quella

 

diffidente   prudenza   che   m'avevano  ispirata  taluni  antichi

 

racconti.  Quell'aggirarmi,  però,  non mi offriva alcun  modo  di

 

capire  quali  realmente fossero le dimensioni della mia prigione,

 

dal momento che il muro appariva tanto uniformemente levigato  che

 

potevo fare il giro completo del vano e tornare al luogo donde ero

 

venuto  senza  peraltro  accorgermene.  Tastai  allora,  nelle mie

 

tasche,  per vedere se avessi ancora  il  coltello  che  avevo  al

 

momento  in  cui mi condussero al tribunale dell'Inquisizione: era

 

scomparso.  E i miei abiti erano stati  sostituiti  da  un  ruvido

 

saio.  L'idea che m'era balenata,  era stata quella di infigger la

 

lama in una qualche crepa dell'intonaco,  per  fissare,  e  quindi

 

poter  ritrovare,  il  mio  punto  di  partenza.  La difficoltà di

 

attuare un disegno  consimile  era  minima,  e  nondimeno  per  il

 

disordine di cui era preda in quel momento la mia mente,  mi parve

 

in quel momento insormontabile. Lacerai una striscia dall'orlo del

 

mio abito e la posi in terra per tutta la sua lunghezza, ad angolo

 

retto con la parete di  muro.  Seguendo  il  cammino,  a  tentoni,

 

attorno alla segreta, non avrei potuto far di meglio che ritrovare

 

quello  straccio,  e  in  quel  punto  il  mio  giro sarebbe stato

 

completo: almeno supponevo così.  Ma in  quella  supposizione  non

 

avevo  tenuto  conto  dell'eventualità  che l'ambiente fosse molto

 

vasto e della certezza che io ero,  per contro,  assai debole.  Il

 

terreno era umido e sdrucciolevole.  Procedetti ancora per qualche

 

tempo, vacillando,  poi inciampai e stramazzai a terra.  L'estrema

 

stanchezza  mi  fece  restare  prono  per  un pezzo e fui così fui

 

ripreso dal sonno.

 

Al mio risveglio, nell'atto che feci di stendere le braccia, urtai

 

contro un pane e una brocca piena d'acqua.  Non ero in  condizioni

 

di  riflettere,  a  causa  della  mia  debolezza,  su questa nuova

 

circostanza,  e nondimeno bevvi e mangiai con avidità.  Ripresi  a

 

camminare  attorno  al mio carcere,  e infine,  dopo molta fatica,

 

pervenni a rintracciare la striscia di stoffa. Prima di cadere ero

 

riuscito a contare cinquantadue passi,  ed ora,  dopo aver ripreso

 

il  cammino,   ne  contai,   per  ritrovare  lo  straccio,   altri

 

quarantotto.  Erano  dunque  un  centinaio  di  passi  fra  tutto;

 

calcolando una yarda ogni due passi,  la mia cella poteva misurare

 

un circuito di cinquanta yarde.  Avevo incontrati,  però,  nel mio

 

cammino,  alcuni angoli e non potevo fare,  in questo modo, alcuna

 

congettura sulla probabile forma di quel sotterraneo, da che io lo

 

credevo tale.

 

Non v'era alcun preciso oggetto - e meno che meno poteva  esservi,

 

al fondo,  il desiderio d'alimentare una qualche speranza a quelle

 

mie ricerche;  - una vaga  curiosità,  nondimeno,  mi  spingeva  a

 

seguitarle.  Mi staccai, così, dal muro, e mi decisi a traversare,

 

diametralmente,  la superficie circoscritta dalle pareti del vano.

