Ma

 

il PRINCIPIUM INDIVIDUATIONIS,  la nozione di quella identità "che

 

con la morte si perde o non si perde per sempre",  fu per  me,  in

 

ogni  momento,  una considerazione di intenso interesse;  non solo

 

per la natura sconcertante ed eccitante delle sue conseguenze,  ma

 

anche  e altrettanto per la maniera spiccata e agitata  con cui ne

 

parlava Morella.

 

Ma a dire il vero era ormai arrivato il tempo in  cui  il  mistero

 

dei  modi  di  mia  moglie mi opprimeva come una stregoneria.  Non

 

potevo più sopportare il tocco delle sue ceree dita,    il  tono

 

basso  del  suo eloquio musicale,  né la lucentezza dei suoi occhi

 

malinconici. Ed essa ben lo sapeva, ma non mi rimproverava; pareva

 

consapevole della mia debolezza o follia, e sorridendo la chiamava

 

Fato.  Pareva anche conoscere una causa,  a  me  ignota,  del  mio

 

graduale  straniarmi;  ma non mi dava cenno o indizio alcuno sulla

 

sua  natura. Ma era pur sempre donna, e giornalmente languiva. Col

 

tempo, la chiazza rossastra si fissò sulla guancia, e sulla fronte

 

sporsero le vene azzurre;  e a un dato momento il  mio  essere  si

 

scioglieva  in  pietà,  ma un attimo dopo incontravo lo sguardo di

 

quegli occhi significativi,  e allora l'anima mi  si  rivoltava  e

 

pativa  le  vertigini  di  chi  guarda  in  un  abisso squallido e

 

insondabile.

 

Dovrò dunque dire che con desiderio fervido e struggente andavo al

 

momento della dipartita  di  Morella?  Così  era;  ma  il  fragile

 

spirito  si  aggrappò  per molti giorni alla sua dimora di creta -

 

per molte settimane e mesi  esasperanti  -  finché  i  miei  nervi

 

torturati non riuscirono a dominare la mia mente, e io mi infuriai

 

del ritardo,  e con cuore di demonio maledissi i giorni,  le ore e

 

gli amari attimi,  che parevano allargarsi sempre più a misura che

 

declinava  la  sua  vita  gentile,  come  ombre allo spegnersi del

 

giorno.

 

Ma una sera d'autunno,  quando i venti tacevano immoti  in  cielo,

 

Morella mi chiamò al suo capezzale.  Su tutta la terra si stendeva

 

una vaga nebbia,  e  un caldo bagliore illuminava le acque,  e tra

 

le  fastose  foglie  della  foresta ottobrina era certo caduto dal

 

cielo un arcobaleno.

 

"E' un giorno eletto",  disse al mio avvicinarmi;  "un giorno  fra

 

tutti i giorni fatto per vivere o per morire. E' un bel giorno per

 

i  figli  della  terra  e della vita: ah,  più bello ancora per le

 

figlie del cielo e della morte!".

 

Le baciai la fronte, ed essa continuò:

 

"Io muoio, ma vivrò".

 

"Morella!".

 

"Ripeto che muoio.  Ma dentro di me vi è un pegno di quell'affetto

 

- oh,  quanto scarso!  - che tu provasti per me, Morella. E quando

 

il mio spirito si dipartirà vivrà la creatura,  la creatura tua  e

 

mia,  di Morella.  Ma i tuoi giorni saranno giorni di dolore, quel

 

dolore che è la più duratura delle impressioni,  come il  cipresso

 

degli alberi, poiché i giorni della tua felicità sono finiti; e la

 

gioia  non  si  raccoglie  due volte in una vita,  come le rose di

 

Pesto non si colgono due volte in un anno. Tu quindi non giocherai

 

più col tempo alla maniera di Anacreonte,  ma ignaro del  mirto  e

 

della  vite  porterai  con  te il tuo sudario sulla terra,  come i

 

Musulmani alla Mecca".

 

"Morella!" gridai, "Morella!  come fai a saperlo?" ma essa girò il

 

viso  sul  guanciale,  e  sopraggiunta  da  un lieve tremore nelle

 

membra morì così, e non udii più la sua voce.

