Avevo in mente

qualcosa che volevo dirti, ma…
ma convien che la dica in miglior tono.
Perdio, Uberto, quasi mi vergogno
ad esprimerti solo a parole
quale grande rispetto ho io per te.

UBERTO - Sono molto obbligato a Vostra altezza.


GIOVANNI - Buon amico, non hai alcun motivo

di dir così, finora; ma l’avrai;
ché mai striscerà il tempo tanto lento
che a me non giunga di farti del bene.
Avevo dunque una cosa da dirti…
ma no, lasciamo stare: il sole è alto
sulla volta del cielo, e il giorno splendido
col suo corteggio di gioie mondane
è troppo pieno d’attrattive e svaghi
perché tu sia proclive ad ascoltarla.
Se la campana della mezzanotte
battesse con la sua lingua metallica
sulla sua bronzea bocca la sua ora
all’assonnato scorrer della notte;
se questo luogo fosse un cimitero
e tu oppresso da mille angherie;
o se t’avesse la malinconia,
quello spirito arcigno, raggrumato
ed ispessito il sangue che altrimenti,
pulsando, va scorrendo per le vene
e fa che in noi il riso, quell’idiota,
s’insedii da padrone sopra gli occhi,
stirando in una inutile gaiezza
le nostre guance, odioso stato d’animo
ai miei propositi; o se vedermi
tu potessi senz’occhi, ed ascoltarmi
senza orecchi, e rispondermi
senza usar la voce, col pensiero,
ma non usando né occhi né orecchi,
né il malefico suon delle parole,
allora sì, e a dispetto del giorno,
dell’impiccione ed occhialuto giorno,
potrei versarti in cuore i miei pensieri.
Ma, oh, non lo farò;
anche se tu, Uberto, mi sei caro,
così come, in coscienza,
io son sicuro d’esser caro a te.

UBERTO - Oh, sì, e tanto che, davanti al cielo,

qualunque cosa voi mi comandaste,
la farei, mi costasse pur la vita!

GIOVANNI - E non lo so che la faresti, Uberto?

Ecco, mio buon Uberto, Uberto, Uberto,
getta un’occhiata sopra quel ragazzo.
(Indica Arturo che sta discosto con Eleonora)
Ti dirò una cosa: quello, amico,
è un serpe che attraversa il mio cammino;
e dovunque io posi questo piede
me lo trovo davanti… Mi capisci?
Tu l’hai in custodia…

UBERTO - E lo custodirò

così ch’egli non possa recar danno
alla Vostra maestà.

GIOVANNI - Morto.


UBERTO - Signore?…


GIOVANNI - Una tomba.


UBERTO - Va bene. Non vivrà.


GIOVANNI - Basta così. Ora vivo contento.

Ti voglio bene, Uberto… Beh, per ora
non ti dirò quel ch’ho in mente per te:
ma tu ricordalo.
(A Eleonora)
Addio, signora.
Manderò quei soldati a vostra altezza.

ELEONORA - E sia con te la mia benedizione.


GIOVANNI - (Ad Arturo)

Per l’Inghilterra, nipotino, va’.
Uberto ti sarà compagno al viaggio,
ti servirà con tutta fedeltà.
(Agli altri)
E noi in marcia, olà!, verso Calais.

(Escono, la regina Eleonora da una parte, con scorta di soldati; tutti gli altri dall’altra parte)



SCENA IV - Il campo francese

 

Entrano RE FILIPPO, il DELFINO LUIGI, il CARDINALE PANDOLFO e altri

 

FILIPPO - Così, da un fragoroso fortunale,

tutta una flotta di vele sconfitta,
sbaragliata, dispersa…

PANDOLFO - Animo, sire,

coraggio: potrà andare ancora bene.

FILIPPO - Che volete che vada bene, ormai,

dopo che abbiam subito un tal disastro?
Non siamo vinti? Angers non è perduta?
Arturo non è forse prigioniero?
Non sono morti molti cari amici?
E il sanguinario Inglese
non è forse tornato in Inghilterra
eludendo, a dispetto della Francia,
qualsiasi tentativo di fermarlo?

DELFINO - E lasciando assai bene presidiato

tutto quello che aveva conquistato.
E tutto fatto con tale sveltezza
sorretta da sì accorta strategia,
da un ordine così bene studiato
in un’operazione sì difficile,
che non se n’ha l’esempio:
chi ha mai letto o udito di un’azione
confrontabile a questa?

FILIPPO - Eh quante lodi!

Potrei pur sopportare
che l’Inghilterra ne possa ricevere,
se si potesse rintracciar per noi
un precedente di pari vergogna.

Entra COSTANZA, discinta e scarmigliata

Ma guardate ora chi arriva!
Un’anima ridotta ad una tomba,
che trattiene lo spirito immortale,
contro sua volontà,
nel chiuso della squallida prigione
di dolorosi sospiri.
(A Costanza)
Signora,
preparatevi a venir via con me.

COSTANZA - Toh, ecco, guardate,

è questo il frutto della vostra pace.

FILIPPO - Non disperatevi, cara signora,

coraggio ancora, nobile Costanza.

COSTANZA - No, spregio ogni consiglio,

ogni riparazione, tranne quella
che a tutti i consigli mette fine,
unico vero conforto, la morte!
O tu, morte, benigna, dolce morte,
tu, profumato lezzo,
tu, salutar marciume,
sorgi dal cavo della notte eterna,
odio e terrore a quelli che stan bene!
Io bacerò l’odiosa tua carcassa
e metterò nelle tue cave occhiaie
i bulbi dei miei occhi; alle mie dita
attorcerò i tuoi vermi come anelli
e chiuderò con nauseabonda polvere
questo varco al respiro,
fino a ridurmi mostruosa carogna
come te. Vieni, mostrami il tuo ghigno,
ed io mi penserò che tu sorrida,
e ti carezzerò come tua sposa.
Oh, vieni, vieni, amore dei negletti!

FILIPPO - Nobile prostrazione! Ma calmatevi.


COSTANZA - Calmarmi? No, fintanto che avrò fiato!

Nella bocca del tuono
vorrei che si trovasse la mia lingua!
Farei scrollare il mondo
con la violenza della mia passione,
e desterei dal sonno quello scheletro
fello che resta sordo
alla flebile voce d’una donna
e sdegna una comune invocazione.