 

Avanzai,  in  principio,  con  estrema  circospezione,  da  che il

 

pavimento,  quantunque sembrasse costruito di materiale  solido  e

 

duro,  era  nondimeno  come  allagato  da  una  viscida palta.  Mi

 

rinfrancai, in seguito, e presi un'andatura più spedita, studiando

 

di seguire una direzione la più dritta possibile.  Avevo fatto,  a

 

quel  modo,  una  dozzina  appena di passi,  allorché il rimanente

 

dell'orlo stracciato al mio vestito mi s'attorcigliò alle gambe  e

 

mi fece inciampare e stramazzare nuovamente a terra,  colla faccia

 

in avanti.

 

Nella confusione di quella caduta,  non badai ad osservare  subito

 

una circostanza abbastanza bizzarra,  la quale, nondimeno, qualche

 

secondo appresso,  allorché ero ancora disteso,  attrasse  la  mia

 

attenzione.  Il  mio  mento  toccava  il suolo del carcere,  ma le

 

labbra e la  parte  superiore  del  capo,  quantunque  sembrassero

 

essere  in luogo meno elevato che non il mento,  non lo toccavano.

 

Nello stesso momento mi sentii la  fronte  madida  per  un  vapore

 

ghiacciato,  e  le  narici  furono  ferite,  ancor esse dall'odore

 

caratteristico dei funghi putrefatti.  Tesi il braccio in avanti e

 

trasalii.  Ero caduto sull'orlo d'un pozzo circolare del quale non

 

avevo,  però,  alcun mezzo per calcolare l'ampiezza.  Tastando  la

 

parete  al  di  sotto del margine,  riuscii a rimuovere un piccolo

 

frammento e lo lasciai cadere nell'abisso. Restai qualche secondo,

 

colle orecchie tese ai rimbalzi che esso faceva contro  le  pareti

 

del  pozzo,  cadendo,  e  infine  udii  un  tonfo sordo e lontano,

 

seguito da echi e sciacquii  rumorosi.  Nell'identico  istante  un

 

rumore si produsse al di sopra della mia testa - come di una porta

 

aperta  e  poi richiusa con grande rapidità - e un debole chiarore

 

balenò all'improvviso e subito sparì.

 

Compresi,  con  tutta  chiarezza,   la  sorte  che  mi  era  stata

 

riservata,  e  mi rallegrai non poco per l'opportuno incidente cui

 

dovevo la salvezza.  Ancora un passo e nessuno  al  mondo  avrebbe

 

saputo  più  nulla  di  me.  Quella  morte,  così  tempestivamente

 

evitata,  apparteneva proprio al  genere  che  io  mi  ostinavo  a

 

considerare partecipe dell'assurdo e del fiabesco in tutto ciò che

 

mi era giunto all'orecchio riguardo all'Inquisizione. Alle vittime

 

di quella tirannide era riservata una scelta tra la morte in preda

 

alle più atroci agonìe fisiche,  ovvero quella che traeva tutto il

 

suo orrore dalle più feroci torture dello spirito.  Io  ero  stato

 

votato a quest'ultima.  I miei nervi erano talmente eccitati dalle

 

estenuanti sofferenze che perfino il suono della mia  stessa  voce

 

mi spingeva a rabbrividire.  Ero diventato,  in breve, un soggetto

 

particolarmente atto alla specie  di  tortura  che  mi  si  voleva

 

infliggere, e sotto tutti gli aspetti.

 

Scosso  da  un  pauroso  tremito  per  tutte  le membra,  arretrai

 

paurosamente, a tentoni, verso la parete,  nella ferma risoluzione

 

di lasciarmi morire addossato ad essa, anziché affrontare l'orrore

 

dei  pozzi  che  la  mia  immaginazione moltiplicava nell'oscurità

 

dalla cella.  S'io mi fossi trovato in una diversa  condizione  di

 

spirito,  non c'è dubbio che avrei avuto il coraggio di finire, in

 

un sol colpo,  le mie miserie,  gettandomi a capofitto in  uno  di

 

quei  baratri;  ma  in  quel momento mi sentivo il più codardo fra

 

tutti gli uomini.  Giacché non potevo aver  dimenticato  che  quei

 

pozzi  erano  costruiti  - secondo talune mie antiche letture - in

 

modo tale che chi vi precipitava non poteva  in  alcun  modo,  per

 

questo soltanto, assicurarsi d'una morte subitanea.

