Riccardo II
WILLIAM SHAKESPEARE
RICCARDO II
Tragedia in 5 atti
Traduzione e note a cura di Goffredo Raponi
Titolo originale: “KING RICHARD THE SECOND”
NOTE PRELIMINARI
1) Il testo inglese adottato per la traduzione è quello del prof. Peter Alexander (William Shakespeare, “The Complete Works”, Collins, London & Glasow, 1960), con qualche variante suggerita da altri testi, specialmente quello prodotto dal Furnival per la “Early English Text Society”, e la recente edizione dell’”Oxford Shakespeare“ curata da S. Wells e Gary Tylor per la Clarendon Press, New York, 1988 - 1994.
2) Alcune didascalie sono state aggiunte dal traduttore di sua iniziativa, per la miglior comprensione dell’azione scenica alla lettura, al qual fine questa traduzione è essenzialmente diretta, il suo curatore ritenendo Shakespeare irrappresentabile nell’èra attuale.
3) All’inizio di ciascuna scena i personaggi sono introdotti con il rituale “Entra” o “Entrano”, che ripete l’“Enter” del testo; giova avvertire però che tale dizione non implica che i personaggi debbano “entrare” in scena all’inizio di essa; è spesso possibile che essi si trovino già, in un qualunque atteggiamento.
4) Il metro è l’endecasillabo sciolto, intercalato da settenari, come l’abbia richiesto al gusto del traduttore lo scorrere della verseggiatura.
5) La divisione in atti e scene, com’è noto, non si trova nell’“in-folio”; essa è stata elaborata, spesso anche con l’elenco dei personaggi, da vari curatori nel tempo, a cominciare da Nicolas Rowe (1700). Li si riproduce come figurano nella citata edizione dell’Alexander.
PERSONAGGI
RE RICCARDO II
GIOVANNI DI GAUNT, Duca di Lancaster
EDMONDO DI LONGLEY, Duca di York, zii del re
ENRICO, soprannominato BOLINGBROKE, Duca di Hereford, figlio di Giovanni Gaunt, poi Re Enrico IV
IL DUCA DI AUMERLE, figlio del Duca di York
TOMASO MOWBRAY, Duca di Norfolk
IL DUCA DI SURREY
IL CONTE DI SALISBURY
IL CONTE DI BERKELEY
BUSHY
BAGOT
GREEN, favoriti del re
IL CONTE DI NORTHUMBERLAND
ENRICO PERCY, suo figlio, soprannominato “Hotspur” (“Sperone ardente”)
LORD ROSS
LORD WILLOUGHBY
LORD FITZWATER
IL VESCOVO DI CARLISLE
L’ABATE DI WESTMINSTER
IL LORD MARESCIALLO
SIR STEPHEN SCROOP
SIR PIERCE EXTON
IL CAPITANO DI UNA BANDA DI GALLESI
DUE GIARDINIERI
LA REGINA, moglie di Re Riccardo
LA DUCHESSA DI YORK
LA DUCHESSA DI GLOUCESTER, vedova di Tomaso di Woodstock, Duca di Gloucester
UNA DAMA DI COMPAGNIA DELLA REGINA
Lords, araldi, ufficiali, soldati, un carceriere, un messo, un valletto e altri servitori.
SCENA: In Inghilterra e nel Galles
SCHEMA DELLA POSIZIONE DINASTICA
DI RE RICCARDO II
EDOARDO III (1312-77)
Sposa Philippa Hainault
Figlia di William, duca di
Olanda e Hainault
EDMONDO
di Langley
duca di York
(1341-1402)
EDOARDO LIONELLO GIOVANNI DI GAUNT
pr. di Galles duca di Clarenza duca di Lancaster
detto “Il Principe (1338-1368) (1340-1399)
nero” (1330-76)
sposa Giovanna Wood- TOMASO
tock, figlia di Edmondo, ENRICO IV di Woodstock
conte di Kent duca di
Gloucester
4° figlio di Edoardo I ENRICO V (1355-1397)
ENRICO VI
RICCARDO II
(1367-1400)
re dal 1377 al 1399 (deposto)
EDOARDO IV RICCARDO III
ATTO PRIMO
SCENA I
Londra. Il palazzo reale.