PANDOLFO - È follia, non dolore,

quella che adesso parla in voi, signora.

COSTANZA - Tu non sei santo ministro di Dio

a parlarmi così! Non sono pazza.
Son capelli miei questi che strappo;
il mio nome è Costanza,
sono stata la moglie di Goffredo;
Arturo è figlio mio, ed è perduto!
Pazza… Volesse il cielo che lo fossi!
Potrei dimenticare allor me stessa,
probabilmente… Ah, se lo potessi!
Di qual dolore potrei io liberarmi
dimenticandolo! Insegnami tu
qualche dottrina per divenir pazza,
e sarai fatto santo, cardinale:
ché non essendo la mia mente pazza,
ed io sensibile essendo al dolore,
la parte razionale di me stessa
m’induce fatalmente a ragionare
come sgravarmi di queste mie pene,
e non m’insegna per farlo altro modo
che uccidermi o impiccarmi.
Se invece fossi veramente matta,
potrei dimenticarmi di mio figlio,
oppur pensare pazzamente a lui
come ad un bel pupattolo di pezza…
Non sono pazza; sento troppo bene
nel mio animo tutte, ad una ad una,
le mie sventure, e tutto il loro strazio.

FILIPPO - Rannodatevi almeno quelle trecce.

(Tra sé)
Ah, quanto amore mi pare di scorgere
in quella bionda massa di capelli!
Se per caso vi si posasse sopra
una goccia d’argento,
a quella goccia diecimila fili
s’incollerebbero amichevolmente
a condividerne tutto il dolore,
come amanti fedeli, inseparabili,
stretti tra loro nell’avversità.

COSTANZA - Con voi in Inghilterra, se volete.


FILIPPO - Intanto ravvolgetevi i capelli.


COSTANZA - (Cominciando a raccogliersi la chioma)

Ecco, lo faccio… Ma perché dovrei?
Con violenza li ho sciolti dai lor lacci,
e nel farlo gridavo: “Ah queste mani
liberare potessero mio figlio
come hanno liberato i miei capelli!”.
Ma ora della loro libertà
mi prende invidia, e voglio consegnarli
prigionieri di nuovo ai lor legacci,
come prigione è il povero mio figlio.
V’ho udito dire, padre cardinale,
che noi un giorno rivedremo in cielo
e riconosceremo i nostri cari;
se questo è vero, padre,
io riconoscerò il mio ragazzo,
ché da Caino, primo figlio maschio,
fino a quello che ha dato solo ieri
il primo suo respiro,
mai venne al mondo più bella creatura.
Ora però il verme del dolore
divorerà quel vago mio bocciòlo,
cancellerà la nativa bellezza
dalla sua guancia, ed ei si ridurrà
un vuoto spettro, pallido e smagrito
come per un attacco di quartana,
e così morirà; e quando io,
risorto che sarà, come voi dite,
lo incontrerò nei giardini del cielo,
non potrò riconoscerlo: e così
mai più, mai più potrò io rivedere
il mio Arturo, il dolce mio bambino.

PANDOLFO - Indulgete con troppo accanimento

alla disperazione, mia signora.

COSTANZA - Dice questo chi mai ha avuto un figlio.


PANDOLFO - Voi siete innamorata del dolore,

come di vostro figlio.

COSTANZA - Il dolore riempie in me quel vuoto

ch’egli ha lasciato; giace nel suo letto,
passeggia in su e in giù insieme a me,
assume il suo piacevole sembiante,
mi ripete le stesse sue parole,
mi ricorda i suoi tratti delicati,
riempie con la forma del suo corpo
i suoi abiti vuoti: ho io ragione
allora, o no, d’amare il mio dolore?
Io vado, addio: fosse toccato a voi
di subire una tale privazione
v’avrei saputo dar miglior conforto
che non abbiate dato voi a me.
(Scarmigliandosi di nuovo)
Via, via quest’ordine dalla mia testa,
mentre ho tanto disordine nell’animo!
Oh, Dio Signore!… Arturo, figlio mio,
mia vita, mia letizia, mio alimento,
tutto il mio mondo, tutto il mio conforto
di vedova, sollievo al mio dolore!

(Esce)

FILIPPO - Temo qualche pazzia, le vado dietro.


DELFINO - Non c’è più nulla ormai su questo mondo

che mi rallegri: la vita è stucchevole
come una favola già raccontata
che dia fastidio all’assonnato orecchio
d’uno che si sia mezzo-addormentato:
e la vergogna amara ha reso amaro
anche il dolce sapor della parola
lasciando sol vergogna e amaritudine.

PANDOLFO - Succede, prima della guarigione

da grave malattia, proprio nel tempo
del recupero e del risanamento,
che il male che da noi prende congedo
faccia sentire di più le sue fitte
col mostrar, proprio mentre s’allontana,
più forte il morso della sua malizia.
In sostanza, che avete voi perduto
con la sconfitta di questa giornata?

DELFINO - Tutti i sognati giorni della gloria,

della gioia, della felicità.

PANDOLFO - Questi avreste perduto certamente,

se aveste vinto. No, no, la fortuna
proprio quando vuol far del bene agli uomini
mostra loro il suo sguardo più terribile.
Per contro, è veramente straordinario
pensare quanto ha perso Re Giovanni
in questa ch’egli giudica per lui
una chiara vittoria. Vi addolora
forse che Arturo sia suo prigioniero?

DELFINO - Tanto quanto può rallegrare lui

il tenerlo in sua mano.

PANDOLFO - La vostra mente è, come il vostro sangue,

troppo giovane ancora. Ma ascoltate
quanto con vero spirito profetico
io vi pronostico: basterà il fiato
con cui profferirò le mie parole
a spazzar via ogni grano di polvere,
ogni pagliuzza, ogni minimo intralcio
dal sentiero che vi potrà condurre
al trono d’Inghilterra. Attento bene:
Giovanni tiene prigioniero Arturo
presso di sé, e non è concepibile
che finché nelle vene del ragazzo
continui a giocar calma la vita,
Giovanni, nella sua insicurezza,
possa goder di un’ora, di un minuto,
che dico, d’un sol fiato di riposo.
Uno scettro carpito col sopruso
dev’esser per forza mantenuto
con la violenza con cui fu ottenuto.
E lui, che sta su un trono scivoloso,
non troverà altro modo per tenervisi
che prendersi al più vile degli appigli:
Giovanni, insomma, per restare in piedi,
deve abbattere Arturo. Così è,
e non può esser altro che così.

