Sei di casa?

KENT -

Già.

OSVALDO -

Ti dispiace allora d’indicarci

dove possiamo lasciare i cavalli?

KENT -

Nel letame.

OSVALDO -

Ti prego, amico, dimmelo,

se mi vuoi bene.

KENT -

Non ti voglio bene.

OSVALDO -

Quand’è così, mi faccio i fatti miei.

KENT -

Te li farei far io i fatti tuoi,

se t’avessi di fronte al parco-buoi!(47)

OSVALDO -

Ce l’hai con me? Perché? Non ti conosco.

KENT -

Ma ti conosco io!

OSVALDO -

Per chi mi prendi?

KENT -

Per un grosso furfante, una canaglia,

uno sgranocchiatore di rifiuti,

un malnato smargiasso, un tre-vestiti,(48)

cento libbre di carne mal calzate,(49)

fegato di coniglio, quereloso,

un figlio di puttana frustaspecchi,(50)

leccapiedi, servile narcisista,

sordido erede d’un sacco di stracci,

pronto a fare il ruffiano come capita,

nient’altro che un impasto di marrano,

accattone, vigliacco, portaborse,

figlio ed erede di cagna bastarda:

uno che io sbatacchierò a legnate

da farlo stridere come un maiale

se ardisce di negarmi uno soltanto

di tutti i titoli che gli ho affibbiato.

OSVALDO -

Che razza d’individuo mostruoso

sei tu ad insultare così uno

che non conosci e che non ti conosce?

KENT -

E tu che razza di faccia di bronzo

sei a negare così di conoscermi,

se non più tardi di due giorni fa

non solo t’ho mandato gambe all’aria,

ma te le ho date in presenza del re?

Fuori la spada e difenditi, verme!

Se pure è ancora notte, c’è la luna;

farò di te una zuppa al chiar di luna,(51)

figlio di buona donna,

azzimato coglione! Fuori il ferro!

OSVALDO -

Vattene, non ho niente da spartire

con uno come te.

KENT -

Fuori la spada, t’ho detto, cialtrone!

Tu vieni qui latore di messaggi

contro il re, ed a prendere le parti

di quel pupazzo della Vanità(52)

ai danni della maestà del padre.

Mano alla spada, pezzo di carogna,

o t’affetto gli stinchi! Avanti, sfodera,

canaglia, fatti sotto!

OSVALDO -

Aiuto, aiuto!

M’ammazza! Aiuto!

KENT -

Forza, miserabile,

non scappare, difenditi, carogna!

Fermo, schiavo! Difenditi! Colpisci!

(Gli si avventa con la spada ma si arresta vedendo Edmondo che esce dal castello ed entra in scena)

Entra EDMONDO

EDMONDO -

Eh, diavolo! Che c’è? Che roba è questa?

KENT -

Anche tu, se ti prude, coccobello!

Su, avanti, fatti sotto,

che t’inizio al mestiere(53), signorino!

Entrano il DUCA DI CORNOVAGLIA, REGANA, GLOUCESTER e persone del seguito

GLOUCESTER -

Armi, spade snudate… Che succede?

CORNOVAGLIA -

Fermi, cessate, per la vostra vita!

Chi s’azzarda a tirare un solo colpo,

è un uomo morto. Che litigio è questo?

REGANA -

Sono i due messaggeri:

di mia sorella l’uno, del re l’altro…

CORNOVAGLIA -

Che c’è tra voi? Parlate.

OSVALDO -

Non ho quasi più fiato, monsignore.

KENT -

Sfido io! L’hai consumato tutto

a galoppare sopra il tuo coraggio.

A te non t’ha prodotto la natura,

vile ribaldo, t’ha cucito un sarto.(54)

CORNOVAGLIA -

Strano tipo costui, a dir così.

Un sarto che fa un uomo?

KENT -

Un sarto, sì;

un tagliapietre o un uomo di pennello

non l’avrebbero fatto così male

nemmeno con due anni di mestiere.

CORNOVAGLIA -

Ma parla: com’è nata questa rissa?

OSVALDO -

Questo vecchio ruffiano, monsignore,

al quale ho fatto grazia della vita

per un riguardo alla sua barba grigia…

KENT -

Lettera zeta, figlio di puttana,

inservibile come quella lettera!(55)

Se me ne date licenza, signore,

io lo trituro, questo lestofante

fino a ridurlo polvere in calcina,

e poi c’intonaco il muro d’un cesso…

“Per un riguardo alla sua barba grigia…”,

schifoso debosciato!

CORNOVAGLIA -

Basta là!

Non conosci tu dunque alcun rispetto,

furfante imbestialito?

KENT -

Sissignore,

ma la collera ha pure i suoi diritti.

CORNOVAGLIA -

Perché questa tua collera?

KENT -

Per vedere un villano come questo

aver l’onore d’una spada al fianco,

mentre d’onore addosso non ha niente.

Sorridenti carogne come lui

spesso rodono, come tanti topi,

fino a spezzarli, sacrosanti nodi

che di per sé sarebbero inscindibili;(56)

solleticano tutte le passioni

nell’animo dei loro protettori,

come olio sul fuoco, o come neve

sopra i loro glaciali sentimenti;

negano, e poi confermano, e poi negano

e volgono i lor becchi da gabbiano

al vento dell’umor dei lor padroni,

non essendo capaci di far altro

che d’accodarsi come dei segugi…

(A Osvaldo che sorride come per un tic di natura)

Peste a quella tua faccia d’epilettico!

Che fai, ti ridi delle mie parole

come s’io fossi matto? Paperone!

Se mi dovessi incontrare con te

nella piana di Sàrum, giuraddio,

ti farei correre e starnazzare

fino a Camelot!(57)

CORNOVAGLIA -

E che, vecchio, sei pazzo?

GLOUCESTER -

Su, parla. Com’è nato tutto questo?

KENT -

Non esistono al mondo altri contrari

fra i quali ci sia tanta antipatia

come tra me ed un simile furfante.

