Ma
il PRINCIPIUM INDIVIDUATIONIS, la nozione di quella identità "che
con la morte si perde o non si perde per sempre", fu per me, in
ogni momento, una considerazione di intenso interesse; non solo
per la natura sconcertante ed eccitante delle sue conseguenze, ma
anche e altrettanto per la maniera spiccata e agitata con cui ne
parlava Morella.
Ma a dire il vero era ormai arrivato il tempo in cui il mistero
dei modi di mia moglie mi opprimeva come una stregoneria. Non
potevo più sopportare il tocco delle sue ceree dita, né il tono
basso del suo eloquio musicale, né la lucentezza dei suoi occhi
malinconici. Ed essa ben lo sapeva, ma non mi rimproverava; pareva
consapevole della mia debolezza o follia, e sorridendo la chiamava
Fato. Pareva anche conoscere una causa, a me ignota, del mio
graduale straniarmi; ma non mi dava cenno o indizio alcuno sulla
sua natura. Ma era pur sempre donna, e giornalmente languiva. Col
tempo, la chiazza rossastra si fissò sulla guancia, e sulla fronte
sporsero le vene azzurre; e a un dato momento il mio essere si
scioglieva in pietà, ma un attimo dopo incontravo lo sguardo di
quegli occhi significativi, e allora l'anima mi si rivoltava e
pativa le vertigini di chi guarda in un abisso squallido e
insondabile.
Dovrò dunque dire che con desiderio fervido e struggente andavo al
momento della dipartita di Morella? Così era; ma il fragile
spirito si aggrappò per molti giorni alla sua dimora di creta -
per molte settimane e mesi esasperanti - finché i miei nervi
torturati non riuscirono a dominare la mia mente, e io mi infuriai
del ritardo, e con cuore di demonio maledissi i giorni, le ore e
gli amari attimi, che parevano allargarsi sempre più a misura che
declinava la sua vita gentile, come ombre allo spegnersi del
giorno.
Ma una sera d'autunno, quando i venti tacevano immoti in cielo,
Morella mi chiamò al suo capezzale. Su tutta la terra si stendeva
una vaga nebbia, e un caldo bagliore illuminava le acque, e tra
le fastose foglie della foresta ottobrina era certo caduto dal
cielo un arcobaleno.
"E' un giorno eletto", disse al mio avvicinarmi; "un giorno fra
tutti i giorni fatto per vivere o per morire. E' un bel giorno per
i figli della terra e della vita: ah, più bello ancora per le
figlie del cielo e della morte!".
Le baciai la fronte, ed essa continuò:
"Io muoio, ma vivrò".
"Morella!".
"Ripeto che muoio. Ma dentro di me vi è un pegno di quell'affetto
- oh, quanto scarso! - che tu provasti per me, Morella. E quando
il mio spirito si dipartirà vivrà la creatura, la creatura tua e
mia, di Morella. Ma i tuoi giorni saranno giorni di dolore, quel
dolore che è la più duratura delle impressioni, come il cipresso
degli alberi, poiché i giorni della tua felicità sono finiti; e la
gioia non si raccoglie due volte in una vita, come le rose di
Pesto non si colgono due volte in un anno. Tu quindi non giocherai
più col tempo alla maniera di Anacreonte, ma ignaro del mirto e
della vite porterai con te il tuo sudario sulla terra, come i
Musulmani alla Mecca".
"Morella!" gridai, "Morella! come fai a saperlo?" ma essa girò il
viso sul guanciale, e sopraggiunta da un lieve tremore nelle
membra morì così, e non udii più la sua voce.
Eppure, come aveva predetto, la sua creatura - a cui morendo aveva
dato nascita, e che non respirò fin quando la madre non ebbe
cessato di respirare - la sua creatura, una figlia, visse. E
crebbe stranamente di statura e d'intelletto, ed era il ritratto
perfetto della defunta, e io l'amavo di amore più intenso che non
avessi creduto possibile sentire per una creatura terrena.