DELFINO - Ma che guadagno mi può derivare

dalla caduta del giovane Arturo?

PANDOLFO - Il diritto di far valer per voi,

nei diritti di Bianca, vostra moglie,
tutti gli stessi diritti di Arturo.

DELFINO - E perder, come Arturo, vita e tutto!


PANDOLFO - Come siete ancor nuovo ed inesperto

di questo vecchio mondo!
Giovanni trama egli stesso per voi,
cospirano con voi le circostanze,
ché chi intinge la propria sicurezza
su del sangue innocente,
non avrà altro che una sicurezza
malsicura e cruenta. Quest’azione,
così malvagiamente concepita,
gelerà i cuori di tutto il suo popolo
spegnendone ogni buon zelo di sudditi,
ed essi accoglieranno volentieri
ogni buona occasione
per poterlo scalzare dal suo regno:
non vi sarà comune esalazione
nell’aria, non normale accadimento
nel regno, non temperie naturale,
non semplice spirar di venticello,
del quale non saranno tutti pronti
a contestar la naturale origine,
e a dirli strani prodigi, meteore,
presagi, segni, linguaggi del cielo
che chiaramente annuncino vendetta
sul capo di Giovanni.

DELFINO - Sulla vita di Arturo s’asterrà

probabilmente di metter le mani:
gli basterà d’averlo prigioniero
per sentirsi al sicuro.

PANDOLFO - No, signore.

Quando saprà del vostro avvicinarsi,
se Arturo non sia stato già spacciato,
lo sarà allora, e sarà a quel momento
che si rivolterà contro di lui
il cuore del suo popolo
e tutti andranno a baciar sulle labbra
quel subito inatteso cambiamento,
e trarranno argomento di rivolta
e d’ira dalle dita di Giovanni
tinte di rosso sangue.
Mi par già di vederlo scatenarsi
questo grande tumulto popolare!
E, oh!, qual messe di migliori frutti
per voi, che non ve n’abbia già indicati!
In Inghilterra è già il bastardo Faulconbridge
a far man bassa dei beni ecclesiastici,
a sfregio d’ogni carità cristiana.
Se solo dodici Francesi in armi
fossero là, sarebbero già esca
per far passare diecimila Inglesi
al loro fianco, come poca neve,
rotolando, si fa tosto valanga.
Oh, nobile Delfino,
venite, accompagnatemi dal re;
c’è da restar davvero stupefatti
a pensar tutto quel che di vantaggio
si può trarre dal loro malcontento,
in un momento in cui i loro animi
sono all’estremo dell’indignazione!
Avanti, in marcia verso l’Inghilterra!
Penserò io a pungolare il re.

DELFINO - Imperiose ragioni

partoriscono temerarie azioni.
Al vostro “sì”, il re non dirà “no”.
Andiamo pur da lui.

(Escono)

 

ATTO QUARTO

 

SCENA I - Northampton, stanza del castello.(124) Un arazzo su una parete; in mezzo un tavolo, una sedia, un braciere con carboni accesi e dentro due pezzi di ferro arroventati.

 

Entra UBERTO con due SGHERRI

 

UBERTO - Fate arroventar bene questi ferri,

e poi mettetevi dietro l’arazzo.
Tosto ch’io batterò a terra il piede,
uscite fuori e legate alla sedia
il ragazzo che sarà qui con me.

PRIMO SGHERRO - Spero che questa azione

sia coperta da apposito mandato.

UBERTO - Vani scrupoli! Niente da temere.

Badate solo a fare.

(I due sgherri si ritirano dietro l’arazzo.
Uberto s’affaccia al vano d’una porta e chiama)

Giovanotto, venite: ho da parlarvi.

Entra ARTURO

ARTURO - Buongiorno, Uberto.


UBERTO - Buondì, principino.


ARTURO - Un principino che più picciol principe

non può essere, pur avendo titolo
ad essere di più… Vi vedo triste.

UBERTO - M’avrete visto, in effetti, più allegro.


ARTURO - Pietà di Dio! All’infuori di me,

nessuno, credo, dovrebb’esser triste;
ricordo invece che quand’ero in Francia
c’eran giovani della nobiltà
che usavan, sol per essere alla moda,
di darsi tutta un’aria di tristezza
cupa come la notte. Per mio conto,
per come è vero che son battezzato,
se mi trovassi fuori di prigione,
magari solo a pascolare pecore,
sarei felice quanto è lungo il giorno;
e felice sarei anche qui dentro,
non avessi paura che mio zio
ha in animo di farmi ancor più male.
Ha paura di me, ed io di lui.
Ma che colpa ne ho io
se sono nato figlio di Goffredo?
No, non è colpa mia! Avesse il cielo
voluto che nascessi figlio vostro,
Uberto, ché così m’avreste amato!

UBERTO - (Tra sé)

Se mi metto a discorrere con lui,
questo con le sue chiacchiere innocenti
finirà per destar la mia pietà,
che giace nel profondo addormentata:
devo esser deciso e sbrigativo.

ARTURO - Che avete, Uberto, vi sentite male?

Siete pallido, oggi. In verità,
mi piacerebbe foste un po’ malato,
così potrei seder tutta la notte
a vegliarvi; perch’io vi voglio bene,
ve l’assicuro, più che voi a me.

UBERTO - (c.s.)

Le sue parole mi strappano l’anima…
(Forte, porgendogli un foglio)
Leggete qua…
(Mentre Arturo legge, si asciuga gli occhi e sussurra tra sé)
Ah, stupide mie lacrime!
Voi vorreste cacciar fuor della porta
la spietata tortura… Alla svelta, alla svelta,
o succede che la risolutezza
mi cola via tutta quanta dagli occhi
in lacrime di fragile donnetta!
(Forte)
Riuscite a leggere? Non è ben chiaro?

ARTURO - Fin troppo chiaro, per sì nero scopo,

Uberto. Ma davvero
mi dovete bruciare entrambi gli occhi
con quei ferri roventi?

UBERTO - Sì, ragazzo.


ARTURO - E lo farete?


UBERTO - Lo farò, ragazzo.