CORNOVAGLIA -

Perché furfante, che colpa ha commesso?

KENT -

Perché non mi va a genio la sua faccia.

CORNOVAGLIA -

E allora forse nemmeno la mia,

o la sua,

(Indica Edmondo)

o la sua.

(Indica Regana)

KENT -

Signore mio,

io faccio professione d’esser schietto:

ho visto ai tempi miei facce migliori

di quante se ne vedan sulle spalle

di quelli che mi stanno ora davanti.

CORNOVAGLIA -

Costui dev’essere di quei compari

che avendo avuto da qualcuno lodi

per la loro brutale sfrontatezza,

affettano una bolsa villania

assumendo forzati atteggiamenti

del tutto estranei alla lor natura.

Non sa adulare, lui! Anima schietta,

non dice che l’onesta verità!

Se il prossimo la beve, tanto meglio;

se no, lui schietto è stato e schietto resta.

Conosco questa risma di furfanti

che dietro l’ostentata lor schiettezza

celano più scaltrezza e oscuri fini

di venti smidollati cortigiani

usi a curvar la schiena tutto il giorno

ed a profondersi in salamelecchi

nel modo più impeccabile e garbato.

KENT -

Signore, in buona fede,

ed in autentica sincerità,

con licenza dell’eminenza vostra,

la cui influenza, come la corolla

di sfolgorante fuoco fiammeggiante

sulla fronte di…

CORNOVAGLIA -

Beh, beh, che vuoi dire

con questa enfatica incensatura?

KENT -

È per allontanarmi, monsignore,

dal mio gergo, che v’è tanto sgradito.

Io non sono capace di adulare;

se c’è qualcuno che, parlando schietto,

v’ha potuto imbrogliare, quello lì

è un altrettanto schietto farabutto;

ciò che, per parte mia, non sarò mai,

dovessi indurre il vostro disfavore

a rifiutarmi d’esserlo.(58)

CORNOVAGLIA -

(A Osvaldo)

In che l’avete offeso?

OSVALDO -

Io? In niente.

Piacque al re suo padrone, ultimamente,

per un suo malinteso, di picchiarmi,

e lui, per lusingarne il malumore,

e d’accordo col lui, mi sgambettò,

mi fe’ cadere a terra, m’insultò,

e si dette tale aria di gradasso

da trarne merito e lode dal re

per aver infierito sopra un uomo

datosi già per vinto;

ed oggi, poi, ancora tutto tronfio

per quella sua valorosa prodezza,

mi s’è avventato contro, spada in pugno.

KENT -

Non c’è tra queste canaglie vigliacche

nessuna che non abbia la pretesa

di voler un Aiace per suo matto.(59)

CORNOVAGLIA -

Portatemi qui i ceppi!

T’insegneremo noi, vecchio caparbio…

KENT -

Son troppo vecchio, io, per imparare,

signore. Non mandate per i ceppi.

Io sto servendo il re,

e son venuto qui da parte sua;

mettendo in ceppi me, suo messaggero,

mostrereste la vostra volontà

di fare cosa poco rispettosa,

un atto di palese malvolere

contro l’augusta e graziosa persona

del mio padrone.

CORNOVAGLIA -

Portatemi i ceppi!

Costui, per la mia vita ed il mio onore,

li terrà stretti fino al pomeriggio!

REGANA -

Al pomeriggio? Al pomeriggio e oltre,

e per tutta la notte, mio signore!

KENT -

Eh, signora, s’io fossi pure il cane

di vostro padre, non mi trattereste

in questo modo.

REGANA -

Il cane, no, messere;

ma sei il suo scherano, e lo farò.

CORNOVAGLIA -

Costui è uno della stessa risma

di quelli di cui parla tua sorella.

Portatemi qua i ceppi!

(Inservienti recano i ceppi)

GLOUCESTER -

Ch’io possa scongiurare vostra grazia

di non farlo. La sua mancanza è grave;

e il buon re suo padrone, son sicuro,

gliene darà la giusta punizione;

ma la pena che voi volete infliggergli

è troppo ignominiosa; essa è di quelle

con cui sono puniti i più malnati

e biechi malfattori resisi rei

di ruberie e simili delitti.

Il re potrebbe ben sentirsi offeso

d’esser tenuto in tanto poco conto

nella persona del suo messaggero,

se lo saprà trattato in questo modo.

CORNOVAGLIA -

Ne risponderò io di fronte al re.

REGANA -

Ancor più offesa sarà mia sorella

nell’apprendere che il suo maggiordomo

è stato dileggiato e malmenato

perchè adempiva ad un di lei mandato.

CORNOVAGLIA -

Su, imbracategli ai ceppi le caviglie.

GLOUCESTER -

(A Kent)

Me ne dispiace, amico, veramente;

ma così vuole il Duca,

e il suo carattere, lo sanno tutti,

non tollera contrasti o interferenze.

Seguiterò a intercedere per te.

KENT -

No, signore, vi prego, non lo fate.

Ho vegliato e viaggiato tanto a lungo,

nella mia vita, che passerò il mio tempo

un po’ dormendo ed il resto fischiando.

Talvolta la fortuna ai galantuomini

mostra i calcagni.(60) Buon giorno, signore.

GLOUCESTER -

Il Duca ha torto nell’agir così;

la cosa sarà presa molto male.

(Esce)

KENT -

(Traendo da una tasca una lettera)

Gran Re,(61) tu vedi adesso di mostrarmi

la veridicità del noto adagio:

“Se il favore del cielo t’abbandona,

c’è sempre il caldo sole che t’accoglie”.

Sorgi, o faro di questo basso mondo,

così che col conforto dei tuoi raggi

io possa legger ora questa lettera.

Quasi nessuno vede più miracoli

tranne chi sta in disgrazia.

Questa lettera so ch’è di Cordelia;

ha saputo, non so da quale fonte,

del mio travestimento, con suo padre,

e coglierà certamente occasione

da questa mia iniqua situazione

di portare rimedio a tanti guai.