Entrano RE RICCARDO, GIOVANNI DI GAUNT, nobili e seguito
RICCARDO -
Dunque, Giovanni Gaunt,
vetusto e venerabile Lancaster,
tu, ligio alla giurata tua promessa,
hai condotto ora qui, davanti a noi,
Enrico d’Hereford, tuo fiero figlio,
a confermarci l’irruente accusa,
cui non abbiam potuto dare udienza
finora, contro il duca di Norfolk,
Tomaso Mowbray?
GAUNT -
Per l’appunto, sire.
RICCARDO -
Dimmi ancora, l’hai tu sondato a fondo
per sincerarti ch’egli accusi il duca
di notorio e palese tradimento
mosso non già da qualche antica ruggine,
ma da un onesto, personale impulso,
come dovrebbe fare ogni buon suddito?(1)
GAUNT -
Per quanto potei stringerlo da presso
sull’argomento, ho potuto vedere
che lo muove un pericolo evidente
contro l’Altezza vostra,
e nessun vecchio rancore tra i due.
RICCARDO -
Bene, falli venire faccia a faccia
dinanzi a me, cipiglio con cipiglio;
voglio udirli parlar liberamente,
entrambi, accusatore ed accusato.
Son due tipi altezzosi l’uno e l’altro,
sordi nella lor rabbia come il mare,
e pronti ad infiammarsi come fuoco.
Entrano Enrico BOLINGBROKE e Tomaso MOWBRAY
BOLINGBROKE -
Giorni felici per molti anni ancora
al mio grazioso e nobile sovrano,
mio bene amato sire!
MOWBRAY -
E v’accresca ogni giorno la letizia
di quello già trascorso,
finché il cielo, invidioso della terra,
non abbia aggiunto alla vostra corona,
il titolo dell’immortalità!
RICCARDO -
Grazie ad entrambi; ma in uno di voi
questo augurio non può suonar sincero,
almeno a giudicare dalla causa
per cui siete venuti innanzi a me,
ch’è d’accusarvi d’alto tradimento,
l’uno a danno dell’altro.
Cugino d’Hereford, che accusa muovi
al Duca di Norfolk, Tomaso Mowbray?
BOLINGBROKE -
Primo – ed attesti il cielo quel che dico -
io vengo a questa regale presenza
scevro da qualsivoglia vil rancore
ma mosso solo dalla devozione
del suddito che ha cara la salvezza
della preziosa vita del suo principe.
(Al Duca di Norfolk)
E mi volgo ora a te, Tomaso Mowbray,
porgi bene l’orecchio a quel che dico,
ché della verità di quanto affermo
risponderà il mio braccio quaggiù in terra
e la divina mia anima in cielo.
Tu sei un traditore e un miscredente:
troppo di sangue nobile per esserlo,
tanto meno perciò degno di vivere;
giacché quanto più limpido è l’azzurro
della volta celeste su di noi,
tanto più sporche ci appaion le nubi
che la trascorrono. Una volta ancora,
per aggravarti il marchio dell’infamia,
io torno a rinserrare la tua strozza
col turpe titolo di traditore;
e, prima di lasciare questo luogo,
m’auguro - così piaccia al mio sovrano -
di poterti provare, spada in pugno, (2)
vero quello che afferma la mia lingua.
MOWBRAY -
(A Riccardo)
Che il mio freddo parlare, maestà,
non sia inteso dall’altezza vostra
come segno di poco mio rispetto.
Non è con un litigio da comari
o col molesto stridulo clamore
di due mordaci e velenose lingue
che si può arbitrar questa contesa.
Il sangue è caldo, sì, ma va frenato;
anche s’io stesso non potrei vantarmi
di tanta mansuetudine e pazienza
da imporre alla mia lingua di tacere.
Se non fosse per il devoto ossequio
che debbo in primo luogo a Vostra altezza
e che mi tiene dal dar briglia e sprone
al mio parlare, questo a briglia sciolta
comincerebbe a galoppar sì forte
da ricacciargli in gola, raddoppiati,
questi suoi termini di tradimento.