ARTURO - Ne avete il cuore? Io, vi ricordate,

quella volta che aveste il mal di testa
v’annodai sulla fronte un fazzoletto,
il più bello che avevo, ricamato
per me dall’ago d’una principessa,
e non ve l’ho più mai richiesto indietro;
a mezzanotte v’ero ancora accanto
a tenervi la testa con la mano,
e, come i vigili minuti all’ora,
io ho lenito di continuo a voi
il pesante trascorrere del tempo
domandandovi sempre, di continuo:
“Che vi occorre? Dov’è che vi fa male?
“Che posso fare per farvi piacere?”
Molti figlioli di povera gente
se ne sarebbero rimasti a letto
senza mai dirvi una buona parola;
voi ad assistervi avevate un principe.
Siete padrone certo di pensare
che il mio fosse uno zelo interessato,
e potrete chiamarlo anche furbizia;
e pensatelo pure, se volete.
Se ha decretato il cielo
che mi dobbiate fare questo male,
allora certamente lo dovete.
Ma davvero mi spegnerete gli occhi?
Questi occhi che mai ebbero per voi
uno sguardo cattivo?

UBERTO - L’ho giurato.

E devo farlo, e con ferri roventi.

ARTURO - Ah, nessuno farebbe una tal cosa

se non fossimo in questa età del ferro!
Lo stesso ferro, pur se arroventato,
quando fosse a questi occhi avvicinato,
berrebbe le mie lacrime
e spegnerebbe la sua rabbia ardente
nel succo stesso della mia innocenza;
anzi, dopo di ciò,
se n’andrebbe consunto tutto in ruggine
sol per aver portato in sé quel fuoco
che avrebbe fatto male agli occhi miei.
Siete voi più inflessibile,
più duro di quel ferro temperato?
Fosse venuto un angelo da me
a dirmi che m’avrebbe spento gli occhi
Uberto, non gli avrei certo creduto…
ma non avrei creduto a nessun altro,
all’infuori di Uberto.

UBERTO - (Battendo un piede a terra)

Uscite fuori!

(I due sgherri escono da dietro l’arazzo)

Fate quel che vi ho detto!

(I due s’affaccendano intorno al braciere)

ARTURO - Oh, salvatemi, Uberto! Aiuto, Aiuto!

Questi assassini mi cavano gli occhi
già con quei loro sguardi inferociti!

UBERTO - A me quel ferro, e legatelo lì.

(Indica la sedia e prende dal braciere un ferro arroventato)

ARTURO - (Divincolandosi dai due che vogliono legarlo alla sedia)

Ahimè, ahimè, ma che bisogno c’è
d’essere sì brutali e disumani?
Non farò resistenza,
starò fermo ed inerte come un sasso….
Ma per amor del cielo, Uberto, no,
non fatemi legare! Ahimè, Uberto,
sentitemi, mandate via questi uomini,
ed io mi siederò con voi, tranquillo
come un agnello, non farò una mossa,
non tremerò, non farò più parola;
né guarderò quel ferro con rancore.
Ma questi ceffi mandateli via,
e vi perdonerò ogni tortura
a cui vi piacerà di sottopormi.

UBERTO - (Ai due sgherri)

Andate via, ma non vi allontanate,
e lasciatemi qui solo con lui.

PRIMO SGHERRO - Meno male così: non mi par vero

di star lontano da un’azione simile.

(Escono i due)

ARTURO - Ahimè, che allora ho fatto mandar via

un amico. L’aspetto era feroce,
ma il cuor gentile. Fatelo tornare,
così che possa la sua compassione
destare anche la vostra.

UBERTO - Su, ragazzo,

prepàrati.

ARTURO - Non c’è proprio rimedio?



UBERTO - Nessuno, no. Devi perdere gli occhi.


ARTURO - Oh, santo cielo, Uberto, se nei vostri

aveste solamente un granellino
di polvere, un moschino,
un capello volante, un bruscoletto
che recassero il minimo fastidio
ad un organo tanto delicato,
sì da provar quale grande molestia
può recarvi una cosa anche minuscola,
vi dovreste sentire inorridito
da questa vostra barbara intenzione.

UBERTO - È così che tenete la promessa?

Tenete a freno dunque quella lingua.

ARTURO - Non una ma due lingue

ci vorrebbero, Uberto, ad intercedere
per la salvezza di due occhi, Uberto;
e voi mi dite di frenar la mia:
non me lo dite, Uberto! O, se volete,
tagliatemela pure questa lingua,
se può valere a risparmiarmi gli occhi.
Ah, salvatemi gli occhi,
anche se non dovranno più servirmi
a vedere che voi… Ecco, vedete,
lo strumento s’è ora raffreddato
e non vorrebbe più farmi del male.

UBERTO - Posso di nuovo farlo arroventare,

ragazzo.

ARTURO - No, non lo potrete più;

creato per recar conforto agli uomini,
il fuoco è ora morto di dolore:
per il dolore di dover servire
a certe immeritate crudeltà.
Guardatelo voi stesso:
non c’è malizia in quel carbone ardente;
un alito celeste ne ha soffiato
via per l’aria lo spirito malvagio
e l’ha cosparso di contrite ceneri.

UBERTO - Ma posso ravvivarlo col mio fiato,

ragazzo.

ARTURO - Tutto quello che otterrete,

a far così, è di farlo arrossire,
Uberto, e divampare di vergogna,
per quello che volete fargli fare;
anzi, i tizzoni sprizzeran faville
contro i vostri occhi, simili ad un cane
che costretto per forza ad aggredire
dal suo padrone, gli si volta contro.
Qualunque ordigno vorreste adoprare
per farmi male si rifiuterà
al natural suo modo di servire.
Soltanto voi vi dimostrate privo
della pietà che san perfin mostrare
il ferro e il fuoco, creature crudeli,
notoriamente dagli uomini usate
a compiere le azioni più spietate.

UBERTO - Ebbene vedi, vivi… gli occhi tuoi

io non li toccherò; non lo farò,
nemmeno al prezzo di tutti i tesori
che sono posseduti da tuo zio;
nonostante abbia fatto giuramento,
ragazzo, e fossi proprio intenzionato
a bruciarli con questi stessi ferri,

ARTURO - Oh, adesso siete Uberto!

Fino ad ora eravate proprio un altro.

UBERTO - Basta, non più parole. Addio, ragazzo.