 

Eppure, come aveva predetto, la sua creatura - a cui morendo aveva

 

dato nascita,  e che non respirò fin  quando  la  madre  non  ebbe

 

cessato  di  respirare  - la sua creatura,  una figlia,  visse.  E

 

crebbe stranamente di statura e d'intelletto,  ed era il  ritratto

 

perfetto della defunta,  e io l'amavo di amore più intenso che non

 

avessi creduto possibile sentire per una creatura terrena.

 

Ma non andò molto che il cielo di questo puro affetto si oscurò, e

 

cupezza,  orrore e dolore lo invasero a nuvole.  Ho detto  che  la

 

figliola  crebbe  stranamente di statura e d'intelligenza.  Strana

 

davvero fu  la  sua  rapida  crescita  fisica,  ma  tremendi,  oh,

 

tremendi   erano   i   pensieri   tumultuosi  che  mi  incalzarono

 

all'osservarne  il  suo  sviluppo   mentale.   E   poteva   essere

 

altrimenti,  quando  ogni  giorno  scoprivo nelle concezioni della

 

bambina le capacità  e  facoltà  della  donna  adulta?  quando  le

 

lezioni dell'esperienza sgorgavano dalle labbra infantili?  quando

 

di ora in ora scorgevo saggezza e  passioni  mature  splendere  da

 

quegli  occhi  pieni e pensosi?  Quando,  dico,  tutto ciò divenne

 

chiaro ai miei sensi sgomentati - quando non potei più nasconderlo

 

all'anima mia,  né respingerlo da quelle percezioni che  tremavano

 

al  riceverlo  -  c'è da stupirsi che sospetti d'indole paurosa ed

 

eccitante si insinuassero nel mio spirito,  o che i miei  pensieri

 

tornassero  esterrefatti  ai racconti pazzeschi e alle mirabolanti

 

teorie della sepolta  Morella?  Io  sottrassi  all'attenzione  del

 

mondo  un  essere che il destino mi costringeva ad adorare,  e nel

 

rigoroso isolamento di casa mia sorvegliai  con  ansia  tormentosa

 

tutto ciò che riguardava la mia diletta.

 

E  col passare degli anni,  mentre di giorno in giorno contemplavo

 

il suo viso santo,  mite ed espressivo,  e meditavo  sul  maturare

 

della  sua    persona,  di  giorno in giorno scoprivo nella figlia

 

nuovi punti di somiglianza con la madre, con la malinconica morta.

 

E di ora in ora  si  addensavano  più  oscure    queste  ombre  di

 

somiglianza, facendosi più piene e definite, più sconcertanti, più

 

orrende  all'aspetto.  Poiché,  se  aveva il sorriso di sua madre,

 

questo potevo sopportarlo;  ma poi rabbrividivo  alla  sua  troppo

 

perfetta  IDENTITA',  che gli occhi fossero come quelli di Morella

 

potevo del pari sopportarlo;  ma poi troppo  spesso  sondavano  le

 

profondità   dell'anima   mia   con  l'intenzione  concentrata  ed

 

enigmatica di Morella.  E nella  forma  dell'alta  fronte,  e  nei

 

tristi  toni  musicali  del  suo  discorrere,  e soprattutto - oh,

 

soprattutto  -  nelle  frasi  ed  espressioni  della   morta   che

 

scaturivano  dalle  labbra  dell'amata e viva,  trovavo alimento a

 

pensieri struggenti e orrore, a un verme che non voleva morire.

 

Così passarono due lustri della sua  vita,  e  ancora  mia  figlia

 

rimaneva senza nome su questa terra. ' Figlia mia ', e ' amore mio

 

'  erano  le designazioni solitamente suggerite dall'affetto di un

 

padre,  e il rigido isolamento delle sue giornate precludeva  ogni

 

altro contatto.  Il nome di Morella morì con lei.  Della madre non

 

avevo mai parlato alla figlia; era impossibile parlare. Anzi,  per

 

il breve tempo che era durata finora la sua esistenza quest'ultima

 

non aveva ricevuto impressioni di sorta dal mondo esterno,  tranne

 

quelle compatibili con gli angusti limiti della sua  intimità.  Ma

 

finalmente  la  cerimonia del battesimo fornì alla mia mente,  nel

 

suo stato di snervata  agitazione,  un'immediata  liberazione  dai

 

terrori  del  mio  destino.  E  al  fonte battesimale esitai nello

 

scegliere un nome. E molti nomi appartenuti a donne sagge e belle,

 

nomi di tempi antichi e  moderni,  della  mia  terra  e  di  terre

 

