Io solo gli davo da mangiare, e lui
mi seguiva dovunque mi recassi in casa. A stento anzi riuscivo ad
impedirgli di seguirmi per le strade.
In questo modo la nostra amicizia durò parecchi anni, durante i
quali (e arrossisco al confessarlo) temperamento e carattere
ebbero a subire in me - sotto l'azione del Dèmone Intemperanza -
un radicale peggioramento. Di giorno in giorno mi facevo più
lunatico, più irritabile, più irriguardoso per i sentimenti degli
altri. Mi lasciavo andare a espressioni scorrette verso mia
moglie; e finii per usarle violenza materiale. Naturalmente i miei
favoriti risentirono del mutamento d'animo: poiché non soltanto li
trascuravo, ma li maltrattavo. Per Pluto però serbavo ancora tanto
riguardo da frenarmi in fatto di maltrattamenti, mentre non mi
facevo scrupolo alcuno di maltrattare i conigli, la scimmia o
anche il cane quando il caso o l'affetto me li mettevano tra i
piedi. Ma la mia malattia si aggravò - quale mai malattia è pari
all'Alcool? - e infine anche Pluto, che invecchiando si andava
facendo un po' petulante, anche Pluto cominciò a provare gli
effetti del mio malumore.
Una sera, rincasando in preda a forte ubriachezza da uno dei
locali che frequentavo in città, credetti di notare che il gatto
mi evitava. Lo afferrai; e allora, spaventato della mia violenza,
esso mi ferì lievemente alla mano con un morso. Si impadronì
subito di me una furia demoniaca. Non mi riconoscevo più. Sembrava
che l'anima mia originaria fosse fuggita via dal corpo; e una
malignità più che diabolica, accesa dal gin, mi fece vibrare in
ogni fibra. Estrassi un temperino dal taschino del panciotto, lo
aprii, ghermii la povera bestiola per la gola e con la lama
deliberatamente le cavai un occhio dall'orbita! Arrossisco,
brucio, rabbrividisco al mettere per isritto quest'infame
atrocità.
Quando la ragione ritornò al mattino - svaporati nel sonno i fumi
dell'orgia notturna - provai un senso misto d'orrore e rimorso per
il delitto di cui mi ero macchiato; ma era tutt'al più un
sentimento debole ed equivoco, e l'anima non ne fu sfiorata. Di
nuovo mi buttai agli eccessi, e ben presto affogai nel vino ogni
ricordo del mio atto.
Frattanto il gatto pian piano guarì. L'orbita vuota del suo
occhio, è vero, era spaventosa a vedersi, ma ogni dolore fisico
sembrava scomparso. L'animale girava per casa come al solito, ma
logicamente fuggiva terrorizzato al mio avvicinarsi. Tanto mi
rimaneva ancora dell'antico cuore, che a tutta prima mi afflisse
questa evidente antipatia da parte di una creatura che mi aveva
voluto così bene. Ma questo sentimento cedette ben presto
all'irritazione. E poi, quasi a mia definitiva e irrevocabile
rovina, sopraggiunse lo spirito della PERVERSITA'. Di questo
spirito la filosofia non tiene conto alcuno. Eppure, quanto sono
certo che l'anima mia vive, sono sicuro che la perversità sia fra
gli impulsi primitivi del cuore umano una delle invisibili facoltà
primarie, o sentimenti, che imprimono un indirizzo al carattere
dell'Uomo. A chi mai non è capitato cento volte di commettere
un'azione vile o insulsa per la sola ragione che sapeva di NON
doverla commettere? Non abbiamo noi la perpetua inclinazione, a
dispetto del nostro miglior giudizio, di violare ciò che è LEGGE
solo perché tale la riconosciamo? Questo spirito di perversità,
dico, venne a rovinarmi per sempre. Fu questa insondabile brama
dell'anima di DANNEGGIARE SE STESSA, di far violenza alla propria
natura, di commettere il male per il male, che mi spinse a
continuare e poi portare a compimento la tortura da me inflitta
alla bestiola innocente. Una mattina, a sangue freddo, le infilai
un cappio al collo e la impiccai a un ramo d'albero; la impiccai
con gli occhi pieni di lacrime e col più amaro rimorso in cuore,
la impiccai PERCHE' sapevo che non mi aveva fatto nulla di male;
la impiccai PERCHE', sapevo che così facendo commettevo un
peccato, un peccato mortale che avrebbe compromesso l'anima mia
indistruttibile fino al punto di porla - se ciò fosse possibile -
fin oltre la portata dell'infinita misericordia del Dio di pietà e
terrore.