Stanchi occhi miei, consunti dalla veglia,

profittate di questa pesantezza

per non vedere l’onta e il vituperio

del luogo ove mi trovo.

Buona notte, fortuna. Torna ancora

a sorridermi; gira la tua ruota.

(Si addormenta)

 

 

 

SCENA III – Luogo aperto

 

Entra EDGARDO

 

EDGARDO -

Ho udito proclamare in ogni dove

la mia condanna al bando, e per fortuna,

grazie alla cavità d’un tronco d’albero,

son riuscito a sfuggire alla caccia.

Non c’è più un porto libero, più un sito,

dove non siano sguinzagliate guardie;

è in atto la più stretta sorveglianza

per evitar ch’io fugga.

Ma finché sarò in grado, fuggirò,

e farò tutto per mettermi in salvo.

Ho pensato di assumere l’aspetto

più ignobile e più povero

che la miseria abbia mai assunto

a disprezzo dell’uomo, a degradarlo

fin quasi a bestia. Mimpiastriccerò

la faccia di pattume, intorno ai fianchi,

un cencio, mi scarrufferò i capelli,

e, presentando la mia nudità,

esporrò il corpo allo schiaffo dei venti

e all’inclemenza mordace del cielo.

Il paese me n’offre il precedente

coi matti mendicanti di Bedlàm(62)

che, urlando da sembrare che ruggiscano,

si ficcan nelle braccia nude e inerti

ogni sorta di spilli, aghi di legno,

chiodi, unghie, zipoli di rosmarino

e vanno in giro, in quell’orrendo aspetto,

talora con discorsi senza senso,

talora con pietosi piagnistei,

ad accattar due soldi d’elemosina

ai casolari, ai villaggi sperduti,

ai recinti di pecore, ai mulini:

“Povero Turlulù! Povero Tom!”

Tom è pur sempre ancora qualche cosa;

io, Edgardo, più niente!

(Esce)

 

 

 

SCENA IV – Davanti al castello di Gloucester

 

KENT è in ceppi, seduto.

Entrano LEAR, il MATTO e un GENTILUOMO, senza vederlo

 

LEAR -

Mi sembra strano che siano partiti

senza mandarmi indietro il messaggero.

GENTILUOMO -

Per quanto ne so io, fino a iersera

non s’era mai parlato di partire.

KENT -

Salute a te, mio nobile padrone!

LEAR -

Ah! Sei qui. Ti sei fatto il passatempo

d’una simile infamia?

KENT -

No, signore.

MATTO -

Ahà! Porta crudeli giarrettiere!(63)

I cavalli si legano alla testa,

i cani e gli orsi al collo,

le scimmie ai fianchi e gli uomini alle gambe.

E chi è troppo robusto di gambe

deve portar calzerotti di legno.

LEAR -

Chi è che ha preso così a mal partito

la tua missione, da metterti qui?

KENT -

Tutti e due, un colui e una colei,

il vostro genero e la vostra figlia.

LEAR -

No!

KENT -

Sì.

LEAR -

No, dico!

KENT -

E io dico di sì.

LEAR -

No, no, non lo farebbero.

KENT -

L’han fattto.

LEAR -

Giuro che no, per Giove!

KENT -

E io vi giuro che sì, per Giunone!

LEAR -

Non l’avrebbero osato; non potrebbero,

né vorrebbero farlo. Fare oltraggio

sì rudemente al rispetto dovuto,

è peggio che commettere un delitto.

Dimmi presto, con calma, com’è stato

che andando tu da loro a nome nostro,

hai potuto attirarti un tal castigo?

Perché te l’hanno inflitto?

KENT -

Mio signore,

mentre, appena arrivato a casa loro,

inginocchiato, come di prammatica,

davanti a loro, stavo consegnando

la vostra lettera, e prima ancora

che mi levassi in piedi là dov’ero

arriva di carriera un messaggero

fetido di sudore, senza fiato,

che si mette a fiatare i convenevoli

di Gonerilla, la padrona sua,

e, incurante di tanta sua invadenza

nei miei riguardi, dà loro una lettera,

che quelli si precipitano a leggere,

e appena letta, in tutta fretta e furia,

chiamano i loro, montano a cavallo

e m’impongono d’andar loro dietro

fin qui, e poi, guardandomi in cagnesco

d’aspettar la risposta a loro comodo;

qui ho incontrato l’altro messaggero,

il cui arrivo, come ben m’accorsi,

era venuto a intossicare il mio.

Era costui lo stesso manigoldo

che s’era dimostrato giorni fa

così insolente verso vostra altezza;

e io che in quel momento, al sol vederlo,

ero dentro più sangue che ragione,

snudai la spada. Al che, quello ad urlare

vigliaccamente con voce alta e stridula,

da svegliare la casa.

E così parve al duca e a vostra figlia

che la mia colpa fosse meritevole

della vergogna nella quale sto.

MATTO -

È ancora inverno, se l’oche selvatiche

volano sempre in quella direzione.

“Padri che portan stracci
“rendono i figli ciechi;
“padri che portan sacchi,
“rendono i figli lieti.
“Fortuna, ria sgualdrina,
“sbatte la porta a chi se ’n va in rovina”.

Ma tu riceverai dalle tue figlie

per tutto questo, zio, tanti dolori,

che se fossero dollari,

per contarli ti ci vorrebbe un anno.(64)

LEAR -

Ah, come questo mio male di madre(65)

mi gonfia il cuore! Ah, hysterica passio,

stattene giù, non mi venire su.

Là è il tuo posto!… Dov’è questa figlia?

KENT -

È dentro casa dal Conte, signore.

LEAR -

Non mi seguite. Aspettatemi qui.

(Esce entrando nel castello di Gloucester)

GENTILUOMO -

(A Kent)

Non hai commesso più grave mancanza

di quella che racconti?

KENT -

No, nessuna.

Ma come mai il re arriva qui

accompagnato da sì poca scorta?