straniere,  si affollarono alle mie labbra,  con molti, molti nomi

 

di donne gentili, e felici, e buone.  Che cosa dunque mi indusse a

 

disturbare  la  memoria  della  morta?  Quale  demone  mi spinse a

 

esalare quel suono che al solo ricordo faceva fluire a torrenti il

 

purpureo sangue dalle tempie al cuore? Quale spirito maligno parlò

 

dai recessi dell'anima mia, quando fra quelle fosche navate, e nel

 

silenzio della notte,  sussurrai  all'orecchio  del  sacerdote  le

 

sillabe  -  Morella?  Quale  demonio  più  che  demonio contorse i

 

lineamenti della mia creatura e vi diffuse  una  tinta  di  morte,

 

quando  trasalendo  a  quel suono appena udibile rivolse gli occhi

 

vitrei dalla terra al cielo, e cadendo prostrata sui neri lastroni

 

della nostra cappella avìta rispose: "Sono qui!"?

 

Distinti, freddamente e quietamente distinti caddero quei semplici

 

suoni sul mio orecchio,  e di  lì,  come  piombo  fuso,  sibilando

 

colarono al cervello.  Gli anni,  gli anni potranno passare, ma la

 

memoria di quell'epoca,  mai!  Né fui davvero ignaro dei  fiori  e

 

della vite,  ma cicuta e cipressi mi adombrarono giorno e notte. E

 

non tenni più calcolo di tempo e di luogo,  e le  stelle  del  mio

 

destino svanirono dal cielo,  e le sue figure mi passarono accanto

 

come ombre effimere, e fra tutte vedevo soltanto Morella.  I venti

 

del  firmamento  non spirarono che un suono al mio orecchio,  e le

 

increspature del mare per  sempre  mormorarono  Morella.  Ma  essa

 

morì;  e  con  queste mani la portai alla tomba;  e risi d'un riso

 

lungo e amaro quando non trovai traccia della prima  nel  sepolcro

 

ove deposi la seconda Morella.

 

 

4. Metzengerstein.

 

 

L'orrore  e la  fatalità hanno avuto a che fare in tutti i secoli.

 

A  che  mettere,  allora,  una  data  nella  storia  che  sto  per

 

raccontare?  Mi  basta  appena  premettere  che,  all'epoca di cui

 

parlo,  sussisteva,  nel centro dell'Ungheria,  una ferma credenza

 

nelle  dottrine  della  metèmpsicòsi.  Di  tali  dottrine per esse

 

stesse,  della loro inattendibilità ovvero della loro probabilità,

 

a  me  non  interessa  dire e non dirò nulla.  Io posso affermare,

 

nondimeno, che gran parte di tutta la nostra incredulità - secondo

 

che  dice  La  Bruyère,  il  quale  attribuisce  tutte  le  nostre

 

disgrazie  a quest'unica causa - ' vient de ne pouvoir  être seuls

 

'.

 

Ma alcuni punti di quella superstizione ungherese toccavano  quasi

 

l'assurdo.  I  Magiari  differiscono essenzialmente dalle autorità

 

Orientali, per ciò che riguarda tale argomento. (Nota dell'autore:

 

Il Mercier nel suo ' L'an deux  milles  quatre  cent  quarante  ',

 

sostiene,  con  decisione,  le  dottrine della metèmpsicòsi,  e J.

 

d'Israeli afferma che non esiste sistema semplice  come  quello  e

 

che  tanto,  come quello,  ripugni all'intelligenza.  E persino il

 

colonnello Etham Allen,  il ' Green  Mountain  Boy  ',  passa  per

 

essere  stato un convinto metèmpsicosìsta).  E,  tanto per fare un

 

esempio,  citerò le parole d'un  acuto  e  intelligente  parigino:

 

"L'âme  ne demeure qu'une seule foi dans un corps sensible.  Ainsi

 

un cheval,  un chien,  un homme même,  ne sont que la rassemblance

 

illusoire de ces êtres".

 

Le famiglie Berlifitzing e Metzengerstein erano state in discordia

 

per  secoli.  Non  s'erano  mai  viste  due  casate tanto illustri

 

reciprocamente inasprite in una  inimicizia  addirittura  mortale.

 

Quest'odio  poteva  aver  avuto  origine dalle parole d'una antica

 

profezia:  "Un  grande  nome  cadrà  da  una  terribile   altezza,

 

allorché,  simile a un cavaliere sul proprio cavallo, la mortalità

 

di Metzengerstein trionferà sull'immortalità di Berlifitzing".