La notte della giornata in cui commisi quest'atto crudele, mi
svegliò dal sonno il grido: "Al fuoco!". I tendaggi del mio letto
erano in fiamme. La casa divampava tutta. Fu a stento che mia
moglie, una domestica ed io sfuggimmo all'incendio. La distruzione
fu completa. Tutta la mia sostanza fu divorata, e da allora in poi
mi rassegnai alla disperazione.
Io sono superiore alla debolezza di voler assodare una susseguenza
di causa ed effetto fra il disastro e l'atrocità. Ma ora sto
specificando una catena di fatti, e non voglio trascurarne
possibilmente nemmeno un anello. All'indomani dell'incendio,
perlustrai le macerie. I muri, a eccezione di uno solo, erano
crollati; e tale eccezione consisteva in un muro divisorio, non
molto spesso, che sorgeva circa nel mezzo della casa. Contro di
esso poggiava a suo tempo la testata del mio letto; e qui
l'intonaco resistette in gran parte all'azione del fuoco, fatto
che attribuii alla data recente in cui era stato tinteggiato.
Intorno a questo muro si era radunata una fitta folla, e molte
persone mostravano di esaminarne una certa parte con attenzione
minuta e assai intensa. Le parole "strano!", "singolare!" e altre
del genere eccitarono la mia curiosità. Mi avvicinai e vidi, quasi
scolpita a bassorilievo sulla bianca superficie, la figura di un
gigantesco GATTO. L'impressione era così precisa che aveva del
meraviglioso. L'animale aveva una corda al collo.
Al primo scorgere quest'apparizione - poiché non potevo
considerarla da meno - meraviglia e terrore furono in me estremi.
Ma infine la riflessione mi venne in aiuto. Il gatto, ricordai,
era stato impiccato in un giardino adiacente alla casa.
All'allarme dell'incendio, questo giardino era stato subito invaso
dalla folla e alcuni dei suoi componenti dovevano aver staccato
l'animale dall'albero per gettarlo, attraverso una finestra
aperta, in camera mia. Questo, probabilmente, per svegliare me. Il
crollo di altri muri aveva spiaccicato la vittima della mia
crudeltà contro la parete, sino a impregnarne l'intonaco fresco; e
poi la calcina sotto l'azione delle fiamme, combinata con
l'ammoniaca della carogna, aveva creato l'effige come la vidi io.
Sebbene così spiegassi prontamente alla mia ragione, se non
proprio alla mia coscienza, lo strabiliante fatto appena
descritto, esso non mancò di fare profonda impressione alla mia
fantasia. Per mesi e mesi non potei liberarmi del fantasma del
gatto; e in questo periodo riaffiorò nel mio spirito un sentimento
che sembrava, e non era, rimorso. Giunsi a rimpiangere la perdita
dell'animaletto, e a guardarmi intorno, nei locali innominabili
che ora abitualmente frequentavo, per cercarne un altro della sua
stessa specie, e di aspetto più o meno simile, con cui
sostituirlo.
Una sera, mentre sedevo mezzo intontito in una sentina d'infamia,
la mia attenzione fu improvvisamente attirata da un certo oggetto
nero, adagiato in cima a una delle immense botti di gin e rum che
costituivano la mobilia quasi esclusiva del locale. Da vari minuti
fissavo la cima di questa botte, e la mia sorpresa scaturì dal
fatto che non avessi scorto prima l'oggetto sovrastante. Mi
accostai e lo toccai. Era un gatto nero molto grosso; grosso
quanto Pluto, e a lui somigliantissimo per ogni verso, tranne uno.