 

L'agitazione  dell'anima  mia  ebbe  ragione del mio sonno durante

 

interminabili ore,  in capo alle quali mi assopii  nuovamente.  Al

 

mio risveglio, come già l'altra volta, mi trovai accanto un pane e

 

una brocca d'acqua.  La sete mi ardeva la gola e vuotai il boccale

 

d'un  solo  sorso.   Un  narcotico  doveva  essere  stato  sciolto

 

nell'acqua, poiché non appena ebbi finito di bere, ricaddi subito,

 

sospinto  da  una  irresistibile  forza,   a  dormire.   Un  sonno

 

profondissimo,   un  sonno  in  tutto  simile  a  quello  mortale,

 

s'impadronì di me.  Quanto durasse,  naturalmente, non so dire; ma

 

nel momento in cui mi destai di nuovo ed ebbi nuovamente  riaperti

 

gli occhi, mi accorsi che gli oggetti intorno a me erano diventati

 

man mano visibili.  Ciò era grazie a uno strano riflesso sulfureo,

 

del quale sul principio tardai a scoprire  l'origine,  ma  che  mi

 

permetteva  di  vedere  l'ampiezza  e  l'aspetto  del mio carcere.

 

Scoprii, così, che per quel che riguardava la grandezza,  io m'ero

 

molto  discosto  dal  vero;  la circonferenza,  infatti,  di tutte

 

intere le pareti,  non poteva  misurare  un  giro  superiore  alla

 

venticinque  yarde.  Tale  scoperta fu causa,  per qualche minuto,

 

d'un grande turbamento il quale era,  per  la  verità,  del  tutto

 

inutile e ingiustificato,  poiché,  di fatto,  non v'era nulla che

 

potesse rivestire,  nei terribili frangenti  in  cui  ero,  minore

 

importanza  che  le  dimensioni della segreta.  Epperò l'animo mio

 

prendeva un profondo interesse per consimili futilità ed io non mi

 

diedi pace fintantoché non ebbi  trovato  la  ragione  dell'errore

 

commesso  nell'assumere  quelle  misure.  Quella ragione mi balenò

 

alla  mente   improvvisa:   durante   il   mio   primo   tentativo

 

d'esplorazione,  infatti, fino al momento, cioè, in cui stramazzai

 

a terra,  avevo contati cinquantadue passi: dovevo  essere  stato,

 

allora,  a  un  passo  o  due  dalla  striscia  di  stoffa,  e per

 

conseguenza,   dovevo  aver  già  compiuto  l'intero  periplo  del

 

carcere. Ma al momento di risvegliarmi, dovevo esser ritornato sui

 

miei  passi  ed  avevo,  in tal modo,  calcolata una circonferenza

 

quasi doppia di quella reale.  La confusione cui era in  preda  il

 

mio cervello, non m'aveva permesso di osservare che avevo iniziato

 

il mio giro col muro alla mia sinistra, e l'avevo invece terminato

 

col muro alla mia destra.

 

E  ancora  mi  ero  ingannato,  per  ciò  che riguardava l'aspetto

 

dell'ambiente.  Nell'avanzare tentoni  avevo  incontrato  parecchi

 

angoli  e  da  ciò  avevo  dedotto che il carcere doveva avere una

 

pianta del tutto irregolare.  Gli angoli  -  tanto  può  l'effetto

 

d'una totale oscurità su colui che viene da uno stato letargico! -

 

altro non erano che semplici rientranze,  ovvero nicchie, le quali

 

s'aprivano nelle pareti a  intervalli  regolari.  La  segreta  era

 

quadrata.  Ciò  che io avevo scambiato per una parete di muro era,

 