Mettendo a parte l’alta nobiltà
dei suoi natali e facendo astrazione
dalla sua parentela col mio re,(3)
io qui lo sfido, sputandogli addosso,
e chiamandolo vil calunniatore,
e brigante della peggiore risma.
E son pronto a provarglielo in duello,
dandogli tutto il vantaggio che vuole,
si tratti pur di raggiungerlo a piedi
fin sulle creste innevate dell’Alpi
o in un qualunque più disabitato
e più sperduto sito della terra
dove inglese ardì mai mettere piede.
Per ora bastino le mie parole
alla difesa della mia lealtà.
E giuro sulle sacre mie speranze,
ch’egli mentisce spudoratamente.
BOLINGBROKE -
O pallido, tremante, gran codardo,
ecco, ti getto il mio pegno di sfida(4)
(Gli getta il cappuccio)
proclamando qui stesso di spogliarmi
della mia parentela con il re,
e lasciando da parte
l’origine regale del mio sangue,
che tu eccepisci solo per paura
e non per reverenza.
Se il rimorso ti lascia ancor la forza
di raccoglier il pegno del mio onore,
chinati e fallo. Ed io per questo pegno,
nelle leggi della cavalleria,
son pronto a confermarti, braccio a braccio,
quanto t’ho detto o quanto ancor di peggio
tu possa immaginare sul tuo conto.
MOWBRAY -
Io lo raccolgo, e su questa mia spada
al cui tocco gentile sulla spalla
ricevetti l’onor di cavaliere,(5)
ti giuro che darò degna risposta
alla tua sfida, in piena lealtà
con le regole della cavalleria.
E ch’io non scenda vivo da cavallo,(6)
se sono traditore,
o se lotto per una ingiusta causa.
RICCARDO -
Che cosa nostro cugino ha da opporre
all’accusa di Mowbray?
Dev’essere ben grave contraccusa
per far nascere in noi
un sospetto di male su di lui.
BOLINGBROKE -
Vi basterà di udire ciò ch’io dico,
la mia vita a provar ch’è verità:
accuso Mowbray d’aver ricevuto
a titolo di paga pei soldati
di vostra altezza, ventimila nobili,(7)
e di averli intascati e sperperati
a suo sol personale beneficio,
da quell’ipocrita falso impostore
e presuntuoso furfante ch’egli è.
Affermo inoltre - e saprò dimostrarlo
battendomi con lui qui stesso o altrove,
sino all’estremo lembo del pianeta
che sia stato esplorato da occhio inglese -
che tutti i tradimenti
da diciott’anni orditi in Inghilterra
trassero primamente impulso ed origine
dal traditore Mowbray.
Aggiungo - e sono pronto a confermarlo
sulla sua pelle di bieca canaglia -
ch’è stato lui a tramare la morte(8)
di Tomaso di Gloucester,
subornando i suoi creduli nemici;
e che fu lui, malvagio traditore,
a farne uscire l’anima innocente
dal corpo in mezzo a rivoli di sangue;
ora quel sangue come quel d’Abele
sacrificale, lancia a me il suo grido
di giustizia e di dura punizione
fin dai muti precordi della terra.
E giustizia farà questo mio braccio,
in nome del glorioso mio lignaggio;
o che questa mia vita mi sia spenta!
RICCARDO -
Che vetta attinge la sua decisione!
Che rispondi, Tomaso di Norfolk?
MOWBRAY -
Oh, voglia il mio sovrano
volgere altrove gli occhi e fare sordi
per poco i propri orecchi,
fin tanto ch’io non abbia rinfacciato
a un tal diffamatore del suo sangue
quanto obbrobrioso sia a Dio e agli uomini
un così spudorato mentitore.
RICCARDO -
I nostri occhi ed orecchi
sono imparziali, Mowbray.
Foss’egli mio fratello,
anzi, l’erede stesso del mio regno
e non figlio a un fratello di mio padre,
giuro su questo scettro
che questa nostra consanguineità
non gli darebbe nessun privilegio,
così da rendere meno imparziale
la solida fermezza del mio animo
che vuol restare retto e spassionato.
Suddito nostro è lui,
Mowbray, come sei tu, né più né meno.
Parla liberamente e senza remore.
Ne hai piena licenza.