 

In sé e per sé,  è indubitato che tali  parole  contenessero  poco

 

senso.  Ma  cause  ancor  più volgari di quelle hanno condotto - e

 

senza risalire troppo in alto nel tempo - a conseguenze ugualmente

 

gravide d'avvenimenti.  E d'altro canto  i  due  domìni,  ch'erano

 

confinanti, avevano esercitato, a lungo, un'influenza rivale nelle

 

vicende  d'un  tumultuoso  governo.  Vicini  tanto vicini com'essi

 

erano,  raramente sono amici,  e  gli  abitanti  del  castello  di

 

Berlifitzing  potevano  spingere  i  loro  sguardi  fin  dentro le

 

finestre del palazzo Metzengerstein dove  il  dispiegamento  d'una

 

magnificenza   feudale   era   inadatto  a  calmare  i  sentimenti

 

irritabili dei Berlifitzing  che erano di meno antica e meno ricca

 

origine.  Perché  meravigliarsi,   allora,   se  le  parole  della

 

surriferita  predizione - le quali non suonano,  per questo,  meno

 

bizzarre - avevano potuto determinare e tener  desta  la  rivalità

 

tra  due famiglie le quali vi erano già predisposte dalle continue

 

istigazioni d'una gelosìa ereditaria?  Se qualcosa  essa  stava  a

 

significare, la predizione prometteva il trionfo finale alla parte

 

più  cospicua  ed  è  quindi naturale che fosse rammentata con una

 

cotale animosità da quella parte, fra le due, che era più debole e

 

meno influente.

 

Wilhelm,  conte di Berlifitzing,  malgrado il suo alto  lignaggio,

 

all'epoca dell'odierno racconto era un vecchio carico di malanni e

 

per metà svanito di mente, il quale poteva solo essere distinto da

 

una radicata antipatia personale ai danni della casata rivale e da

 

un  amore  così appassionato per i cavalli e la caccia che nemmeno

 

le infermità fisiche e l'età avanzata,  come pure la debolezza del

 

suo  cervello,  potevano  vietargli  di  correre,  ogni giorno,  i

 

pericoli che quegli esercizi comportano seco.

 

E Frederick,  d'altro canto,  barone di Metzengerstein,  non aveva

 

ancora raggiunto la maggiore età.  Il ministro G.,  suo padre, era

 

morto giovane e sua madre,  Lady Mary,  aveva raggiunto il  marito

 

con  breve  intervallo.  Frederick  aveva,  allora,  diciott'anni.

 

Diciott'anni spesi in una  città, in una vita collettiva, non sono

 

un grande periodo di tempo. Ma nella solitudine, nella magnifica e

 

solenne solitudine di un antico e aristocratico ritiro, il pendolo

 

oscilla con più profonda e significativa maestà.

 

In seguito ad  alcune  particolari  modalità  dell'amministrazione

 

paterna,  non  appena il suo avo ebbe a morire,  il giovane barone

 

entrò in possesso dei suoi vasti domìni. Prima di quel tempo s'era

 

vista raramente, in Ungheria,  tanta e così nobile proprietà nelle

 

mani d'un solo. I castelli erano innumerevoli e il più splendido e

 

il più vasto era il palazzo di Metzengerstein, tanto che il limite

 

delle  terre  intorno  non  era  mai stato ben definito.  Il parco

 

principale,  ad ogni modo,  abbracciava un circuito  di  cinquanta

 

miglia.

 

La successione di persona così giovane e dal carattere,  pertanto,

 

assai ben conosciuto,  non  lasciava  supporre  nulla  di  preciso

 

attorno alla probabile condotta ch'egli avrebbe seguita. E questa,

 

per  la verità,  oscurò la fama di Erode nello spazio d'appena tre

 

giorni superando,  in  magnificenza,  le  speranze  dei  suoi  più

 

entusiasti  ammiratori.   Orgie  vergognose,  flagranti  perfìdie,

 

tradimenti,  inganni,  atrocità inaudite resero ben presto noto ai

 

suoi   trepidanti  vassalli  che    nulla,     la  loro  servile

 

sottomissione,  né alcun probabile scrupolo di coscienza da  parte

 

del  medesimo  signore,  avrebbero potuto proteggerli,  in qualche

 