Vostro zio vi dovrà credere morto.
Riferirò fandonie
a quei cagnacci-spia che son di là.
Tu, gentile ragazzo,
dormi tranquillo e non aver paura,
ché Uberto non ti farà mai del male
per tutte le ricchezze della terra.

ARTURO - Oh, santo cielo, ti ringrazio, Uberto!


UBERTO - Silenzio ora, non più. Venite dentro

di nascosto. Mi son messo per te,
ragazzo, in un pericolo mortale.

(Escono)



SCENA II - Inghilterra, la sala del trono nel palazzo di Re Giovanni.

 

 

Fanfara. Entrano RE GIOVANNI, PEMBROKE, SALISBURY e altri nobili che non parlano.


GIOVANNI - (Andando a sedersi sul trono)

Eccoci qui insediati un’altra volta,
eccoci un’altra volta incoronati,
e, spero, da lieti occhi riguardati.

PEMBROKE - Quest‘“altra volta”, è stata, in verità,

salvo che sia piaciuto a vostra altezza,
una volta di troppo. Incoronato
l’eravate già stato, e mai dal capo
quell’alta dignità vi fu strappata;
né mai la lealtà dei vostri sudditi
si macchiò di rivolta; e il vostro regno
mai fu turbato da più fresche attese
di cambiamenti o di miglior governo.

SALISBURY - Perciò questo voler ora addossarvi

una seconda epifania regale,
questo voler coprire d’ornamenti
un titolo che n’era già sì ricco,
come a voler dorare l’oro fino
o a voler tingere di bianco il giglio.
o spruzzare profumo sulla viola,
o levigare una lastra di ghiaccio,
o aggiungere un colore nuovo all’iride,
o guarnire col lume di candela
il fulgidissimo occhio del cielo,
è vano spreco e ridicolo eccesso.

PEMBROKE - Vostro regale gradimento a parte,

cui sarà data comunque osservanza,
questo vostro procedere, signore,
è come mettersi a narrar di nuovo
una storia da tutti risaputa,
che a ripeterla può riuscir noiosa,
specie se raccontata fuori tempo.

SALISBURY - Ne può restar non poco sfigurato

il volto antico e ben identicato
della buona, vetusta consuetudine:
e, come un subito mutar di vento
per una vela, può far cambiar rotta
al corso dei pensieri della gente,
generare paura e confusione
in ogni mente che pensa e ragiona,
indebolire le opinioni salde,
gettar sospetto sulla verità
col fatto di volerla rivestire
d’un così ricco e inusitato manto.

PEMBROKE - Quando buoni artigiani

s’adoperano a fare più che bene
quel che han già fatto bene,
va a finire che con il troppo zelo
recano danno alla lor maestria;
spesse volte peggiora il male fatto
colui che di sua colpa chiede scusa;
così come la toppa su uno strappo
per celarlo, lo rende ancor più brutto
ch’esso non fosse prima del rammendo.

SALISBURY - Ad evitare ciò, prima che voi

veniste nuovamente incoronato,
vi sconsigliammo a farlo;
ma del nostro consiglio a vostra altezza
piacque di non tenere conto alcuno;
e noi ne siamo tutti ben contenti,
coscienti che ogni nostro desiderio
conviene che s’arresti e faccia luogo
al desiderio dell’altezza vostra.

GIOVANNI - Di alcuni dei motivi che m’indussero

a questa duplice incoronazione,
v’ho già detto, e ritengo siano già
forti abbastanza per giustificarla;
altri ve ne dirò, di assai più forti
che non sian deboli le mie paure.
Nel frattempo non esitate a chiedermi
quel che vorreste fosse riformato
perché pensate che non vada bene,
e vedrete con quanto buon volere
mi troverete pronto a dare ascolto
alle vostre richieste e a soddisfarle.

PEMBROKE - Allora, maestà, con tutto il cuore,

facendomi di tutti portavoce
per risuonare a voi l’aspirazione
che tutti hanno nell’animo,
per me, per loro, per voi soprattutto
alla cui sicurezza tutti noi
rivolgiamo le massime premure,
io vi chiedo di liberare Arturo:
la sua relegazione
muove del mormorante malcontento
le labbra a questo tipo di giudizi
pericolosi: “Se ciò che tenete
voi lo tenete di pieno diritto,
- dicono - perché allora la paura,
che sempre s’accompagna con il torto,
dovrebbe indurvi a tener segregato
il vostro ancora tenero parente,
e a tenere i suoi giorni soffocati
nello stato di barbara ignoranza,
con il negare alla sua giovinezza
il prezioso vantaggio
d’un’adeguata buona educazione?”
Ad evitare che argomenti simili
sian pretesto ai nemici del momento
per perseguire i loro tristi scopi,
concedete che nostra prima supplica
da sottoporvi, come ci invitaste,
sia la liberazione del ragazzo,
che non chiediamo per nostro interesse
se non in quanto l’interesse nostro
ch’è strettamente legato col vostro,
considera che sia vostro interesse
che Arturo ottenga la sua libertà.

GIOVANNI - E sia così. Affido a voi la guida

della sua giovinezza.

Entra UBERTO

(A parte, a Uberto)

Ebbene, Uberto, che notizie?

(Uberto s’avvicina al re e parla con lui in disparte)

SALISBURY - (A parte a Pembroke, indicando Uberto)

Quello è l’uomo da lui incaricato
di commettere il sanguinoso fatto.
Ha mostrato il mandato ad un mio amico.
L’immagine di chi s’appresta a compiere
un’obbrobriosa scellerata colpa
gli traspare dall’occhio; il suo aspetto
rivela un forte turbamento interno;
e temo molto che abbia già eseguito
l’incarico che gli è stato affidato.

SALISBURY - Sulla guancia del re il colorito

è un continuo va-e-vieni
tra il suo proposito e la sua coscienza,
simile ad un araldo tra due eserciti
pronti a darsi battaglia.
La sua passione è giunta ad un tal punto,
che scoppierà.

PEMBROKE - E quando scoppierà,

ho gran paura che n’uscirà fuori
l’immonda purulenza della morte
d’un tenero fanciullo.

GIOVANNI - A noi purtroppo, amici, non è dato

frenar la forte mano della morte.
Per viva che possa essere
in me la volontà di assecondarvi,
la vostra supplica è vanificata
dalla morte: costui mi riferisce
che Arturo è deceduto questa notte.