Ma non andò molto che il cielo di questo puro affetto si oscurò, e
cupezza, orrore e dolore lo invasero a nuvole. Ho detto che la
figliola crebbe stranamente di statura e d'intelligenza. Strana
davvero fu la sua rapida crescita fisica, ma tremendi, oh,
tremendi erano i pensieri tumultuosi che mi incalzarono
all'osservarne il suo sviluppo mentale. E poteva essere
altrimenti, quando ogni giorno scoprivo nelle concezioni della
bambina le capacità e facoltà della donna adulta? quando le
lezioni dell'esperienza sgorgavano dalle labbra infantili? quando
di ora in ora scorgevo saggezza e passioni mature splendere da
quegli occhi pieni e pensosi? Quando, dico, tutto ciò divenne
chiaro ai miei sensi sgomentati - quando non potei più nasconderlo
all'anima mia, né respingerlo da quelle percezioni che tremavano
al riceverlo - c'è da stupirsi che sospetti d'indole paurosa ed
eccitante si insinuassero nel mio spirito, o che i miei pensieri
tornassero esterrefatti ai racconti pazzeschi e alle mirabolanti
teorie della sepolta Morella? Io sottrassi all'attenzione del
mondo un essere che il destino mi costringeva ad adorare, e nel
rigoroso isolamento di casa mia sorvegliai con ansia tormentosa
tutto ciò che riguardava la mia diletta.
E col passare degli anni, mentre di giorno in giorno contemplavo
il suo viso santo, mite ed espressivo, e meditavo sul maturare
della sua persona, di giorno in giorno scoprivo nella figlia
nuovi punti di somiglianza con la madre, con la malinconica morta.
E di ora in ora si addensavano più oscure queste ombre di
somiglianza, facendosi più piene e definite, più sconcertanti, più
orrende all'aspetto. Poiché, se aveva il sorriso di sua madre,
questo potevo sopportarlo; ma poi rabbrividivo alla sua troppo
perfetta IDENTITA', che gli occhi fossero come quelli di Morella
potevo del pari sopportarlo; ma poi troppo spesso sondavano le
profondità dell'anima mia con l'intenzione concentrata ed
enigmatica di Morella. E nella forma dell'alta fronte, e nei
tristi toni musicali del suo discorrere, e soprattutto - oh,
soprattutto - nelle frasi ed espressioni della morta che
scaturivano dalle labbra dell'amata e viva, trovavo alimento a
pensieri struggenti e orrore, a un verme che non voleva morire.
Così passarono due lustri della sua vita, e ancora mia figlia
rimaneva senza nome su questa terra. ' Figlia mia ', e ' amore mio
' erano le designazioni solitamente suggerite dall'affetto di un
padre, e il rigido isolamento delle sue giornate precludeva ogni
altro contatto. Il nome di Morella morì con lei. Della madre non
avevo mai parlato alla figlia; era impossibile parlare. Anzi, per
il breve tempo che era durata finora la sua esistenza quest'ultima
non aveva ricevuto impressioni di sorta dal mondo esterno, tranne
quelle compatibili con gli angusti limiti della sua intimità. Ma
finalmente la cerimonia del battesimo fornì alla mia mente, nel
suo stato di snervata agitazione, un'immediata liberazione dai
terrori del mio destino. E al fonte battesimale esitai nello
scegliere un nome. E molti nomi appartenuti a donne sagge e belle,
nomi di tempi antichi e moderni, della mia terra e di terre
straniere, si affollarono alle mie labbra, con molti, molti nomi
di donne gentili, e felici, e buone. Che cosa dunque mi indusse a
disturbare la memoria della morta? Quale demone mi spinse a
esalare quel suono che al solo ricordo faceva fluire a torrenti il
purpureo sangue dalle tempie al cuore? Quale spirito maligno parlò
dai recessi dell'anima mia, quando fra quelle fosche navate, e nel
silenzio della notte, sussurrai all'orecchio del sacerdote le
sillabe - Morella? Quale demonio più che demonio contorse i
lineamenti della mia creatura e vi diffuse una tinta di morte,
quando trasalendo a quel suono appena udibile rivolse gli occhi
vitrei dalla terra al cielo, e cadendo prostrata sui neri lastroni
della nostra cappella avìta rispose: "Sono qui!"?