modo,  dagli artigli impietosi di quel piccolo Caligola.  La notte

 

del  quarto dì,  furono viste bruciare delle scuderìe del castello

 

di Berlifitzing. E così anche il delitto di quell'incendio andò ad

 

aggiungersi, secondo l'unanime opinione dei vicini,  alla orribile

 

lista  degli  atroci  misfatti  del  barone.   Quanto  al  giovane

 

gentiluomo,  egli se ne stette,  per tutto il tempo  che  durò  il

 

tumulto   provocato  da  quell'accidente,   assorto  in  apparente

 

meditazione,  seduto in una stanza vasta e solitaria,  nella parte

 

più  remota  ed  elevata del palazzo avìto dei Metzengerstein.  La

 

tappezzeria ricca, ancorché sbiadita, che pendeva malinconicamente

 

alle pareti,  rappresentava i ritratti fantastici  e  maestosi  di

 

mille  antenati  illustri.   Prelati,   colà,   riccamente  parati

 

d'ermellino,   dignitari  pontifici   familiarmente   assisi   con

 

l'autocrate o il sovrano, opponevano il loro veto ai capricci d'un

 

re  temporale  e,  col  favore  del  potere,  in mano loro,  della

 

supremazia  papale,  trattenevano  il  ribelle  scettro  del  Gran

 

Nemico.   Altrove  le  cupe  smisurate  stature  dei  principi  di

 

Metzengerstein,  i cui muscolosi cavalli da  guerra  pestavano  le

 

spoglie  dei  nemici  caduti,   scuotevano,  per  la  loro  feroce

 

espressione, anche i nervi più solidi. Ed ancora,  simili a cigni,

 

le  voluttuose  immagini  delle  dame dei tempi andati fluttuavano

 

negli intrichi d'una  danza  fantastica,  intente  all'accento  di

 

melodie immaginarie.

 

Ma  nel  mentre  che il barone prestava orecchio - ovvero sembrava

 

prestarlo - al baccano ognor crescente che veniva  dalle  scuderie

 

dei Berlifitzing,  - e probabilmente rifletteva attorno a un nuovo

 

piano,  più risoluto e ancora più audace - i suoi occhi  ebbero  a

 

posarsi  involontariamente sulla figura d'un enorme cavallo,  d'un

 

colore innaturale,  il  quale,  secondo  la  leggenda  raffigurata

 

nell'arazzo,  sembrava  appartenere  a  un antenato saraceno della

 

famiglia rivale. Il cavallo restava immobile come una statua,  nel

 

primo  piano  del quadro,  nel mentre che,  poco discosto,  il suo

 

cavaliere periva, sotto il pugnale d'un Metzengerstein.

 

Un'espressione diavolesca increspò le  labbra  di  Frederick,  non

 

appena  egli  s'avvide  della  direzione  ch'aveva  presa  il  suo

 

sguardo.  Pure non distolse gli occhi e non  poté,  al  contrario,

 

liberarsi  dall'oppressione    di  un'ansia  che  gli era piombata

 

pesantemente  addosso  come  un  drappo  mortuario   e   gli   era

 

difficoltoso  connettere le sue incoerenti sensazioni materiate di

 

sogno,  con la sicurezza d'esser desto.  E più indugiava in quella

 

contemplazione   e  più  avvertiva  che  quella  magia  lo  andava

 

possedendo,  e più ancora gli sembrava  impossibile  sottrarre  lo

 

sguardo  dal  perfido  fascino di quell'arazzo.  E come il baccano

 

esterno salì improvvisamente di  ferocia,  egli  spostò,  con  uno

 

sforzo,  la  propria  attenzione    sul  viale  che,  dal palazzo,

 

conduceva fino alle scuderie della proprietà.

 

"No", disse il barone voltandosi di scatto. "E' morto?".

 

"Certamente, signor mio e nondimeno io ritengo che,  per voi,  ciò

 

non costituisca quel che si dice una cattiva nuova".

 

Un sorriso illuminò il volto del barone.

 

"E come è morto?" s'affrettò a chiedere.

 

"Nel  mentre  che  s'affannava  a  tentar  di  salvare alcuni suoi

 

favoriti cavalli da caccia,  egli  è  miseramente  perìto  tra  le

 

fiamme".