MATTO -

Se t’avessero relegato in ceppi

per aver fatto una domanda simile,

l’avresti meritato.

KENT -

Perché, Matto?

MATTO -

Bisognerà che ti mandiamo a scuola

da una formica a imparar che d’inverno

non si lavora. All’infuori dei ciechi,

tutti quelli che vanno dritti al naso,

si fan guidar dagli occhi, e non c’è un naso

fra mille che non senta se uno puzza.

Molla la presa quando una gran ruota

rotola giù per la china del monte,

ché puoi romperti il collo ad inseguirla;

ma farai bene a farti trascinare

da quella che risale per la china.

Se trovi un uomo saggio

che sappia darti un consiglio migliore,

ridammi questo mio; perché è d’un matto,

e vorrei che nessuno lo seguisse

che non sia un autentico furfante.

“Chi ti segue per proprio tornaconto,
“o per salvar la faccia,
“come il tempo minaccia,
“ti pianta e se ne va per proprio conto.
“Se piove, il savio t’abbandonerà,
“ma il Matto resterà:
“matto è il furfante che da te si squaglia,
“il tuo Matto non è una tal canaglia.”

KENT -

E questa, Matto, dove l’hai imparata?

MATTO -

Non certo, Matto mio, stando nei ceppi.(66)

Rientra LEAR insieme con GLOUCESTER

LEAR -

Non vogliono parlarmi?

Non si sentono bene? Sono stanchi?

Hanno viaggiato per tutta la notte?

Sono scuse meschine,

segni di ribellione e d’evasione!

Datemi più plausibile risposta.

GLOUCESTER -

Voi conoscete, mio caro signore,

l’impulsivo carattere del Duca,

com’egli sia caparbio e irremovibile

nelle sue decisioni.

LEAR -

Vendetta, peste, morte e dannazione!

“Carattere impulsivo?”…

Quale “carattere”? Ah, Gloucester, Gloucester!

Voglio parlare al Duca ed a sua moglie!

GLOUCESTER -

Mio buon signore, così li ho informati.

LEAR -

“Li ho informati”… M’hai tu bene inteso?

GLOUCESTER -

Sì, mio signore.

LEAR -

È il re che vuol parlare

al Cornovaglia! Il padre alla sua figlia!

E l’ordina, lo esige. Gliel’hai detto?

Per il mio sangue! Per il mio respiro!

“Impulsivo”, eh? Il Duca!

Direte allora all’“impulsivo” Duca

che… No, non ora… Forse è proprio vero

che non si sente bene. Avrò pazienza.

Il non sentirsi bene, si capisce,

fa trascurare certi adempimenti

che per l’uomo in salute sono d’obbligo.

Non siamo più noi stessi

se la natura, sentendosi oppressa,

fa soffrire la mente insieme al corpo.

Avrò pazienza; m’è già capitato,

in un precipitoso impulso d’ira,

di scambiare l’umore di un malato

per il volere d’un uomo in salute.

Sia maledetto questo mio carattere!

(Indicando Kent in ceppi)

Perché però costui si trova lì,

in quel modo? Quest’atto mi convince

che quest’assenza del Duca e di lei

da casa loro è solo una manovra.

Liberate il mio servo!

E andate a dire al Duca ed a sua moglie

che voglio parlar loro, adesso, subito.

È un ordine: che vengano e m’ascoltino,

o andrò io stesso a battere il tamburo

davanti all’uscio della loro camera,

finché non abbia ucciso il loro sonno.

GLOUCESTER -

Dio voglia che tra voi tutto s’accomodi!

(Esce)

LEAR -

Ah, cuore mio, come mi balzi in gola!

Statti giù!

MATTO -

Bravo, sì, sgridalo, zio:

come quella comare con le anguille,

che le metteva ancora vive in pentola,

e ci picchiava sopra con la stecca

gridando loro: “Giù, giù, pazzerelle!”

E il fratello di lei era quel tale

che per bontà verso il proprio cavallo

gli spalmava col burro tutto il fieno.

Rientra GLOUCESTER con il DUCA DI CORNOVAGLIA e REGANA

LEAR -

Buongiorno a entrambi.

CORNOVAGLIA -

Salve, vostra grazia!

REGANA -

Son lieta di vedere vostra altezza.

LEAR -

Lo so, Regana, e ho ragione di crederlo.

Se tu non fossi lieta di vedermi,

ripudierei tua madre nella tomba,

che coprirebbe l’ossa d’un’adultera.

(A Kent, che intanto è stato sciolto dai ceppi)

Ah, sei libero?… Ne parliamo dopo.

(A Regana)

Regana mia, tua sorella è un’infame.

Oh, Regana, m’ha conficcato in petto

il dente della sua ingratitudine,

acuto come un rostro d’avvoltoio!

Non ho quasi la forza di parlartene…

Non potrai credere con quali modi

insolenti e perversi… Ahimè, Regana!

REGANA -

Vi prego, mio signore, state calmo.

Voglio piuttosto credere, signore,

che siate voi a non esser capace

di valutarne giustamente i meriti,

che non lei a mancare ai suoi doveri.

LEAR -

Ripeti. Che vuol dire?

REGANA -

Non posso credere che mia sorella

abbia potuto pur minimamente

venir meno ai suoi obblighi di figlia.

Se ha cercato, signore, di frenare

gli eccessi della gente al vostro seguito,

e sue ragioni saranno state tali

e tanto giuste da renderla indenne

da qualsiasi biasimo per questo.

LEAR -

La mia maledizione su di lei!

REGANA -

Siete vecchio, signore.

La natura è in voi al suo confine.

Dovete ormai lasciarvi governare

e guidare da alcuno che sia in grado

di discerner la vostra condizione

meglio che non possiate farlo voi.

Perciò tornate da nostra sorella,

vi prego, e ditele d’averla offesa.

LEAR -

E perché no? E chiederle perdono!

Pensa che bella scena per la casa:

“Cara figlia, confesso che son vecchio

e i vecchi sono inutili, lo so;

ti supplico in ginocchio

di farmi l’elemosina di un abito,

di un letto e un po’ di cibo!”… Perché no?