Pluto non aveva un solo pelo bianco; ma questo gatto aveva una
estesa benché indefinita chiazza bianca che gli copriva quasi per
intero il petto.
Al contatto della mia mano, esso subito si alzò, facendo
sonoramente le fusa, mi si soffregò contro, e apparve arcicontento
della mia attenzione. Era dunque proprio questa la creatura di cui
andavo in cerca. Proposi subito l'acquisto al padrone del locale,
ma costui non rivendicò alcun diritto - non ne sapeva nulla - non
l'aveva mai visto prima.
Io continuai a far carezze, e quando mi accinsi a rincasare
l'animale si mostrò desideroso di accompagnarmi. Glielo permisi
senz'altro; e ogni tanto mi chinavo a coccolarlo strada facendo.
Quando esso raggiunse la casa, vi si ambientò subito, e divenne là
per là un grande favorito di mia moglie.
Per parte mia, mi sentii ben presto nascere antipatia nei suoi
riguardi. Era proprio l'inverso di quanto avevo previsto; ma - non
so come o perché avvenisse - il suo evidente affetto per me non
faceva che disgustarmi e seccarmi. A poco a poco, questi
sentimenti ostili assursero all'asprezza dell'odio. Mi diedi a
evitare l'animaletto; un certo senso di vergogna e il ricordo del
mio precedente atto di crudeltà mi impedivano di fargli del male
fisico. Per varie settimane mi astenni dal colpirlo o arrecargli
comunque violenza; ma a lenti gradi - insensibilmente - giunsi a
considerarlo con aborrimento inesprimibile e a fuggirne in
silenzio l'odiosa presenza, come un fiato di peste.
Ciò che senza dubbio rinfocolò in me l'odio per la bestiola fu il
fatto di scoprire, la mattina dopo che l'ebbi portato a casa, che
al pari di Pluto anch'essa era stata privata di un occhio.
Tuttavia tale circostanza non fece altro che renderla più cara a
mia moglie, la quale, come ho già detto, possedeva ad alto grado
quell'umanità di sentimenti che era stata una volta il mio tratto
caratteristico, e mi aveva procurato i piaceri più semplici e
puri.
Ma con la mia avversione per questo gatto sembrava aumentare di
pari passo la sua predilezione per me. Seguiva i miei passi con
una tenacia che sarebbe arduo far comprendere al lettore. Dovunque
sedessi, si accoccolava sotto la mia sedia o mi saltava sulle
ginocchia, coprendomi delle sue aborrite carezze. Se mi alzavo per
camminare, mi si metteva tra i piedi rischiando così di farmi
ruzzolare, oppure mi piantava nel vestito gli artigli lunghi e
aguzzi per arrampicarmisi sul petto. E allora, pur sentendo la
voglia di ucciderlo sul colpo, mi trattenevo dal farlo, in parte
per il ricordo del mio vecchio crimine, ma soprattutto - sarò
sincero - per un'invincibile PAURA che la bestia mi incuteva.
Non era proprio una paura di mali fisici: eppure non saprei
altrimenti come definirla. Quasi mi vergogno di ammettere, sì,
anche in questa cella da criminale, mi vergogno quasi di
ammetterlo che il terrore e l'orrore suscitati in me dall'animale
avevano trovato incentivo in una delle più folli chimere
immaginabili. Più di una volta mia moglie aveva richiamato la mia
attenzione sul carattere della chiazza di peli bianchi di cui ho
parlato, e che costituiva l'unica differenza visibile fra la
strana bestia e quella da me massacrata.
Il lettore ricorderà che questa chiazza, sebbene estesa, era in
origine assai indefinita; ma passo passo - a gradi quasi
impercettibili, che per molto tempo la mia ragione si adoperò a
respingere come fantasia bizzarra - aveva finito per assumere una
rigorosa nettezza di contorni. Era adesso la raffigurazione di un
oggetto che rabbrividisco a nominare - e per questo soprattutto
aborrivo e temevo il mostro, e me ne sarei sbarazzato SE AVESSI
OSATO - era adesso, dico, l'immagine di una cosa orrenda,
malaugurata: della FORCA! Oh, luttuoso e terribile meccanismo di
Orrore e Delitto, di Agonia e Morte!