 

"Dav...  ve...  ro...?" esclamò il barone al modo stesso che se si

 

andasse  convincendo  per  gradi  della   veridicità   d'una   sua

 

misteriosa supposizione.

 

"Davvero!" disse il vassallo.

 

"Orrore!"  concluse  il  barone ma con calma,  quasi dimentico del

 

significato di quella parola;  e rientrò tranquillamente  nel  suo

 

palazzo.

 

A  partir da quel giorno,  un notevole mutamento si verificò nella

 

condotta esteriore del giovane e dissoluto  barone  Frederick  von

 

Metzengerstein.  Egli s'era comportato,  per la verità, in modo da

 

provocare il disappunto di  molte  speranze  e  da  sconcertare  i

 

disegni  di più d'una madre intrigante.  Ora,  per contro,  le sue

 

abitudini, finirono coll'uniformarsi in tutto e per tutto a quelle

 

della società aristocratica del vicinato. Egli,  così,  non fu più

 

visto fuori dei suoi domìni e non coltivò del pari alcun amico nel

 

vasto mondo della società conterranea,  ove non si voglia calcolar

 

per un amico  quel sovrannaturale e impetuoso  cavallo  di  fiamma

 

ch'egli non smetteva mai di montare dal giorno dell'incendio.

 

Dalle  famiglie confinanti,  tuttavia,  continuarono a pervenirgli

 

inviti d'ogni sorta. "Sarà così gentile il signor barone d'onorare

 

la nostra festa con la  sua  presenza?";  "Sarà  così  gentile  il

 

signor barone da prendere parte alla nostra caccia al cinghiale?";

 

"Metzengerstein   non  va  a  caccia";   "Metzengerstein  non  può

 

accettare", erano le sue brevi ed altere risposte.

 

Il ripetersi di tali ingiuriose  ripulse  non  poté,  alla  lunga,

 

essere sopportato da quella altera nobiltà.  Gli inviti divennero,

 

così, meno cordiali,  meno frequenti e,  a poco a poco,  cessarono

 

del  tutto.  E  fu intesa la vedova del defunto conte Berlifitzing

 

esprimere il  voto  che  "il  barone  potesse  esser  costretto  a

 

starsene  in  casa,  dal  momento che disprezzava la compagnia dei

 

suoi uguali, proprio quando avrebbe desiderato di non trovarvicisi

 

e ancora,  dal  momento  che  a  quella  di  coloro  preferiva  la

 

compagnia  d'un  cavallo,  a cavalcare quando non ne aveva nessuna

 

voglia".  La qual  cosa  non  era,  certamente,  che  una  volgare

 

esplosione  del  rancore  ereditario e dimostrava soltanto come le

 

parole che noi usiamo rischiano di perdere ogni  loro  significato

 

se noi vogliamo a ogni costo conferir loro una estrema energia.

 

E tuttavia le persone caritatevoli attribuivano il mutamento della

 

condotta  del giovane gentiluomo al suo più che naturale dolore di

 

figlio - ahimè - troppo presto privato dei suoi genitori.  E  così

 

facendo,  davano  a vedere,  nondimeno,  d'aver dimenticato il suo

 

feroce contegno e la sua indifferenza  nei  giorni  che  seguirono

 

immediatamente  quella  sua  duplice perdita.  Vi fu taluno che lo

 

accusò  d'essersi  forgiata  un'idea   esagerata   della   propria

 

importanza e della propria dignità,  e altri ancora - e tra questi

 

converrà mettere il medico della famiglia - i quali non dubitarono

 

di attribuire il tutto a una sorta di morbosa malinconìa ereditata

 

dai suoi avi. Torbide insinuazioni, oltre a queste,  e d'ancor più

 

dubbia  natura,   correvano,   nel  frattempo,  sulle  bocche  dei

 

pettegoli.

 

Il perverso attaccamento,  per la verità,  del barone per  la  sua

 

nuova  cavalcatura  -  il  quale  pareva  aumentare  di forza e di

 

passione  ogniqualvolta l'animale  dava nuova  prova  e  incentivo

 

alle  sue sfrenate e demoniache tendenze - fu giudicato,  da tutte

 

le persone ragionevoli, al pari d'una orripilante tenerezza contro

 

la natura.  Al rosseggiar del meriggio e nelle morte ore notturne,

 

col  bel tempo e con la tempesta,  sia ch'egli fosse ammalato o in

 

salute,  il giovane Metzengerstein sembrava inchiodato alla  sella

 

del  suo  gigantesco  corsiero  del  quale  l'audacia  senza freni

 

s'accordava troppo bene al suo proprio carattere.