Distinti, freddamente e quietamente distinti caddero quei semplici
suoni sul mio orecchio, e di lì, come piombo fuso, sibilando
colarono al cervello. Gli anni, gli anni potranno passare, ma la
memoria di quell'epoca, mai! Né fui davvero ignaro dei fiori e
della vite, ma cicuta e cipressi mi adombrarono giorno e notte. E
non tenni più calcolo di tempo e di luogo, e le stelle del mio
destino svanirono dal cielo, e le sue figure mi passarono accanto
come ombre effimere, e fra tutte vedevo soltanto Morella. I venti
del firmamento non spirarono che un suono al mio orecchio, e le
increspature del mare per sempre mormorarono Morella. Ma essa
morì; e con queste mani la portai alla tomba; e risi d'un riso
lungo e amaro quando non trovai traccia della prima nel sepolcro
ove deposi la seconda Morella.
4. Metzengerstein.
L'orrore e la fatalità hanno avuto a che fare in tutti i secoli.
A che mettere, allora, una data nella storia che sto per
raccontare? Mi basta appena premettere che, all'epoca di cui
parlo, sussisteva, nel centro dell'Ungheria, una ferma credenza
nelle dottrine della metèmpsicòsi. Di tali dottrine per esse
stesse, della loro inattendibilità ovvero della loro probabilità,
a me non interessa dire e non dirò nulla. Io posso affermare,
nondimeno, che gran parte di tutta la nostra incredulità - secondo
che dice La Bruyère, il quale attribuisce tutte le nostre
disgrazie a quest'unica causa - ' vient de ne pouvoir être seuls
'.
Ma alcuni punti di quella superstizione ungherese toccavano quasi
l'assurdo. I Magiari differiscono essenzialmente dalle autorità
Orientali, per ciò che riguarda tale argomento. (Nota dell'autore:
Il Mercier nel suo ' L'an deux milles quatre cent quarante ',
sostiene, con decisione, le dottrine della metèmpsicòsi, e J.
d'Israeli afferma che non esiste sistema semplice come quello e
che tanto, come quello, ripugni all'intelligenza. E persino il
colonnello Etham Allen, il ' Green Mountain Boy ', passa per
essere stato un convinto metèmpsicosìsta). E, tanto per fare un
esempio, citerò le parole d'un acuto e intelligente parigino:
"L'âme ne demeure qu'une seule foi dans un corps sensible. Ainsi
un cheval, un chien, un homme même, ne sont que la rassemblance
illusoire de ces êtres".
Le famiglie Berlifitzing e Metzengerstein erano state in discordia
per secoli. Non s'erano mai viste due casate tanto illustri
reciprocamente inasprite in una inimicizia addirittura mortale.
Quest'odio poteva aver avuto origine dalle parole d'una antica
profezia: "Un grande nome cadrà da una terribile altezza,
allorché, simile a un cavaliere sul proprio cavallo, la mortalità
di Metzengerstein trionferà sull'immortalità di Berlifitzing".
In sé e per sé, è indubitato che tali parole contenessero poco
senso. Ma cause ancor più volgari di quelle hanno condotto - e
senza risalire troppo in alto nel tempo - a conseguenze ugualmente
gravide d'avvenimenti. E d'altro canto i due domìni, ch'erano
confinanti, avevano esercitato, a lungo, un'influenza rivale nelle
vicende d'un tumultuoso governo. Vicini tanto vicini com'essi
erano, raramente sono amici, e gli abitanti del castello di
Berlifitzing potevano spingere i loro sguardi fin dentro le
finestre del palazzo Metzengerstein dove il dispiegamento d'una
magnificenza feudale era inadatto a calmare i sentimenti
irritabili dei Berlifitzing che erano di meno antica e meno ricca
origine. Perché meravigliarsi, allora, se le parole della
surriferita predizione - le quali non suonano, per questo, meno
bizzarre - avevano potuto determinare e tener desta la rivalità
tra due famiglie le quali vi erano già predisposte dalle continue
istigazioni d'una gelosìa ereditaria? Se qualcosa essa stava a
significare, la predizione prometteva il trionfo finale alla parte
più cospicua ed è quindi naturale che fosse rammentata con una
cotale animosità da quella parte, fra le due, che era più debole e
meno influente.