SALISBURY - Avevamo ragione di temere

che la sua malattia fosse incurabile.

PEMBROKE - Avevamo avvertito, in verità,

come fosse vicino alla sua fine,
il ragazzo, ancor prima ch’egli stesso
potesse accorgersi d’esser malato.
Di ciò però qualcuno in terra o in cielo
dovrà rispondere…

GIOVANNI - Ebbene, che c’è?

Perché gettate tutti quegli sguardi
gravidi di sospetto su di me?
Pensate forse tutti che sia io
a reggere la forbice del fato?
O ch’io comandi il polso della vita?

SALISBURY - Questa è sfacciata ciarlataneria!

Ed è vergogna che sia la maestà
a farvi sì grossolano ricorso!
Continuate pure il vostro gioco,
e prosperate. Io vi dico addio!

PEMBROKE - Aspettami, Lord Salisbury,

vengo con te a cercar l’eredità
toccata a questo povero fanciullo:
il minuscolo regno d’una tomba
aperta a forza: quel nobile sangue
cui spettava di posseder da re
quest’isola per quanto essa s’estende,
ora ne occuperà sì e no tre palmi:
malvagità del mondo in cui viviamo!
Ma questa non dev’esser tollerata:
questa, non passerà gran tempo ancora,
dovrà scoppiare, ne sono sicuro,
e con danno e dolore per noi tutti.

(Escono Salisbury e Pembroke)

GIOVANNI - Sono accesi di sdegno…

Son pentito: mai stabil fondamenta
poggiò sul sangue; sempre fu insicura
vita sull’altrui morte costruita.

Entra un MESSO

Hai l’occhio spaventato:
dov’è andato quel sangue che soleva
aver dimora sopra le tue guance?
Un cielo così cupo
non si rischiara senza un temporale.
Avanti, su, rovescia la tua pioggia:
come va tutto in Francia?

MESSO - Va tutto dalla Francia all’Inghilterra.

Mai più potente esercito
fu levato dal corpo d’una terra
per una spedizione oltre confine.
Li ha istruiti l’esempio
della vostra fulminea speditezza:
nel momento che voi dovreste avere
notizia che si stiano preparando,
vi si annuncia che sono già arrivati.

GIOVANNI - Oh, dov’erano i nostri informatori?

A ubriacarsi? Stavano a dormire?
E mia madre, che diavolo faceva,
se in Francia s’è potuto metter su
un tale esercito, senza che nulla
le sia potuto giungere all’orecchio?

MESSO - Il suo orecchio, purtroppo, signore,

è tappato per sempre dalla polvere:
la vostra nobile madre è passata
il primo aprile; e da quanto ho saputo,
tre giorni prima anche Lady Costanza
era morta in un raptus di follia.
Ma sono voci udite casualmente,
se vere o false, non vi saprei dire.

GIOVANNI - Ferma, tremenda sorte, la tua corsa

precipitosa! O allèati con me,
fino a tanto che non avrò placato
gli scontenti miei Pari.
Mia madre morta!… Ahimè, in quale caos
saranno allora i miei domini in Francia!
(Al messo)
Al comando di chi sono venute
queste forze di Francia che tu dici
essere già sbarcate in Inghilterra?

MESSO - Al comando del principe Delfino.


Entrano IL BASTARDO e PIETRO DA POMFRET [142]

GIOVANNI - M’hai messo nella testa un mulinello

con tutte queste tue brutte notizie.
(Al Bastardo)
Beh, che dice la gente
delle faccende che vai disbrigando?
Non tentare di riempirmi il capo
anche tu di sgradevoli notizie,
perché n’è già ripieno fino al colmo.

BASTARDO - Se paventate di ascoltare il peggio,

lasciate pure che vi cada in testa,
senza ascoltarlo.

GIOVANNI - Scusami, nipote:

ero come sommerso, senza fiato,
sotto questa marea; ora respiro,
come tornato nuovamente a galla,
e posso udire qualsivoglia lingua,
e che dica ciascuna quel che vuole.

BASTARDO - A darvi conto di come ho sbrigato

la mia bisogna in mezzo a preti e frati
parleranno le somme che ho raccolto.
Ma nel passare attraverso il paese
per venir qui, la gente che ho incontrato
era in preda a bizzarre fantasie,
posseduta da voci incontrollate,
piena di vani sogni, inconsapevole
essa stessa di cosa paventare,
e tuttavia pervasa da paure.
(Presentando Pomfret)
Ecco, questo è un profeta
che ho portato con me fin qui da Pomfret;
l’ho trovato per strada
che in mezzo a centinaia di persone,
andava loro rapsodiando in rime
che suonavan parecchio rozze e goffe,
che nel prossimo dì dell’Ascensione,
prima di mezzogiorno, Vostra altezza
avrebbe rassegnato la corona.

GIOVANNI - (Al profeta)

Tu, sciocco visionario,
che cos’è che ti fa predire questo?

PROFETA - La mia antiveggenza, monsignore;

essa mi dice che sarà così.

GIOVANNI - Via, via! Uberto, portalo in prigione;

e a mezzogiorno esatto di quel giorno
ch’io, a sentire la sua predizione,
cederò la corona, sia impiccato.
Va’, mettilo al sicuro,
e poi ritorna, ho bisogno di te.

(Esce Uberto con il Profeta)

Nipote mio gentile,
hai udito quel che si dice in giro?
Sai chi è arrivato?

BASTARDO - I Francesi, signore.

È cosa ch’è sulla bocca di tutti.
Ho incontrato lord Bigot e lord Salisbury
con gli occhi rossi come brace ardente,
che andavano insieme ad altri nobili
a ricercare la tomba di Arturo;
il quale, come li ho sentiti dire,
è stato assassinato questa notte.
su vostra personale istigazione

GIOVANNI - Nipote mio, da bravo, va’, raggiungili,

intrùfolati in loro compagnia,
e riconducili davanti a me;
so io il modo di riconquistarmeli.

BASTARDO - Cercherò di trovarli.


GIOVANNI - Sì, ma presto,

quanto più presto puoi.
Ah, non sia mai ch’io abbia a me nemici
anche i miei sudditi, in un momento
in cui le truppe d’un nemico esterno
mi van terrorizzando le città
con un pauroso apparecchio di guerra!
Siimi Mercurio, metti ali ai piedi
e torna, celere come il pensiero.