MOWBRAY -
Ebbene, Enrico Bolingbroke,
dal più profondo del tuo basso cuore
per il falso pertugio della gola,
tu menti. Del denaro ricevuto
per essere da me distribuito
ai soldati di sua maestà, a Calais,
tre parti furono regolarmente date
ai soldati del re: la quarta parte
l’ho ritenuta io col suo consenso,
a saldo d’una più cospicua somma
di cui m’era rimasto debitore
in occasione del mio viaggio in Francia
per lui, a prelevar la sua regina.(9)
Ringòiati, perciò, quella menzogna.
Quanto alla morte del duca di Gloucester,
a ucciderlo non sono stato io,
anche se, a mia vergogna, debbo ammettere
d’aver negletto, in quella circostanza,
di tener fede a un dovere giurato.
(A Giovanni di Gaunt)
E quanto a voi, nobilissimo Làncaster,
padre onorevole del mio avversario,
è vero, un giorno vi ho teso un’insidia
per togliervi la vita; e questa colpa
turba sempre l’afflitta anima mia;
ma me ne son sgravato avanti a Dio,
in confessione, prima d’accostarmi
al sacramento della comunione,
e n’ho invocato da voi il perdono
che spero tanto d’avere ottenuto.
Questa è la vera ed unica mia colpa.
Riguardo al resto, tutte le altre accuse
nascono dal rancore d’un ribaldo,
d’un vile e vergognoso rinnegato,
dal più degenere dei traditori.
Ciò son pronto a provare a testa alta,
al prezzo stesso della mia persona;
e perciò getto, di rimando, ai piedi
di questo tracotante traditore,
il mio pegno di sfida,
per provare nel suo sangue migliore, (10)
la mia lealtà di retto gentiluomo.
E perché la difesa del mio onore
non soffra indugi, prego Vostra altezza
di stabilire il giorno della prova.
RICCARDO -
Furibondi signori,
lasciatevi guidare ora da me.
Vediamo di purgare questa collera
senza che scorra sangue. Vi prescrivo
questa cura, pur non essendo medico:
odio profondo incide sempre a fondo;
dimenticare quindi, e perdonare.
Chiudete il caso e rappacificatevi.
I nostri medici son del parere
che questo non è un mese per salassi.
(A Gaunt)
Facciamo, caro zio, che questo affare
si concluda laddove è cominciato.
Noi calmeremo il Duca di Norfolk,
tu penserai a calmare tuo figlio.
GAUNT -
S’addice all’età mia far da paciere.
Figliolo, avanti, getta via da te
quel pegno della sfida del Norfolk.
RICCARDO -
E tu, Norfolk, getta via quello suo.
GAUNT -
Che aspetti, Enrico? Obbedienza di figlio
vuole ch’io non te l’ordini due volte.
RICCARDO -
Via quel pegno, Tomaso di Norfolk!
Non ti ostinare. Gettalo. Te l’ordino!
MOWBRAY -
Getto me stesso, temuto sovrano
ai piedi tuoi. Tu della mia vita
puoi disporre, ma non del mio buon nome:
a te debbo la vita, ma il mio nome
che deve vivere nella mia tomba,
aldilà e a dispetto della morte,
tu non l’avrai per farne un tale impiego
che l’esponga all’oscuro disonore.
Io qui son accusato e dileggiato,
insultato, trafitto nel profondo
da velenosa lancia; e per tal piaga
non c’è altro balsamo risanatore
fuori del sangue sticciato dal cuore
di colui che ha sticciato quel veleno.
RICCARDO -
La collera dev’essere frenata!
Consegnami quel pegno!
E non dimenticare che il leone
fece sempre mansueto il leopardo.
MOWBRAY -
Non gli cambiò però il colore al pelo.
Rimuovetemi l’onta dell’insulto,
ed io renderò il pegno.
Mio signore, amatissimo sovrano,
il tesoro più raro e più prezioso
che la vita può dare ad un mortale
è un nome senza macchia: tolto quello,
ciascun di noi non è altro che malta
placcata d’oro, o colorata argilla.
Spirito altero in cuore onesto e schietto
è come gemma chiusa in uno scrigno
da protegger con dieci serrature.