E ora davvero ero disperato di una disperazione che la semplice
Umanità non conosce. Ed era UN ESSERE BRUTO a ordirmi: a ME, uomo
fatto a immagine di Dio, tanto insopportabile affanno! Ahimè! né
di giorno né di notte conobbi più la benedizione del riposo! Di
giorno l'animale non mi lasciava solo un momento, e di notte mi
svegliavo di soprassalto da sogni di indicibile paura per trovarmi
sulla faccia l'alito caldo della bestia, e il suo gran peso, un
Incubo incarnato che non mi potevo scuotere di dosso, gravante per
sempre sul MIO CUORE. Sotto la pressione di tormenti come questi,
il fioco residuo di bene che avevo in me finì per soccombere.
Pensieri malvagi divennero i soli abitatori della mia intimità; i
più neri e malvagi. Il mio temperamento già così lunatico si acuì
fino a odiare tutto e tutti; mentre i repentini, frequenti e
incontrollabili scoppi di una furia alla quale mi abbandonavo ora
ciecamente trovavano, ahimè, in mia moglie, aliena com'era da
lamentele, la vittima più consueta e paziente.
Un giorno essa mi accompagnò, per qualche faccenda domestica,
nella cantina del vecchio edificio che la povertà ci costringeva
ad abitare. Il gatto mi seguì per le ripide scale, e facendomi
quasi capitombolare mi esasperò fino alla follia. Brandendo alta
un'ascia, e scordando nella collera il timore infantile che mi
aveva finora fermato la mano, vibrai all'animaletto un colpo che
certo gli sarebbe risultato istantaneamente fatale se fosse calato
come volevo io. Ma questo colpo fu arrestato dalla mano di mia
moglie. Aizzato dalla sua interferenza a una rabbia più che
demoniaca, liberai il braccio dalla sua presa e le affondai
l'ascia nel cervello. Cadde morta sul posto senza un gemito.
Compiuto questo orribile assassinio, mi accinsi seduta stante, e
con piena coscienza, all'impresa di occultare il cadavere. Sapevo
bene di non poterlo asportare dalla casa, di giorno o di notte,
senza il rischio di essere osservato dai vicini. Molti disegni mi
affollarono la mente. A un dato momento pensai di tagliare il
cadavere in minuti pezzi e distruggerli col fuoco. Poi invece
decisi di scavargli una tomba nel pavimento della cantina. Ancora,
ventilai tra me e me l'idea di gettarlo nel pozzo del cortile, di
imballarlo in una cassa come fosse una merce qualsiasi, con le
solite formalità, e chiamare un facchino che lo portasse via.
Infine mi balenò un espediente che consideravo molto migliore di
questi. Decisi di murarlo in cantina, come si vuole che i monaci
medioevali murassero le loro vittime.
A uno scopo simile la cantina si prestava benissimo. Aveva muri
poco compatti, e il rozzo intonaco di cui erano stati recentemente
spalmati da cima a fondo non aveva potuto indurirsi per via
dell'atmosfera umida. Inoltre una parete presentava una sporgenza,
dovuta a un falso camino o focolare, che era stata riempita così
da assomigliare al resto della cantina. Non dubitai minimamente di
poter smuovere i mattoni in questo punto per poi inserirvi il
cadavere e murare tutto come prima in modo che occhio umano non
riuscisse a scoprirvi indizio alcuno.
E in tale calcolo non mi ingannavo. Mediante una grossa sbarra di
ferro sloggiai facilmente i mattoni, e deposto attentamente il
corpo contro la parete interna ve lo rizzai in tale posizione,
mentre con poca fatica rimisi tutto a posto come prima.
Procuratomi un po' di calcina, sabbia e pelo, con ogni precauzione
possibile, preparai un intonaco indistinguibile dal vecchio, e con
esso diedi una passata meticolosa all'ammattonato nuovo.