Wilhelm, conte di Berlifitzing, malgrado il suo alto lignaggio,
all'epoca dell'odierno racconto era un vecchio carico di malanni e
per metà svanito di mente, il quale poteva solo essere distinto da
una radicata antipatia personale ai danni della casata rivale e da
un amore così appassionato per i cavalli e la caccia che nemmeno
le infermità fisiche e l'età avanzata, come pure la debolezza del
suo cervello, potevano vietargli di correre, ogni giorno, i
pericoli che quegli esercizi comportano seco.
E Frederick, d'altro canto, barone di Metzengerstein, non aveva
ancora raggiunto la maggiore età. Il ministro G., suo padre, era
morto giovane e sua madre, Lady Mary, aveva raggiunto il marito
con breve intervallo. Frederick aveva, allora, diciott'anni.
Diciott'anni spesi in una città, in una vita collettiva, non sono
un grande periodo di tempo. Ma nella solitudine, nella magnifica e
solenne solitudine di un antico e aristocratico ritiro, il pendolo
oscilla con più profonda e significativa maestà.
In seguito ad alcune particolari modalità dell'amministrazione
paterna, non appena il suo avo ebbe a morire, il giovane barone
entrò in possesso dei suoi vasti domìni. Prima di quel tempo s'era
vista raramente, in Ungheria, tanta e così nobile proprietà nelle
mani d'un solo. I castelli erano innumerevoli e il più splendido e
il più vasto era il palazzo di Metzengerstein, tanto che il limite
delle terre intorno non era mai stato ben definito. Il parco
principale, ad ogni modo, abbracciava un circuito di cinquanta
miglia.
La successione di persona così giovane e dal carattere, pertanto,
assai ben conosciuto, non lasciava supporre nulla di preciso
attorno alla probabile condotta ch'egli avrebbe seguita. E questa,
per la verità, oscurò la fama di Erode nello spazio d'appena tre
giorni superando, in magnificenza, le speranze dei suoi più
entusiasti ammiratori. Orgie vergognose, flagranti perfìdie,
tradimenti, inganni, atrocità inaudite resero ben presto noto ai
suoi trepidanti vassalli che nulla, né la loro servile
sottomissione, né alcun probabile scrupolo di coscienza da parte
del medesimo signore, avrebbero potuto proteggerli, in qualche
modo, dagli artigli impietosi di quel piccolo Caligola. La notte
del quarto dì, furono viste bruciare delle scuderìe del castello
di Berlifitzing. E così anche il delitto di quell'incendio andò ad
aggiungersi, secondo l'unanime opinione dei vicini, alla orribile
lista degli atroci misfatti del barone. Quanto al giovane
gentiluomo, egli se ne stette, per tutto il tempo che durò il
tumulto provocato da quell'accidente, assorto in apparente
meditazione, seduto in una stanza vasta e solitaria, nella parte
più remota ed elevata del palazzo avìto dei Metzengerstein. La
tappezzeria ricca, ancorché sbiadita, che pendeva malinconicamente
alle pareti, rappresentava i ritratti fantastici e maestosi di
mille antenati illustri. Prelati, colà, riccamente parati
d'ermellino, dignitari pontifici familiarmente assisi con
l'autocrate o il sovrano, opponevano il loro veto ai capricci d'un
re temporale e, col favore del potere, in mano loro, della
supremazia papale, trattenevano il ribelle scettro del Gran
Nemico. Altrove le cupe smisurate stature dei principi di
Metzengerstein, i cui muscolosi cavalli da guerra pestavano le
spoglie dei nemici caduti, scuotevano, per la loro feroce
espressione, anche i nervi più solidi. Ed ancora, simili a cigni,
le voluttuose immagini delle dame dei tempi andati fluttuavano
negli intrichi d'una danza fantastica, intente all'accento di
melodie immaginarie.
Ma nel mentre che il barone prestava orecchio - ovvero sembrava
prestarlo - al baccano ognor crescente che veniva dalle scuderie
dei Berlifitzing, - e probabilmente rifletteva attorno a un nuovo
piano, più risoluto e ancora più audace - i suoi occhi ebbero a
posarsi involontariamente sulla figura d'un enorme cavallo, d'un
colore innaturale, il quale, secondo la leggenda raffigurata
nell'arazzo, sembrava appartenere a un antenato saraceno della
famiglia rivale. Il cavallo restava immobile come una statua, nel
primo piano del quadro, nel mentre che, poco discosto, il suo
cavaliere periva, sotto il pugnale d'un Metzengerstein.