 

E si dettero, ancora,  talune circostanze le quali,  riferite agli

 

avvenimenti   più   recenti,   crearono   un'atmosfera   mitica  e

 

soprannaturale attorno alle manie del  cavaliere  e  alle  qualità

 

della  bestia.  Fu  misurato  meticolosamente lo spazio che questi

 

poteva superare con un suo salto e fu trovato che esso  era  assai

 

più  ampio  di  quanto  non  fosse supposto dai più esagerati.  Il

 

barone,   inoltre,   non  aveva  dato  all'animale   nessun   nome

 

particolare,  mentre tutti gli altri cavalli della sua scuderia ne

 

avevano uno.  La scuderia per quell'eccezionale corsiero era stata

 

ricavata   a  una  certa  distanza  dalle  altre  e  nessuno  mai,

 

eccettuato il barone,  aveva osato varcarne la soglia,  foss'anche

 

per attendere alla cura e alla pulizia della bestia.  E fu inoltre

 

notato che nessuno dei tre  inservienti  o  palafrenieri  i  quali

 

erano riusciti,  a mezzo d'una cruda che terminava in un cappio, a

 

impadronirsi  del  corsiero  in  fuga  dall'incendio  del   vicino

 

castello di Berlifitzing,  era in grado di affermare con sicurezza

 

d'aver poggiato le mani,  nel corso di quella lotta perigliosa   o

 

in  alcun  altro  momento  successivo,  su  alcuna parte del corpo

 

dell'animale.  Il fatto che  un  cavallo  di  nobile  razza  e  di

 

generoso  impeto  dia prove d'una intelligenza affatto particolare

 

non è cosa che possa destare un interesse del tutto eccezionale  e

 

nondimeno,   per   quel  che  concerne  il  caso  del  cavallo  di

 

Metzengerstein,  si verificarono circostanze tali da  riuscire  ad

 

impressionare anche coloro che si dicevano scettici e indifferenti

 

di professione. E di fatto si ricordava di una volta che la bestia

 

aveva  fatto  retrocedere un'intera folla in preda al terrore,  la

 

quale un istante prima gli si  stringeva  attorno  per  ammirarlo,

 

solo a causa dell'impressionante profondità del pensiero adombrato

 

nel  terribile pestar del suo zoccolo,  e d'una altra volta ancora

 

in cui il giovine Metzengerstein s'era volto  a  riguardare  dalla

 

parte  opposta,  sbiancato  in viso,  per sfuggire a una subitanea

 

occhiata  scrutatrice  del  cavallo  che  pareva   guardarlo   con

 

un'espressione di serietà e quasi d'umanità.

 

Nessuno,  tra i servi,  sollevò mai qualche dubbio sull'affezione

 

del tutto eccezionale che il giovine gentiluomo portava al cavallo

 

per  le  sue  brillanti  qualità,   nessuno  ove  si  eccettui  un

 

insignificante  servitorello  le cui difformità erano sempre tra i

 

piedi  delle  persone  e  alle  cui  opinioni  non  era  il   caso

 

d'attribuire  soverchia  importanza.   Egli  aveva  la  tracotanza

 

d'affermare - seppure il suo parere merita d'essere  rammentato  -

 

che  il  suo  padrone  non  era  mai  salito  in  sella  senza  un

 

inesplicabile e quasi impercettibile brivido  e  che,  al  ritorno

 

dalle sue lunghe cavalcate,  non mancava di tradire,  ogni giorno,

 

un'espressione trionfante di malvagità la quale gli tendeva  tutti

 

i muscoli facciali.

 

Una notte d'uragano,  Metzengerstein si destò all'improvviso da un

 

sonno pesante, uscì come impazzito dalla sua stanza,  salì in gran

 

furia  sul  suo  cavallo  di  fuoco  e scomparve in un balzo negli

 

intrichi della selva. L'avvenimento era così comune che nessuno vi

 

pose mente; epperò i servi attesero il ritorno del barone con viva

 

ansietà poiché,  qualche  ora  dopo  che  egli  era  scomparso,  i

 

mirifici edifizi del palazzo  di Metzengerstein avevano cominciato

 

a scricchiolare e a vacillare dalle fondamenta sotto l'azione d'un

 