Quand'ebbi finito, mi sentii sicuro che tutto andava bene. Il muro
non dava il minimo segno di ritocco. La spazzatura fu raccolta da
terra con la massima cura possibile. Mi guardai attorno con aria
trionfante, e mi dissi: "Qui almeno la mia fatica non è stata
vana".
Il passo successivo fu di cercare la bestia che aveva provocato
tanta malvagità; poiché mi ero infine fermamente deciso a metterla
a morte. Se avessi potuto incontrarla al momento, sul suo destino
non avrebbero potuto esserci dubbi; ma a quanto pareva lo scaltro
animale si era allarmato della mia violenta collera precedente, e
con l'umore che avevo adesso si guardava bene dal farsi vivo.
Impossibile descrivere o immaginare il profondo, beato senso di
sollievo che l'assenza dell'odiato animale mi suscitò in petto.
Non comparve durante la notte e così per una notte almeno, dacché
era entrato in casa, io dormii saporitamente e tranquillo; sì,
DORMII pur col fardello dell'omicidio sull'anima.
Passarono il secondo giorno e il terzo, e ancora non si vedeva il
mio tormentatore. Ancora una volta respirai da uomo libero. Il
mostro, terrorizzato, era fuggito per sempre da casa mia! Non
l'avrei rivisto più! La mia felicità era suprema! Ben poco mi
turbava la colpa del mio misfatto. Si erano fatte alcune indagini,
ma avevano ricevuto pronta risposta. Era stata predisposta anche
una perquisizione, ma naturalmente nulla si poteva scoprire.
Guardai alla mia felicità futura come cosa assicurata.
Il quarto giorno dell'assassinio, venne in casa senza preavviso
una squadra di poliziotti, che procedettero a una nuova rigorosa
investigazione dei locali. Sicuro però dell'introvabile
nascondiglio che avevo prescelto, non provavo il minimo imbarazzo.
I funzionari mi ordinarono di accompagnarli nella perquisizione.
Non lasciarono inesplorato nessuna nicchia o angolo. Finalmente,
per la terza o quarta volta, scesero in cantina. In me non tremava
un muscolo. Il cuore mi batteva calmo come quello di chi dorma un
sonno innocente. Percorsi la cantina da un capo all'altro. Mi
ripiegai le braccia sul petto, e girellai disinvolto. Quelli della
polizia erano più che convinti, e si disposero ad andarsene. La
gioia era troppo forte perché potessi contenerla. Smaniavo dalla
voglia di dire almeno una parola, in segno di trionfo, e
raddoppiare in loro la certezza della mia innocenza.
"Signori," dissi alfine, mentre il gruppo risaliva le scale, "sono
felice di aver placato i vostri sospetti. Vi auguro salute e un
po' più di cortesia. Tra parentesi, signori miei, questa, questa è
una casa molto ben costruita," (nella smania di buttar là parole
disinvolte, non sapevo quasi che cosa dicessi), "direi anzi una
casa costruita in maniera ECCELLENTE. Questi muri - ve ne andate,
signori? - questi muri sono solidamente fabbricati"; e qui, per
pura frenesia di fare una bravata, picchiai forte con un bastone
che avevo in mano proprio su quella parte dell'ammattonato che
dietro di sé celava il cadavere della mia povera moglie.
Ma possa Iddio proteggermi e salvarmi dalle zanne
dell'Arcidiavolo! Il riverbero dei miei colpi si era appena
smorzato, che mi rispose una voce dall'interno della tomba; con un
grido dapprima attutito e rotto come il singhiozzo di un bimbo, e
poi rapidamente acuito fino a diventare un lungo urlo sonoro e
ininterrotto, assolutamente anomalo e inumano: un ululato, un
grido lamentoso, metà d'orrore e metà di trionfo, come avrebbe
potuto sorgere solo dall'inferno, dalle gole dei dannati nel loro
spasimo congiunto all'esultanza dei demoni.
Dei miei pensieri è follia parlare. Svenendo, barcollai per andare
ad appoggiarmi alla parete opposta. Per un attimo il gruppo di
poliziotti sulla scala rimase immobile, in preda a estremo, sacro
terrore.
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