Un'espressione diavolesca increspò le labbra di Frederick, non
appena egli s'avvide della direzione ch'aveva presa il suo
sguardo. Pure non distolse gli occhi e non poté, al contrario,
liberarsi dall'oppressione di un'ansia che gli era piombata
pesantemente addosso come un drappo mortuario e gli era
difficoltoso connettere le sue incoerenti sensazioni materiate di
sogno, con la sicurezza d'esser desto. E più indugiava in quella
contemplazione e più avvertiva che quella magia lo andava
possedendo, e più ancora gli sembrava impossibile sottrarre lo
sguardo dal perfido fascino di quell'arazzo. E come il baccano
esterno salì improvvisamente di ferocia, egli spostò, con uno
sforzo, la propria attenzione sul viale che, dal palazzo,
conduceva fino alle scuderie della proprietà.
"No", disse il barone voltandosi di scatto. "E' morto?".
"Certamente, signor mio e nondimeno io ritengo che, per voi, ciò
non costituisca quel che si dice una cattiva nuova".
Un sorriso illuminò il volto del barone.
"E come è morto?" s'affrettò a chiedere.
"Nel mentre che s'affannava a tentar di salvare alcuni suoi
favoriti cavalli da caccia, egli è miseramente perìto tra le
fiamme".
"Dav... ve... ro...?" esclamò il barone al modo stesso che se si
andasse convincendo per gradi della veridicità d'una sua
misteriosa supposizione.
"Davvero!" disse il vassallo.
"Orrore!" concluse il barone ma con calma, quasi dimentico del
significato di quella parola; e rientrò tranquillamente nel suo
palazzo.
A partir da quel giorno, un notevole mutamento si verificò nella
condotta esteriore del giovane e dissoluto barone Frederick von
Metzengerstein. Egli s'era comportato, per la verità, in modo da
provocare il disappunto di molte speranze e da sconcertare i
disegni di più d'una madre intrigante. Ora, per contro, le sue
abitudini, finirono coll'uniformarsi in tutto e per tutto a quelle
della società aristocratica del vicinato. Egli, così, non fu più
visto fuori dei suoi domìni e non coltivò del pari alcun amico nel
vasto mondo della società conterranea, ove non si voglia calcolar
per un amico quel sovrannaturale e impetuoso cavallo di fiamma
ch'egli non smetteva mai di montare dal giorno dell'incendio.
Dalle famiglie confinanti, tuttavia, continuarono a pervenirgli
inviti d'ogni sorta. "Sarà così gentile il signor barone d'onorare
la nostra festa con la sua presenza?"; "Sarà così gentile il
signor barone da prendere parte alla nostra caccia al cinghiale?";
"Metzengerstein non va a caccia"; "Metzengerstein non può
accettare", erano le sue brevi ed altere risposte.
Il ripetersi di tali ingiuriose ripulse non poté, alla lunga,
essere sopportato da quella altera nobiltà. Gli inviti divennero,
così, meno cordiali, meno frequenti e, a poco a poco, cessarono
del tutto. E fu intesa la vedova del defunto conte Berlifitzing
esprimere il voto che "il barone potesse esser costretto a
starsene in casa, dal momento che disprezzava la compagnia dei
suoi uguali, proprio quando avrebbe desiderato di non trovarvicisi
e ancora, dal momento che a quella di coloro preferiva la
compagnia d'un cavallo, a cavalcare quando non ne aveva nessuna
voglia". La qual cosa non era, certamente, che una volgare
esplosione del rancore ereditario e dimostrava soltanto come le
parole che noi usiamo rischiano di perdere ogni loro significato
se noi vogliamo a ogni costo conferir loro una estrema energia.