invece,  una sorta di materia simile al ferro,  ovvero a un  altro

 

metallo,  in  enormi  lastre,  le  cui  giunture  determinavano le

 

rientranze che ho  detto  sopra.  L'intera  superficie  di  quella

 

struttura  metallica  era  rozzamente  istoriata  di  tutti quegli

 

emblemi orribili e ripugnanti alla  vista  dei  quali  è  soltanto

 

origine   la   sepolcrale   superstizione  dei  monaci,   ed  essi

 

rappresentavano dèmoni in atto di minaccia,  e scheletri  e  altre

 

forme e figure più orribili e verosimiglianti.  Notai così,  che i

 

contorni di quei mostri erano sufficientemente definiti ma  che  i

 

colori erano,  invece alterati e sbiaditi, come se avesse operato,

 

su di essi, l'atmosfera umida del luogo. Anche il pavimento era di

 

pietra e, nel suo centro, s'apriva un pozzo circolare - uno solo -

 

quello medesimo alla cui voragine io ero miracolosamente scampato.

 

Tutto questo fu veduto, da me,  in modo annebbiato e non senza che

 

io  operassi  un  qualche  sforzo,  da  che nel frattempo,  la mia

 

posizione era singolarmente  cambiata.  Nel  sonno,  infatti,  ero

 

stato  coricato  sul  dorso  e solidamente legato con una sorta di

 

lunga fascia,  su di un  basso  telaio  di  legno.  La  fascia  mi

 

s'avvolgeva,  più  volte,  attorno  al  corpo  e  lasciava  liberi

 

soltanto la  testa  e  il  braccio  sinistro,  sicché  io  potessi

 

prendere,  sebbene  a prezzo d'un incredibile sforzo per torcermi,

 

il cibo che era posto accanto a me,  sul suolo,  in un recipiente.

 

Rimasi  atterrito  nell'avvedermi  che  la brocca era stata tolta.

 

Atterrito,   dico,   dal  momento  ch'io  ero  divorato   da   una

 

insoffribile  sete.  E  credo  che l'esasperazione di questa fosse

 

calcolata nel piano dei miei persecutori,  giacché il  piatto  che

 

m'era posto accanto, era della carne terribilmente pepata.

 

Levai  gli occhi ad esaminare il soffitto della segreta.  Esso era

 

ad un'altezza di trenta o quaranta piedi da  me,  e  costruito  in

 

maniera  assai  somigliante  a quella delle mura laterali.  In uno

 

degli scomparti  vidi  dipinta  una  figura  talmente  strana  che

 

assorbì tutta la mia attenzione: essa rappresentava il Tempo,  con

 

tutti gli attributi che sogliono  darglisi,  eccetto  che,  invece

 

d'una falce,  egli aveva in mano un oggetto che io credetti, a una

 

prima occhiata, un grosso pendolo,  simile a quello che posseggono

 

taluni  orologi  antichi.  Nell'aspetto  di quell'ordigno,  v'era,

 

però,  qualcosa che mi costrinse ad esaminarlo  più  attentamente.

 

Mentre  lo  stavo guardando,  di sottinsù - poiché esso si trovava

 

proprio  sopra  di  me  -  mi  parve  che  si  muovesse.   La  sua

 

oscillazione era breve e, com'è naturale, molto lenta. Continuai a

 

guardarlo  per  alcuni  minuti  diffidente  e stupìto: stanco,  in

 

seguito, di quel suo monotono oscillamento, abbassai gli occhi per

 

scoprire gli altri oggetti di quella mia prigione.

 

Un lieve fruscìo attirò in  quel  momento  la  mia  attenzione,  e

 

buttando  un'occhiata  sul  pavimento,   nella  direzione  da  cui

 

proveniva,  vidi alcuni sorci giganteschi che  lo  attraversavano.