BASTARDO - Mi darà l’ali la necessità.


(Esce)

GIOVANNI - Parole di animosa nobiltà!

(Al messo)
Tu seguilo, ché forse avrà bisogno
d’un messaggero tra quei pari e me.
Sii tu quello.

MESSO - Con tutto il cuore, sire.


(Esce)

GIOVANNI - Mia madre non c’è più…


Rientra UBERTO

UBERTO - Mio signore, si dice che stanotte

si siano viste in cielo cinque lune,
quattro fisse ed immobili, la quinta
che turbinava in moto prodigioso
intorno all’altre quattro…

GIOVANNI - Cinque lune?


UBERTO - E i vecchi e le nonnette, per le strade,

ne traggono sinistre profezie;
fra tutti loro non si parla d’altro
che della morte del giovane Arturo;
e li si vede scuotere la testa
e bisbigliarsi qualcosa all’orecchio,
e quell’uno che parla
stringe il polso di quello che l’ascolta,
mentre questi fa gesti di paura,
e lo si vede corrugar la fronte,
e ciondolare in qua e in là la testa,
e ruotar le pupille. Ho visto un fabbro
fermarsi, inebetito, ecco, così,
con la mazza a mezz’aria; sull’incudine
si raffreddava il ferro arroventato,
e lui a bersi, lì, a bocca aperta,
le nuove che gli propinava un sarto;
e questo, forbici e misura in mano,
era lì, in ciabatte, per la fretta
infilatesi ai piedi al verso storto,
a raccontare loro che nel Kent
ci son molte migliaia di Francesi
in assetto di guerra, pronti a battersi;
ed un altro artigiano smilzo e sporco,
ecco che arriva e gli tronca il discorso
e vuol parlar della morte Arturo.

GIOVANNI - Perché t’affanni tanto

a caricarmi di queste paure?
Perché insisti a battere così
sulla morte di Arturo? È la tua mano?
che l’ha spento. Io, per volerlo morto
ne avrei avute di ragioni, e forti:
tu, per ucciderlo così, nessuna.

UBERTO - Diamine! Non ne avevo, mio signore?

Non siete stato voi ad incitarmi?

GIOVANNI - È la maledizione dei regnanti

avere al lor servizio dei balordi
che scambiano un semplice parola
gettata là in uno scatto d’ira
per un mandato esplicito
a irrompere nella casa sanguigna
d’una vita; che prendono per legge
una strizzata d’occhio del padrone,
e che presumono d’interpretare
come chi sa qual sovrana minaccia
un suo casuale aggrottare di ciglia,
dovuto più ad un momentaneo cruccio
che ad un determinato suo proposito.

UBERTO - Ecco il vostro mandato,

con vostra firma e con real sigillo.

GIOVANNI - Oh, quando verrà l’ora

che si dovrà saldar l’ultimo conto
fra cielo e terra, allora questa firma
e sigillo saranno testimoni
contro di noi per la condanna eterna!
Quante volte la vista di un ordigno
per sua natura inteso a fare il male
basta da sola a farci fare il male!
Se non avessi avuto accanto a me
te, che sei ben marchiato di natura
e chiarissimamente designato
a commettere azioni abominevoli,
l’idea di consumar questo assassinio
non mi sarebbe sorta nella mente;
ma la vista del tuo sinistro aspetto
m’ha suggerito essere tu l’uomo
adatto ad ogni sanguinaria impresa,
malleabile e pronto ad ogni rischio,
e bastò che accennassi vagamente
alla morte d’Arturo, perché tu,
per guadagnarti le grazie d’un re,
non ti facessi il pur minimo scrupolo
di sopprimere un principe.

UBERTO - Signore….


GIOVANNI - Ma sì, sol che tu avessi scosso il capo,

o avessi appena accennato a interrompermi
mentr’io con un parlare un po’ coperto
ti venivo esponendo il mio proposito,
o sol che tu m’avessi pur rivolto
un’occhiata dubbiosa, quasi a chiedermi
di parlarti più esplicito, a qual punto
m’avresti ammutolito di vergogna
facendomi interrompere il discorso:
e allora dalle tue esitazioni
sarebbero ben nate anche le mie.
Tu da quei segni, invece, hai ritenuto
di capire l’antifona, ed a segni
sei entrato in contatto col delitto.
Sì, senza un attimo d’esitazione
hai fatto che il tuo cuore acconsentisse
e la tua rude mano s’inducesse
a compier quell’azione
che poco prima le nostre due lingue
avevan ritenuto vile ed infame
perfino di chiamare col suo nome.
Via da me, e non farti più vedere!
I miei baroni adesso m’abbandonano,
e si sfida la mia autorità
fino alle porte stesse del mio regno
anche con schiere di nemici esterni,
mentre all’interno del mio stesso corpo,
questo reame che ha per confini
il mio sangue e il mio alito vitale,
regnano ostilità e civil conflitto
tra la coscienza e la morte di Arturo.

UBERTO - Contro vostri nemici esterni armatevi,

perché tra i vostri interni,
ossia tra voi e la vostra coscienza,
metterò pace io: Arturo è vivo.
Questa mia mano è vergine e innocente,
mai si macchiò del vermiglio del sangue,
né mai è ancora entrato in questo petto
l’orrendo impulso d’un’idea omicida;
e voi, parlando prima del mio aspetto,
avete calunniato la natura;
ché, per rude che possa esso apparire,
ricopre un animo troppo sensibile
perché s’induca a farsi macellaio
d’un fanciullo innocente.

GIOVANNI - Arturo vive?…. Oh allora, corri, Uberto,

corri, dai miei baroni, corri, corri!
Getta questa notizia
sul fuoco della lor furiosa collera,
e riconducili da me ammansiti,
restituiti alla loro obbedienza.
Perdonami per quello che poc’anzi
m’ha fatto dire il mio stato nervoso
sul tuo aspetto: m’accecava l’ira,
e gli occhi della mente
pieni di crude immagini di sangue
t’han visto più sinistro che non sei.
No, non rispondermi, non dir più niente:
pensa solo ora a ricondurmi qui
nella mia stanza gli infuriati Pari,
al più presto che puoi.
Già ti trattengo troppo col pregarti;
sii tanto più veloce.