E tuttavia le persone caritatevoli attribuivano il mutamento della
condotta del giovane gentiluomo al suo più che naturale dolore di
figlio - ahimè - troppo presto privato dei suoi genitori. E così
facendo, davano a vedere, nondimeno, d'aver dimenticato il suo
feroce contegno e la sua indifferenza nei giorni che seguirono
immediatamente quella sua duplice perdita. Vi fu taluno che lo
accusò d'essersi forgiata un'idea esagerata della propria
importanza e della propria dignità, e altri ancora - e tra questi
converrà mettere il medico della famiglia - i quali non dubitarono
di attribuire il tutto a una sorta di morbosa malinconìa ereditata
dai suoi avi. Torbide insinuazioni, oltre a queste, e d'ancor più
dubbia natura, correvano, nel frattempo, sulle bocche dei
pettegoli.
Il perverso attaccamento, per la verità, del barone per la sua
nuova cavalcatura - il quale pareva aumentare di forza e di
passione ogniqualvolta l'animale dava nuova prova e incentivo
alle sue sfrenate e demoniache tendenze - fu giudicato, da tutte
le persone ragionevoli, al pari d'una orripilante tenerezza contro
la natura. Al rosseggiar del meriggio e nelle morte ore notturne,
col bel tempo e con la tempesta, sia ch'egli fosse ammalato o in
salute, il giovane Metzengerstein sembrava inchiodato alla sella
del suo gigantesco corsiero del quale l'audacia senza freni
s'accordava troppo bene al suo proprio carattere.
E si dettero, ancora, talune circostanze le quali, riferite agli
avvenimenti più recenti, crearono un'atmosfera mitica e
soprannaturale attorno alle manie del cavaliere e alle qualità
della bestia. Fu misurato meticolosamente lo spazio che questi
poteva superare con un suo salto e fu trovato che esso era assai
più ampio di quanto non fosse supposto dai più esagerati. Il
barone, inoltre, non aveva dato all'animale nessun nome
particolare, mentre tutti gli altri cavalli della sua scuderia ne
avevano uno. La scuderia per quell'eccezionale corsiero era stata
ricavata a una certa distanza dalle altre e nessuno mai,
eccettuato il barone, aveva osato varcarne la soglia, foss'anche
per attendere alla cura e alla pulizia della bestia. E fu inoltre
notato che nessuno dei tre inservienti o palafrenieri i quali
erano riusciti, a mezzo d'una cruda che terminava in un cappio, a
impadronirsi del corsiero in fuga dall'incendio del vicino
castello di Berlifitzing, era in grado di affermare con sicurezza
d'aver poggiato le mani, nel corso di quella lotta perigliosa o
in alcun altro momento successivo, su alcuna parte del corpo
dell'animale. Il fatto che un cavallo di nobile razza e di
generoso impeto dia prove d'una intelligenza affatto particolare
non è cosa che possa destare un interesse del tutto eccezionale e
nondimeno, per quel che concerne il caso del cavallo di
Metzengerstein, si verificarono circostanze tali da riuscire ad
impressionare anche coloro che si dicevano scettici e indifferenti
di professione. E di fatto si ricordava di una volta che la bestia
aveva fatto retrocedere un'intera folla in preda al terrore, la
quale un istante prima gli si stringeva attorno per ammirarlo,
solo a causa dell'impressionante profondità del pensiero adombrato
nel terribile pestar del suo zoccolo, e d'una altra volta ancora
in cui il giovine Metzengerstein s'era volto a riguardare dalla
parte opposta, sbiancato in viso, per sfuggire a una subitanea
occhiata scrutatrice del cavallo che pareva guardarlo con
un'espressione di serietà e quasi d'umanità.
Nessuno, tra i servi, sollevò mai qualche dubbio sull'affezione
del tutto eccezionale che il giovine gentiluomo portava al cavallo
per le sue brillanti qualità, nessuno ove si eccettui un
insignificante servitorello le cui difformità erano sempre tra i
piedi delle persone e alle cui opinioni non era il caso
d'attribuire soverchia importanza. Egli aveva la tracotanza
d'affermare - seppure il suo parere merita d'essere rammentato -
che il suo padrone non era mai salito in sella senza un
inesplicabile e quasi impercettibile brivido e che, al ritorno
dalle sue lunghe cavalcate, non mancava di tradire, ogni giorno,
un'espressione trionfante di malvagità la quale gli tendeva tutti
i muscoli facciali.