REGANA -

Basta, mio buon signore!

Queste son buffonate indecorose.

Degnatevi tornar da mia sorella!

LEAR -

Mai e poi mai, Regana!

M’ha tolto la metà della mia scorta,

m’ha gettato occhiatacce da nemica,

con la sua lingua m’ha ferito al cuore

proprio come un serpente. Voglia il cielo

far piover su di lei le sue vendette.

E voi, venti mefitici, soffiate

a flagellar le sue giovani ossa,

fino a renderla tutta rattrappita!

CORNOVAGLIA -

Oh, vergogna, signore mio, vergogna!

LEAR -

Non ho finito… E voi forcuti fulmini,

saettate quegli occhi suoi sprezzanti

coi vostri guizzi di fuoco e accecateli!

E voi, vapori che il potente sole

risucchia da pestifere paludi,

contagiate ogni segno di bellezza

sul suo corpo, e copritelo di piaghe!

REGANA -

Dèi benedetti! Questo stesso augurio

voi potreste lanciare su di me,

quando foste con me d’umore irato!

LEAR -

No, Regana, su te non cadrà mai

la mia maledizione.

La tua natura tenera e affettuosa

non ti può rendere così inumana.

Gli occhi di tua sorella son feroci,

i tuoi spiran conforto e non s’infiammano.

A te non verrà mai di rampognarmi

per i pochi piaceri che mi prendo,

o di ridurmi gli uomini di scorta,

di rispondermi con parole d’odio,

di serrarmi la porta a catenaccio

per non lasciami entrare in casa tua.

Tu conosci gli affetti di natura,

i legami dei figli con il padre,

la cortesia dei modi, la creanza

i doveri della riconoscenza.

T’ho dato in dote metà del mio regno,

e questo tu non l’hai dimenticato.

REGANA -

Mio buon signore, ritorniamo al punto.

LEAR -

Chi è che ha messo in ceppi il mio famiglio?

(Tromba all’interno)

Che cos’è questa tromba?

REGANA -

La riconosco al suono: è mia sorella.

È la conferma di ciò che ci ha scritto:

che sarebbe venuta qui al più presto.

Entra OSVALDO

È la vostra signora, vero, Osvaldo?

KENT -

(A Lear)

Questo è un fior di furfante

la cui boria d’accatto a basso prezzo

riposa sul volubile favore

di colei della quale fa il segugio.

Fuori, lacchè, sparisci dai miei occhi!

CORNOVAGLIA -

(A Lear, senza badare a quel che gli dice Kent)

Vostra grazia chiedeva, poco fa…

LEAR -

Chi è che ha messo in ceppi il mio domestico?

Regana, spero tu ne fossi ignara…

Entra GONERILLA

Chi arriva adesso qui?…

O cieli! Se vi sono cari i vecchi,

se s’osserva nel mite vostro impero

obbedienza di figlio,

nell’ambito,

se conoscete anche voi la vecchiaia,

fate vostra la causa della mia!(67)

Scendete a sostenerla!

(A Gonerilla)

Non ti vergogni, tu,

di guardare soltanto la mia barba?

Regana, e tu le stringerai la mano?

GONERILLA -

E perché no? Che male avrò mai fatto?

Non tutto è male quel che un dissennato

ritiene tale o che chiama così

la demenza senile.

LEAR -

O petto mio,

sei troppo forte! Ce la fai ancora?

(Al Cornovaglia)

Chi ha inceppato il mio servo?

CORNOVAGLIA -

Io, signore; ma il suo comportamento

nemmeno meritava tanto onore.

LEAR -

Voi siete stato? Siete stato, voi?

REGANA -

Vi prego, padre mio,

siete debole, abbiatene contezza.

Se tornerete a star con mia sorella

fino alla fine del mese fissato,

congedando metà del vostro seguito,

poi verrete da me.

Per il momento son lungi da casa,

e sprovvista dei mezzi necessari

a provvedere alla vostra assistenza.

LEAR -

Ritornare con lei,

e congedar cinquanta dei miei uomini?

No! Piuttosto rinuncio ad ogni tetto

per andare ramingo e solitario

ad affrontare l’inclemenza dell’aria,

e ad avere compagni il lupo e il gufo,

e provar come loro e insieme a loro

il morso della fame e del bisogno!…

Ritornare con lei…

Tanto varrebbe andarmi a inginocchiare

contrito e bisognoso avanti al trono

di quel focoso sangue-caldo Francia

che s’è preso la nostra ultima nata

senza una dote, e mendicar da lui

magari una pensione da staffiere

per trascinare un’esistenza grama.

Ritornare con lei!…

Dimmi piuttosto di fare da schiavo

o da bestia da soma

a questo miserabile stalliere!

(Indica Osvaldo)

GONERILLA -

A vostra buona scelta, mio signore.

LEAR -

Ti prego, figlia, non farmi impazzire.

Ti toglierò il disturbo, figlia. Addio.

Non ci rincontreremo più; per sempre.

Eppure tu sei pur sempre mia carne,

mio sangue, sei mia figlia…

o meglio, no, tu sei nella mia carne

una cancrena ch’io sono costretto

a riconoscer come cosa mia,

una verruca, una piaga maligna,

una pustola gonfia di carbonchio,

un tumore del mio sangue corrotto.

Ma non ti voglio muovere rimprovero.

L’infamia venga da te, quando vuole,

io non voglio invocarla;

non chiederò a Colui che ha in mano il tuono

di scagliarti i suoi fulmini;

né vorrò riferir di te a Giove,

supremo giudice. Pèntiti a tuo agio,

migliorati a tuo agio: io son paziente,

posso star con Regana,

con i miei bravi cento cavalieri.

REGANA -

Ah, no davvero! Io non v’aspettavo

e non mi trovo affatto preparata

ad ospitarvi come si conviene.