(Escono)



SCENA III - Davanti al castello di Northumberland

 

Sugli spalti del castello appare ARTURO


ARTURO - Il muro è alto… ma mi butterò:

e tu, suolo gentile,
abbi pietà di me, non farmi male!
Qui son pochi a conoscermi,
o nessuno, e seppure ce ne fossero,
questo travestimento mio da mozzo
mi fa irriconoscibile da tutti.
Ho paura… ma mi ci proverò.
Se arrivo giù senza rompermi l’ossa,
saprò trovare poi mille maniere
per dileguarmi; ma ad ogni buon conto,
meglio morire nel tentar la fuga,
che aspettare la morte in questo carcere.
(Si getta nel vuoto, e resta accasciato a terra)
Oh, me! Lo spirito di zio Giovanni
sta dentro a queste pietre!….
O cielo, prenditi tu la mia anima,
e serbi l’Inghilterra le mie ossa!

(Muore)

Entrano i conti di PEMBROKE e SALISBURY e lord BIGOT.
Salisbury ha in mano una lettera.

SALISBURY - Signori, io vado a Bury Sant’Edmondo

ad incontrarlo. È la nostra salvezza,
e ci conviene accoglier di buon grado
questa gentile offerta
in un’ora sì piena di pericoli.

PEMBROKE - Chi è venuto latore

di questa lettera del Cardinale?


SALISBURY - Il conte di Melun,

un nobile di Francia: il suo colloquio
sul favorevole atteggiamento
verso di noi del principe Delfino
m’ha detto assai di più
di quanto contenuto in queste righe.

BIGOT - Partiremo domani.


SALISBURY - Meglio subito,

perché per arrivare fin laggiù
ci son due buone giornate di viaggio.

Entra il BASTARDO

BASTARDO - Bene incontrati una seconda volta,

oggi, adirati nobili signori!
Il re vi manda a dire, per mio mezzo,
che vi desidera subito a corte.

SALISBURY - Il re di noi s’è voluto spogliare,

e noi siamo tutt’altro che disposti
a foderargli il frusto e sporco manto
con la nostra illibata dignità,
e tanto meno a seguire i suoi passi
che lasciano, dovunque posi il piede,
orme di sangue. Tornate da lui,
e diteglielo. Conosciamo il peggio.

BASTARDO - Qualunque cosa possiate conoscere,

penso, comunque, che sarebbe meglio
che usiate modi meno sconvenevoli.

SALISBURY - A parlare per noi in questo modo

non son le buone regole civili,
ma l’angoscia che tutti abbiamo dentro.

BASTARDO - Non c’è nessun motivo d’angosciarvi;

c’è invece buon motivo, salvognuno,
che adopriate maniere più civili.

PEMBROKE - Eh, mio caro signore,

anche lo sdegno vuole i suoi diritti!

BASTARDO - Sì, quello di far danno a chi lo nutre.


SALISBURY - (Additando a Pembroke e Bigot il castello)

Qui è la prigione.
(Vede il corpo di Arturo a terra)
Ma che c’è lì in terra?…

PEMBROKE - (Avvicinandosi al cadavere e riconoscendolo)

Oh, morte, come sei resa superba
da questa pura e regale bellezza!
La terra non ha un buco
in cui celare quest’orrendo crimine!

SALISBURY - L’assassinio come se avesse in odio

ciò ch’esso stesso ha fatto,
l’ha lasciato a giacer così per terra,
alla vista di tutti,
così da provocare alla vendetta.

BIGOT - O anche, dopo avere condannato

questa beltà alla tomba,
s’è accorto che la sua regalità
era troppo preziosa
per esser chiusa in una vile fossa.

SALISBURY - Sir Riccardo, che dite?

Avete visto, o letto, o udito mai,
potreste mai pensare e creder vero
quello che giace sotto gli occhi vostri?
Potrebbe immaginarlo mente umana,
senza questa palpabile evidenza?
Questo è l’apice, il culmine, la cresta,
anzi, di più, la cresta della cresta
dell’elmo del delitto:
la più cruda, cruenta nefandezza,
la più selvaggia, barbara ferocia,
il più vile assassinio
che mai la collera dall’occhio bieco
o la rabbia dall’impietrito sguardo
abbian potuto presentare al pianto
dell’umana pietà.

PEMBROKE - Tutti i delitti commessi in passato

sono niente se confrontati a questo;
questo, straordinario e ineguagliabile
com’è, darà color di santità e purezza
ad ogni altro peccato che in futuro
mente umana potrà mai concepire;
ed ogni azione di sangue e di morte
apparirà nient’altro che uno scherzo
al confronto di questa orrenda vista.

BASTARDO - È una dannata sanguinaria impresa,

opera scempia d’una man crudele,
sempre che mano d’uomo l’abbia fatta.

SALISBURY - Sempre che mano d’uomo l’abbia fatta?

Tutti avevamo già qualche barlume
che sarebbe accaduto! Questa è l’opera
della mano d’Uberto, scellerata,
su disegno e proposito del re:
della cui obbedienza, d’ora in poi,
ordino alla mia anima il rifiuto,
inginocchiato avanti a questi resti
d’una tenera vita, ed alzo al cielo,
come fumo di sacro incenso, un voto,
davanti a questa perfezione esanime:
il sacro voto di non più gustare
i piaceri mondani,
di non concedermi un solo istante
alle corrotte voluttà dei sensi,
o abbandonarmi agli agi ed all’inerzia
fintanto ch’io non abbia reso gloria
a questa mano con l’averle offerto
il sacrosanto onor della vendetta.

BIGOT e PEMBROKE - Le nostre anime con un ”amèn”

confermano codeste tue parole.

Entra UBERTO

UBERTO - Signori, ho corso a perdita di fiato

per rintracciarvi tutti. Arturo è vivo!
Il re vi manda a dire che v’aspetta.

SALISBURY - Oh, che sfrontato, che non arrossisce

manco avanti alla morte!
Esecrato assassino, via di qua!

UBERTO - Non sono un assassino.


SALISBURY - (Traendo la spada)

Devo rubare il mestiere al carnefice?

BASTARDO - Troppo bella e lucente è quella spada,

signore, riponetela nel fodero.

SALISBURY - (Assalendo Uberto)

Non senza averla prima inguainata
nella pelle d’un assassino!

UBERTO - (Traendo anch’egli la spada)

Indietro!
State indietro, Lord Salisbury, dico!
Per il cielo, la mia spada è affilata
quanto la vostra.