fuoco  improvviso e irriducibile il quale ricopriva le costruzioni

 

d'una massa livida e spessa di  fumo.  E  nondimeno,  allorché  la

 

gente se ne avvide,  le fiamme avevano già menata innanzi di tanto

 

la loro opera distruttrice che qualsiasi sforzo  per  salvare  una

 

parte soltanto delle costruzioni apparve palesemente vano,  e così

 

gli accorsi se  ne  stettero  attoniti    intorno,  preda  d'uno

 

stupefatto,  se  non  apatico  silenzio.  Ma  un  oggetto  nuovo e

 

terribile attrasse ben presto  l'attenzione  della  moltitudine  e

 

mostrò  come  sia molto più intenso l'interesse che può fomentare,

 

in una folla,  la contemplazione d'una umana agonia che non il più

 

orripilante spettacolo offerto dalla materia inanimata.

 

Sul  lungo  viale  di  querce  vetuste  che portava,  dalla selva,

 

all'ingresso del palazzo di Metzengerstein apparve  all'improvviso

 

un corsiero, montato da un cavaliere scapigliato e con le vesti in

 

disordine,  il quale spiccava tali balzi da sfidare, per l'ìmpeto,

 

perfino il Dèmone dell'uragano.

 

Il cavaliere - era evidente - non riusciva a frenare quella  corsa

 

impazzita,  ed  appariva,  dall'espressione  atterrita  della  sua

 

faccia e dal  convulso  agitarsi  del  suo  corpo,  ch'egli  stava

 

sostenendo uno sforzo sovrumano.  E purtuttavia,  all'infuori d'un

 

unico grido - e come fu inteso rintronare!  - che gli sfuggì dalle

 

labbra,  lacerate  dai  suoi  stessi  morsi  che  la intensità del

 

terrore gli suggeriva sempre più frequenti,  non  fu  udito  alcun

 

suono che provenisse da lui.

 

Un  solo istante ancora e lo scalpitìo degli zoccoli stridette più

 

alto e acuto che il ruggito delle fiamme e l'urlìo del  vento.  Un

 

solo  istante ancora e,  dopo aver superato,  in un sol balzo,  il

 

fossato e la soglia,  il cavallo si slanciò su per  le  scale  del

 

palazzo,  prossime  a  crollare,  col  suo  cavaliere  in  groppa,

 

nitrendo alto fra i turbini di fuoco.

 

E all'improvviso,  allora,  s'acquietò  la  furia  dell'uragano  e

 

sopravvenne  una  tetra calma di morte.  Salì una candida fiamma e

 

avviluppò tutto il palazzo come un  sudario  e,  vampando  su  per

 

l'aria    tranquilla,    dardeggiò    in   lontananza   una   luce

 

soprannaturale. In quello stesso istante,  una spessa nube di fumo

 

s'appesantì   sull'antica   costruzione  e  prese  la  forma  d'un

 

gigantesco cavallo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5. Il pozzo e il pendolo.

 

 

Io ero ammalato...  ammalato fino  alla  morte  per  quella  lenta

 

agonia;  e come alfine essi mi sciolsero e potei sedere, mi sentii

 

venir meno.  La sentenza -  la paurosa  sentenza  di  morte  -  fu

 

l'ultimo  accento  distinto che mi arrivasse all'orecchio.  Poi le

 

voci degli  inquisitori  sembrarono  perdersi  in  un  sognante  e

 

indefinito ronzio. Il suono che udivo, ridestava, in me, l'idea di

 

una  '  rotazione  '  ma  soltanto,   forse,   perché,  nella  mia

 

immaginazione, si associava al ritmo d'una macina da mulino. Tutto

 

questo durò pochissimo tempo: in capo ad alcuni  minuti  non  udii

 

più nulla.  E nondimeno vidi ancora,  per qualche istante, vidi  -

 

ma per quale orribile deformazione  del  mio  organo?  -  vidi  le

 

labbra dei giudici vestiti di nero.  Esse mi parvero bianche,  più

 

bianche ancora del foglio  dove  io  segno,  al  presente,  queste

 

parole;  e  sottili,  ancora  mi parvero,  sottili fino a diventar

 

grottesche,  sottili,  per l'ostinazione e profondità  della  loro

 

dura  espressione,  per l'irrevocabile decisione che tradivano,per

 

il severo spregio dell'umano dolore  che  esse  ostentavano.