Date ascolto, signore, a mia sorella;

perché chi guardi pure con criterio

la vostra passionale indignazione,

non può non riconoscere, purtroppo,

che siete vecchio, mio signore, e allora…

Ma mia sorella sa quello che fa.

LEAR -

E ti par questo un onesto discorso?

REGANA -

Direi proprio di sì, signore mio.

Cinquanta cavalieri! E non vi bastano?

Di più, che ve ne fate? Anzi, son troppi,

dal momento che il costo ed il pericolo

parlan concordi contro un tale numero.

Come fa tanta gente a andar d’accordo,

sotto un stesso tetto,

e sotto due differenti comandi?

È assai difficile, quasi impossibile.

GONERILLA -

Perché non vi potreste far servire,

mio signore, dai dipendenti suoi

o dai miei?

REGANA-

Già, giusto, perché no?

Così se commettessero mancanze

potremmo noi riprenderli a dovere.

Se volete venire a star con me

- giacché ormai ne intravedo il pericolo -,

vi chiedo di portarne venticinque

al massimo; per più non avrò posto,

né ve ne riconosco più di tanti.

LEAR -

A voi ho dato tutto…

REGANA -

Ed era tempo!

LEAR -

… vi ho fatto mie custodi universali,

depositarie di tutti i miei beni,

per me stesso soltanto riservando

quel numero di cavalieri al seguito.

Dovrei ora, Regana,

venire a star con te con venticinque?

Così hai detto?

REGANA -

Sì, e lo ripeto,

e non di più, se venite da me.

LEAR -

Le creature malvagie han la ventura

che se ne trovan sempre di peggiori.

È già un ottimo titolo di merito

non essere il peggiore in assoluto.

(A Gonerilla)

Quand’è così, io rimango con te:

cinquanta son due volte venticinque.

Il tuo bene, perciò, è due volte il suo.

GONERILLA -

Sentite, mio signore: o venticinque,

o dieci, o cinque come vostro seguito,

che bisogno ne avete, in una casa

in cui due volte tanti servitori

hanno l’ordine di accudire a voi?

REGANA -

Già, che bisogno avete anche di uno?

LEAR -

“Bisogno”… Non si parli di bisogno.

I più grami tra i nostri mendicanti

hanno pure qualcosa di superfluo.

Se noi non concediamo alla natura

nulla di più del suo stretto bisogno,

diciamo allora che la vita umana

vale meno di quella d’una bestia.

Tu sei una gran dama:

se il tuo vestire dovesse consistere

solo nello star calda, qual bisogno

avresti di portare sontuose vesti,

che non son fatte per tenere caldo?

Quanto ai veri bisogni, quelli veri…

O cieli, datemi voi la pazienza,

ché la pazienza è il vero mio bisogno.

Dèi, mi vedete qui, povero vecchio,

carico di dolori come d’anni,

reso infelice dagli uni e dagli altri:

se siete voi ad aizzare i cuori

di queste figlie contro il loro padre,

non toglietemi il senno fino a tanto

da sopportare in pace tutto questo;

toccatemi di nobile furore,

non fate sì che l’armi delle donne,

gocce d’acqua, mi scendano dagli occhi

a deturpare le mie guance d’uomo.

No, streghe snaturate!

Farò su entrambe voi tali vendette,

che il mondo intero… farò tali cose…

ancora non so quali…

ma tali che ne tremerà la terra.

Voi v’aspettate di vedermi piangere.

Non piango, se pur n’abbia ben ragione;

ma questo cuore si frantumerà,

prima ch’io pianga, in centomila schegge.

O Matto, finirò con l’impazzire!

(Esce con Gloucester, Kent e il Matto)

(Tuoni e vento)

CORNOVAGLIA -

Rientriamo. S’annuncia un temporale.

REGANA -

La casa qui è piccola;

non c’è spazio abbastanza a dar riparo

al vecchio ed al suo seguito.

GONERILLA -

Peggio per lui; si è messo allo sbaraglio,

si gusti i frutti della sua follia.

REGANA -

Fosse lui solo, lo terrei con me

con piacere, ma non uno dei suoi.

GONERILLA -

E così io, figurati…

Ma dove s’è cacciato il conte Gloucester?

CORNOVAGLIA -

È andato dietro al vecchio. Ecco che torna.

Rientra GLOUCESTER

GLOUCESTER -

Il re è furibondo.

CORNOVAGLIA -

Dove sta andando?

GLOUCESTER -

Ha dato il buttasella.

Ma dove sia diretto non lo so.

CORNOVAGLIA -

Meglio lasciarlo andare.

È padrone di fare ciò che vuole.

GONERILLA -

(A Gloucester)

Però, Conte, che non vi salti in mente

di dirgli di restare a casa vostra.

GLOUCESTER -

Ahimè, scende la notte,

e soffia già violento un vento gelido

e qui, per miglia e miglia tutt’intorno,

non c’è quasi un cespuglio.

REGANA -

Signor mio, gli individui testardi

i mali se li cercano da sé.

Servono loro di buona lezione.

Voi sbarrate le porte.

Ha un codazzo di gente disperata,

e prudenza consiglia di temere

a quali gesti possano incitarlo

profittando della facilità

con cui presta l’orecchio a mal consiglio.

CORNOVAGLIA -

Sì, caro Gloucester, sprangate le porte.

La mia Regana vi consiglia bene.

Ritiriamoci. Arriva la bufera.

(Escono)

 

 

ATTO TERZO

 

 

 

SCENA I – Una piana deserta. Uragano con tuoni e lampi.

 

Entrano, da parti opposte, KENT e un GENTILUOMO del seguito di LEAR

 

KENT -

Chi è là, con questo tempo da malanni?

GENTILUOMO -

Uno che, come il tempo, è molto inquieto.

KENT -

Ah, siete voi, signore. E il re dov’è?

GENTILUOMO -

Alle prese cogli elementi in furia:

è là, allo scoperto

che ingiunge ai venti di portarsi via

la terra e inabissarla dentro al mare,

o di far avventare l’onde crespe

tanto al disopra della terraferma

da mutar faccia al mondo o cancellarlo.