 

Uscivano  dal  pozzo  -  del quale potevo vedere la bocca alla mia

 

destra  -  lesti,  a  gruppi,   con  occhietti  avidi,   stimolati

 

dall'odore  della  carne.  Per tenerli lontani dal recipiente dove

 

questa era conservata  dovetti  spendere  non  poco  di  fatica  e

 

d'attenzione.

 

Era passata una mezz'ora,  o forse anche tutt'intera un'ora - dato

 

che io potevo calcolare il tempo solo con grande approssimazione -

 

allorché,   nell'alzare  gli  occhi,   vidi  tale  spettacolo   da

 

confondermi e vieppiù meravigliarmi.  Il percorso oscillatorio del

 

pendolo era infatti aumentato di una yarda all'incirca.  Ne veniva

 

di  conseguenza  che  la  velocità  del  suo  moto  era  aumentata

 

anch'essa. E, sopra ogni altra cosa, ebbe a turbarmi l'impressione

 

che esso fosse disceso,  e sensibilmente.  Vidi - in preda a quale

 

agghiacciante terrore è inutile che io dica - che la sua estremità

 

inferiore era formata da una lama, da una lucente falce d'acciaio,

 

lunga,  da  corno  a  corno,  un  piede  all'incirca,  colle punte

 

all'insù e il taglio inferiore affilato come un rasoio.  E difatti

 

la falce sembrava massiccia e pesante,  come appunto un rasoio,  e

 

dal filo si allargava in una struttura ampia e  solida.  Esso  era

 

appeso  a  una grossa verga di ottone e,  nel mentre che oscillava

 

nell'aria della segreta, mandava un orribile fischio.

 

Non potevo più serbare alcun dubbio sul  destino  che  l'inventiva

 

dei  monaci,  tanto  esperti  di torture,  m'aveva preparato.  Era

 

evidente che gli agenti dell'inquisizione  s'erano  accorti  della

 

scoperta che avevo fatta,  del pozzo;  il POZZO, del quale avevano

 

divisato di riservare gli orrori a un temerario eresiarca  qual'io

 

sono,  il POZZO emblema dell'inferno, e che l'opinione considerava

 

come l'ultima Thule di tutti i loro castighi.  Un caso  fortunato,

 

mi  aveva fatto evitare il salto fatale nella sua voragine,  ma io

 

sapevo che l'arte di  trasformare  il  supplizio  in  un  continuo

 

agguato,  in  una  snervante  successione  di sorprese,  era tra i

 

canoni fondamentali di tutto quel fantasioso  sistema  di  segrete

 

esecuzioni. Poiché io avevo mancato di precipitar nell'abisso, non

 

rientrava più,  nei loro piani, il costringermi a cadervi mediante

 

la forza. Mi attendeva, così, non essendoci alternativa, una morte

 

differente e più mite. Più mite!  Mi venne quasi da sorridere,  in

 

quella  mia  agonia,  al  pensiero  di quell'espressione che m'era

 

fiorita nel cervello.

 

A quale scopo raccontare lunghe,  eterne ore  d'angoscia  più  che

 

mortale,  durante  le  quali  io  non  mi  stancavo  di contare le

 

oscillazioni  fischianti  dell'acciaio?   Pollice  per  pollice...

 

frazione  per  frazione...  in  una  discesa  apprezzabile  solo a

 

intervalli che mi parevano secoli,  esso si  abbassava  man  mano,

 

senza fermarsi, mai, mai...

 

Trascorsero  alcuni giorni - è probabile che fossero anche molti -

 

prima che egli venisse ad oscillare tanto vicino  a  me  da  farmi

 

vento  col  suo  alito  acre.  L'odore  dell'acciaio  affilato  mi

 

s'infilava nelle narici. Io supplicai il cielo,  lo stancai con le

 

mie  preghiere,  perché  egli  facesse  scendere  il  ferro il più

 

rapidamente possibile.  E montai fino  a  una  rabbiosa  follia  e

 

operai  sforzi  sovrumani  per andare incontro al moto regolare di

 

quell'orribile scimitarra.  Finché io non caddi tutt'a un  tratto,

 

preda d'una calma vasta e potente,  e giacqui,  arridendo a quella

 

morte lampeggiante, come un bimbo a un raro balocco.