Una notte d'uragano, Metzengerstein si destò all'improvviso da un
sonno pesante, uscì come impazzito dalla sua stanza, salì in gran
furia sul suo cavallo di fuoco e scomparve in un balzo negli
intrichi della selva. L'avvenimento era così comune che nessuno vi
pose mente; epperò i servi attesero il ritorno del barone con viva
ansietà poiché, qualche ora dopo che egli era scomparso, i
mirifici edifizi del palazzo di Metzengerstein avevano cominciato
a scricchiolare e a vacillare dalle fondamenta sotto l'azione d'un
fuoco improvviso e irriducibile il quale ricopriva le costruzioni
d'una massa livida e spessa di fumo. E nondimeno, allorché la
gente se ne avvide, le fiamme avevano già menata innanzi di tanto
la loro opera distruttrice che qualsiasi sforzo per salvare una
parte soltanto delle costruzioni apparve palesemente vano, e così
gli accorsi se ne stettero attoniti là intorno, preda d'uno
stupefatto, se non apatico silenzio. Ma un oggetto nuovo e
terribile attrasse ben presto l'attenzione della moltitudine e
mostrò come sia molto più intenso l'interesse che può fomentare,
in una folla, la contemplazione d'una umana agonia che non il più
orripilante spettacolo offerto dalla materia inanimata.
Sul lungo viale di querce vetuste che portava, dalla selva,
all'ingresso del palazzo di Metzengerstein apparve all'improvviso
un corsiero, montato da un cavaliere scapigliato e con le vesti in
disordine, il quale spiccava tali balzi da sfidare, per l'ìmpeto,
perfino il Dèmone dell'uragano.
Il cavaliere - era evidente - non riusciva a frenare quella corsa
impazzita, ed appariva, dall'espressione atterrita della sua
faccia e dal convulso agitarsi del suo corpo, ch'egli stava
sostenendo uno sforzo sovrumano. E purtuttavia, all'infuori d'un
unico grido - e come fu inteso rintronare! - che gli sfuggì dalle
labbra, lacerate dai suoi stessi morsi che la intensità del
terrore gli suggeriva sempre più frequenti, non fu udito alcun
suono che provenisse da lui.
Un solo istante ancora e lo scalpitìo degli zoccoli stridette più
alto e acuto che il ruggito delle fiamme e l'urlìo del vento. Un
solo istante ancora e, dopo aver superato, in un sol balzo, il
fossato e la soglia, il cavallo si slanciò su per le scale del
palazzo, prossime a crollare, col suo cavaliere in groppa,
nitrendo alto fra i turbini di fuoco.
E all'improvviso, allora, s'acquietò la furia dell'uragano e
sopravvenne una tetra calma di morte. Salì una candida fiamma e
avviluppò tutto il palazzo come un sudario e, vampando su per
l'aria tranquilla, dardeggiò in lontananza una luce
soprannaturale. In quello stesso istante, una spessa nube di fumo
s'appesantì sull'antica costruzione e prese la forma d'un
gigantesco cavallo.
5. Il pozzo e il pendolo.
Io ero ammalato... ammalato fino alla morte per quella lenta
agonia; e come alfine essi mi sciolsero e potei sedere, mi sentii
venir meno. La sentenza - la paurosa sentenza di morte - fu
l'ultimo accento distinto che mi arrivasse all'orecchio. Poi le
voci degli inquisitori sembrarono perdersi in un sognante e
indefinito ronzio. Il suono che udivo, ridestava, in me, l'idea di
una ' rotazione ' ma soltanto, forse, perché, nella mia
immaginazione, si associava al ritmo d'una macina da mulino. Tutto
questo durò pochissimo tempo: in capo ad alcuni minuti non udii
più nulla. E nondimeno vidi ancora, per qualche istante, vidi -
ma per quale orribile deformazione del mio organo? - vidi le
labbra dei giudici vestiti di nero. Esse mi parvero bianche, più
bianche ancora del foglio dove io segno, al presente, queste
parole; e sottili, ancora mi parvero, sottili fino a diventar
grottesche, sottili, per l'ostinazione e profondità della loro
dura espressione, per l'irrevocabile decisione che tradivano,per
il severo spregio dell'umano dolore che esse ostentavano.
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