E si strappa i capelli, che impetuose

le raffiche scompongono e razzuffano

con cieca rabbia, e se ne fan ludibrio.

Pretende, nel suo microcosmo umano,

di sopraffare, come per ischerno,

il conflitto dei venti con la pioggia;

e se ne va, correndo a testa nuda

e invocando la fine d’ogni cosa,

in una notte in cui perfino l’orsa,

spossata dal poppare dei suoi piccoli,

non oserebbe abbandonar la tana,

e il leone ed il lupo,

benché coi fianchi morsi dalla fame,

mantengono all’asciutto il loro pelo.

KENT -

Ma chi è con lui?

GENTILUOMO -

Nessun altri che il Matto,

che s’industria a rivolgergli in arguzie

le offese che gli han fatto male al cuore.

KENT -

Signore, so che siete un gentiluomo,

e ciò mi dà abbastanza affidamento

perch’io mi senta indotto confidarvi

una cosa che mi sta molto a cuore.

Tra i duchi d’Albania e Cornovaglia

c’è discordia, se pur per il momento

mascherata da ipocrisia reciproca.

L’uno e l’altro, com’è spesso costume

di coloro le cui supreme stelle

hanno innalzato al trono dei potenti,

tengono in casa come servitori

(o come tali solo in apparenza)

uomini che in realtà son delle spie

del re di Francia, suoi segreti agenti

che lo informano intorno al nostro Stato.

Questi, avendo osservato ultimamente

i dissapori e gli intrighi dei Duchi,

e la stretta di redini che entrambi

han dato al vecchio e generoso re,

oltre ad altri più gravi accadimenti,

di cui questi non son che i primi segni

su questo disunito nostro regno…

sta che ora si muove dalla Francia

un forte esercito che, profittando

della nostra palese noncuranza,

ha stabilito già teste di ponte

su alcuni dei maggiori nostri approdi

e s’appresta a spiegare i suoi vessilli

in campo aperto. Ma veniamo a voi:

se, sulla fede delle mie parole,

voi vi sentiste di adoprarvi a tanto

da raggiungere Dover al più presto,

là troverete chi vi sarà grato

quando gli avrete bene riferito

di quali trattamenti snaturati,

e tali da condurre alla pazzia,

abbia ragione il re di lamentarsi.

Io sono, come voi, un gentiluomo

di sangue e di costumi, ed in tutta scienza

e coscienza m’induco ad affidarvi

questo importante incarico.

GENTILUOMO -

Potremo riparlarne a miglior agio.

KENT -

No, ha da esser subito, vi prego.

Io sono molto più di quel che sembro;

a confermarvi, aprite questa borsa

e prendetene tutto il contenuto.

Se vedrete Cordelia – e non ne dubito –

ecco, le mostrerete quest’anello

e saprete da lei chi è quest’uomo

ch’ora vi parla e voi non conoscete.

(Tuoni e lampi intensificati)

Maledizione a questo temporale!

Vado in cerca del re.

GENTILUOMO -

D’accordo. Qua la mano.

(Kent gli dà la mano)

Avete altro da dirmi?

KENT -

Solo questo,

ma più importante di quanto v’ho detto:

il primo di noi due che trova il re,

voi cercando di là ed io di qua,

ne dia segnale all’altro con la voce.

(Escono dalle parti opposte da cui sono entrati)

 

 

 

SCENA II – Altra parte della piana. La bufera infuria.

 

Entrano LEAR e il MATTO

 

LEAR -

Soffiate, venti, a squarciarvi le guance!(68)

cateratte del cielo ed uragani,

rovesciatevi a fiumi sulla terra,

fino a sommergere le nostre guglie

e ad annegarne i galli giravento.(69)

Voi, fuochi di zolfo,

guizzanti rapidi come i pensieri,

avanguardie dei fulmini

che schiantano le querce,

scotennate questa mia testa bianca!

E tu, tuono, che tutto scuoti e scrolli,

percuoti la rotondità del mondo

fino a schiacciarla tutta, fino in fondo,

stritola le matrici di natura,

spargi e disperdi in aria

tutti i germi che generano l’uomo,

mostro d’ingratitudine!

MATTO -

Zietto, anche l’ipocrita acquasanta

della corte, fra quattro mura asciutte

è meglio di quest’altra acqua di pioggia

così all’aperto(70) Torna a casa, zio,

fatti ribenedir dalle tue figlie;

questa è una notte che non ha pietà

per nessuno, per matti né per savii.

LEAR -

Ròmbati il ventre, cielo! Sputa fuoco!

Scroscia, tu, pioggia! Pioggia, vento, tuono,

guizzi di fuoco, non sono figlie mie:

non vi posso accusar d’ingratitudine;

a voi non diedi un regno,

né vi chiamai mai figli. Voi elementi

non mi dovete obbedienza di sorta;

e allora rovesciate sul mio capo

i vostri orrendi sfoghi, a sazietà!

Io son qui, vostro schiavo, un pover’uomo

vecchio, debole, infermo, derelitto…

Vi chiamo tuttavia vili strumenti

al servizio di due figlie degeneri,

che scatenate dall’alto del cielo

le vostre schiere su una vecchia testa

canuta come questa. Oh, oh, è infame!

MATTO -

Chi ha casa dove riparar la testa,

può ben dire d’avere un buon cappuccio.

“Se il borsello vuol cappuccio([71])
“prima ancora d’un tettuccio,
“farà pidocchi in testa
“e nozze senza festa.
“Chi al posto del cuore
“il ditone del piede metterà
“d’un callo soffrirà,
“e non potrà dormire dal dolore”.

Infatti non ci fu mai bella donna

che non facesse boccacce allo specchio.

LEAR -

No, no, non dirò nulla… Starò zitto.

Sarò un modello di sopportazione.

Entra KENT

KENT -

Chi è là?

MATTO -

E non lo vedi? Siamo in due.