 

Una nuova porzione di tempo  in  totale  insensibilità,  seguì  in

 

breve.  Ma fu di corta durata.  Com'io ritornai in me,  mi accorsi

 

che il pendolo non si era  abbassato  in  misura  apprezzabile.  E

 

nondimeno  la durata del mio assopimento poteva anche essere stata

 

lunga,  ma,  essendovi  alcuni  dèmoni  a  spiarmi,  essi  avevano

 

sospesa, in quel frattempo, l' oscillazione. Mentr'io riprendevo i

 

sensi,  assaporai  un malessere,  una sensazione di fiacchezza che

 

meglio non so esprimere,  pari a quella che mi avrebbe preso  dopo

 

un  lungo  digiuno.  Anche  in quelle orribili torture,  la natura

 

umana  chiedeva  d'essere  sostentata.  Allungai,  in  uno  sforzo

 

penoso,  il braccio sinistro quanto m'era consentito dai lacci,  e

 

tolsi il misero avanzo di cibo  che  i  topi  m'avevano  lasciato.

 

Nell'istante  che  ne  recavo alle labbra un boccone,  un pensiero

 

d'indistinta gioia,  di balenante speranza,  m'attraversò in furia

 

il cervello. E nondimeno, cosa poteva esservi ormai di comune, tra

 

la speranza e me?  Esso era - l'ho già detto - un pensiero non ben

 

precisato, quale l'uomo,  talvolta,  assapora,  fuggevole,  da non

 

vederne  con  chiarezza  il  fondo  e  le ragioni e la natura.  Ma

 

compresi che esso era un pensiero di gioia e di  speranza,  e  nel

 

medesimo tempo,  che esso era già morto in sul nascere.  Tentai di

 

riafferrarlo e di completarlo, ma tutto fu vano.  Le interminabili

 

sofferenze  cui ero sottoposto,  avevano annientate le facoltà che

 

la mia mente  aveva  d'ordinario:  io  ero  divenuto  un  completo

 

imbecille, un assoluto idiota.

 

L'oscillazione  del  pendolo  procedeva in una direzione ad angolo

 

retto con quella della mia lunghezza,  ed osservai che la lama era

 

così  disposta che avrebbe attraversata la regione del cuore: essa

 

avrebbe dapprima leggermente graffiata la stoffa della mia veste e

 

poi sarebbe di nuovo  tornata  indietro  a  ripetere  quel  debole

 

graffio,  e poi di nuovo, e poi ancora... e ancora... e nonostante

 

l'ampiezza dell'oscillazione - la quale s'apriva per una trentina,

 

se non di più, di piedi - e la fischiante forza della sua discesa,

 

la quale sarebbe  stata  sufficiente  anche  ad  atterrare  quelle

 

ferree muraglie, la lama del pendolo non avrebbe potuto far altro,

 

durante alcuni lunghi minuti, che lacerarmi il vestito. M'arrestai

 

a  questo  pensiero  giacché  non  osavo  spingermi  oltre.  E  mi

 

concentrai in quello con  ostinazione,  come  se,  arrestandomi  a

 

pensare  lì,  avessi  potuto  fermare lì anche la lama,  nella sua

 

discesa.  Io facevo ogni sforzo,  per pensare al suono che avrebbe

 

emesso la lama al momento di tagliare il panno della veste, e posi

 

mente ancora al brivido che produce lo sfregamento della stoffa. E

 

non smisi di pensare a tutte queste sciocchezze fintantoché non mi

 

sentii allegare i denti.

 

Giù...  la lama scendeva uniformemente, sempre più giù.