Qui c’è una maestà ed un borsello,

sarebbe come dire un savio e un matto.

KENT -

(A Lear)

Ahimè, sire, voi qui?

Una notte così non è piacevole

manco alle bestie che amano la notte:

anche a quei vagabondi delle tenebre

i cieli irati incutono sgomento

e li costringon nelle loro tane.

Da quando sono uomo, a mia memoria,

non ho mai visto cortine di fuoco

e udito scoppi di tuono sì orrendi,

e pioggia e vento mugghiar così forte.

La natura dell’uomo

non regge a tanta violenza e terrore.

LEAR -

Gli dèi superni che sul nostro capo

fanno questo terribile frastuono

stanino ora chi a loro è nemico.

Trema tu, sciagurato,

che chiudi in te delitti inconfessati

e rimasti tuttora non puniti;

e tu nasconditi, mano assassina,

sporca di sangue; ed anche tu, spergiuro;

e tu, specchio di finta rettitudine,

colpevole d’incesto!

Trema fino a spezzarti, tu, furfante,

che sotto le apparenze d’uomo onesto

hai cercato la morte del tuo prossimo!

Segrete colpe, delitti ignorati,

squarciate le cortine che vi celano

ed invocate la grazia del cielo

davanti a questi terribili messi

accusatori. Per me, io son uno

contro cui s’è peccato assai di più

che non abbia peccato lui medesimo.

KENT -

Ahimè, a testa nuda?… Mio signore,

a due passi da qui c’è una capanna:

vi sarà almeno di qualche riparo

dalla furia di questo temporale;

andate intanto a mettervi là dentro,

mentr’io ritorno a quel duro castello,

più duro della pietra onde è formato,

dove poc’anzi, chiedendo di voi,

mi sono visto negare l’ingresso.

Cercherò di costringerli, signore,

a usarvi un minimo di cortesia.

LEAR -

I miei sensi cominciano a smarrirsi.

(Al Matto)

Vieni, ragazzo. Come stai? Hai freddo?

Ho freddo anch’io.

(A Kent)

Dov’è questa capanna?(72)

La magia del bisogno è prodigiosa;

ci fa dar pregio alle cose più vili.

Andiamo a questo ovile.

Povero Matto, canagliuccia mia,

mi resta ancora un pizzico di cuore

che riesce ad affliggersi per te.

MATTO -

(Cantando)

“Chi serba ancora un pizzico di mente,
“ehi, ho!, con pioggia o vento,
“della sua sorte se ne stia contento,
“anche se piove ininterrottamente”.

LEAR -

Vieni, ragazzo mio.

(A Kent)

Orsù, accompagnami a questa capanna.

(Esce con Kent)

MATTO -

Una notte così è l’ideale

per raffreddar gli ardori a una puttana.

Prima d’uscir di scena, tuttavia,

vi voglio fare la mia profezia.(73)

“Quando saranno i preti
“più preti a chiacchiere che non a fatti;
“quando avranno i birrai
“guastato con troppa acqua i loro malti;
“quando saranno i nobili
“diventati maestri ai loro sarti;
“quando gli zerbinotti
“andranno al rogo al posto degli eretici;
“quando ogni nequizia
“sarà punita secondo giustizia;
“quando non vi saranno più scudieri
“pieni di debiti né cavalieri
“poveri in canna; quando sia svanita
“la calunnia da ogni lingua ardita;
“quando starà lontano
“dalla folla il mariuol svelto di mano;
“quando anche gli strozzini
“conteranno all’aperto i lor quattrini,
“quando chiese saranno edificate
“da ruffiane e da donne malfamate…
“sarà il segnale che il regno d’Albione
“sarà ridotto in grande confusione;
“e sarà il tempo – chi vivrà vedrà –
“che chi vuol camminare a piedi andrà.”

A profetare questo non son io;

sarà il Mago Merlino al tempo suo,

io vivo secoli prima di lui.(74)

(Esce)

 

 

 

SCENA III – Sala nel castello di Gloucester

 

Entrano GLOUCESTER ed EDMONDO

 

GLOUCESTER -

Ohimè, ohimè, Edmondo, non mi piace

questa loro condotta snaturata!

Quando ho chiesto d’avere il lor permesso

d’apprestargli qualche pietosa cura:

non solo m’han vietato espressamente

d’ospitarlo qui dentro, in casa mia,

a pena di cadere in lor disgrazia,

ma addirittura di parlar di lui

a loro, d’interceder per lui,

di prendere comunque le sue parti.

EDMONDO -

Bestiale e snaturato atteggiamento!

GLOUCESTER -

Tu però, zitto, non farne parola.

Tra i duchi c’è rottura, anzi, di peggio.

Stanotte ho ricevuto una missiva…

Ma è rischioso parlarne…

L’ho chiusa a chiave nel mio gabinetto.

Questi torti che il re sta sopportando

saranno fieramente vendicati.

Già le avanguardie di un potente esercito

han messo piede sopra il nostro suolo.

Ci convien parteggiare per il re.

Lo cerco, e lo soccorrerò in segreto.

Tu, nel frattempo, va’, intrattieni il Duca,

che non si scopra la mia carità.

Se domanda di me,

sto poco bene, e sono andato a letto.

A costo di rimetterci la vita

(giacché questo m’è stato minacciato),

il re, mio vecchio e nobile signore,

dev’essere soccorso a tutti i costi.

Edmondo, strane cose son nell’aria.

Sii prudente, perciò, ti raccomando.

(Esce)

EDMONDO -

Di questa tua vietata carità

sarà informato il Duca, immantinente;

ed anche della lettera:

e sarà un bel merito per me,

che dovrà volgere a mio favore

tutto quello che perderà mio padre:

vale a dire l’intera sua sostanza.

Se il vecchio cade, in sella balza il giovane.

(Esce)

 

 

 

SCENA IV – Un’altra parte della piana con una capanna.

L’uragano infuria sempre.

 

Entrano LEAR, KENT e il MATTO

 

KENT -

Questo è il luogo, signore.