Il mio buon nome è la mia stessa vita;
crescono insieme sullo stesso tronco;
toglietemelo, e la mia vita è spenta.
Lasciate, dunque, amabile sovrano,
ch’io metta l’onor mio alla sua prova.
In esso vivo; per esso morrò.
RICCARDO -
(A Bolingbroke)
Comincia tu, cugino: getta il pegno.
BOLINGBROKE -
Dio guardi la mia anima, maestà,
dal macchiarsi d’un tal nero peccato!
Dovrei mostrare d’abbassar la testa,
proprio sotto lo sguardo di mio padre?
E col volto sbiancato di paura,
negare, da contrito peccatore,
la dignità degli alti miei natali
davanti a questo pezzo d’imbecille
che mi son pure abbassato a sfidare?
Prima che la mia lingua abbia a segnare,
con parole d’ignobile viltà
e di colpevole arrendevolezza
la fine del mio onore,
saran gli stessi denti a fare a pezzi
il vergognoso mobile strumento
della mia pavida ritrattazione,
ed a sputarlo fuori, sanguinante
e con tutto il suo obbrobrio, in faccia a Mowbray,
là dove la vergogna sta di casa.
(Esce Gaunt)
RICCARDO -
Non per chiedere, ma per comandare
noi siamo nati. Se non possiamo fare
che ritorniate amici, siate pronti
a battervi, a rischio della vita,
a Coventry, nel dì di San Lamberto.
Saran le vostre spade
a decidere là questa contesa
gravida d’odio acerbo e inveterato.
Se non possiamo rappacificarvi,
sia la giustizia a fare che prevalgano,
con la vittoria dell’uno sull’altro,
le ragioni della cavalleria.
Lord Maresciallo,(11) vogliate ordinare
agli ufficiali d’armi della corte
che si tengano pronti per dirigere
questa nobil domestica tenzone.
(Escono)
SCENA II
Londra. Il palazzo del Duca di Gloucester.
Entrano GIOVANNI DI GAUNT con la DUCHESSA di GLOUCESTER
GAUNT -
L’esser io parte del suo stesso sangue
sarebbe per me stimolo maggiore
delle tue stesse lacrime di vedova
a perseguire e punire gli autori
dell’uccisione di Tomaso Woodstock.
Ma purtroppo il potere di punire
sta nelle stesse mani del colpevole,
sicché il delitto rimane impunito;
a noi non resta quindi che affidare
la nostra causa al volere di Dio
che farà piovere sul capo ai rei
il croscio ardente della sua vendetta
quando giudicherà venuta l’ora.
DUCHESSA -
Non trova dunque in te più forte stimolo
la fratellanza? Nel tuo vecchio sangue
non arde più l’amore di fratello?
I sette figli nati da Edoardo(12)
erano sette ampolle - e tu sei una -
ripiene del suo sangue venerabile,
sette floridi rami germogliati
e cresciuti da un’unica radice.
Alcuni sono stati disseccati
dal naturale scorrere del tempo,
altri furon troncati dal destino;
ma Tomaso, lo sposo mio diletto,
la mia vita, il mio Gloucester, un’ampolla
colma del sacro sangue di Edoardo,
un ramo rigoglioso germogliato
dalla sua nobilissima radice,
fu schiantato dal tronco con violenza,
e versata la sua preziosa linfa,
e reciso, e le sue fiorenti foglie
fatte appassire tutte
dall’odio e dalla scure sanguinaria
d’un infame assassino. E quella linfa
era la stessa linfa del tuo tronco!
E quel sangue era anche sangue tuo:
lo stesso talamo, lo stesso grembo,
lo stesso conio, lo stesso metallo
onde fosti anche tu plasmato, Gaunt,
avevan fatto lui; sicché tu stesso,
tu che ancora respiri e ancora vivi,
in lui sei stato ucciso. E ti fai complice,
nel riguardar così passivamente
la morte del tuo povero fratello,
ed anche, in parte, quella di tuo padre,
ch’era la sua immagine vivente…
Non chiamarla pazienza, questa tua,
Gaunt, è sol mancanza di coraggio.
Nel tollerar con tanta indifferenza
l’assassinio di questo tuo fratello,
tu non fai che mostrar nuda la via
a chi vuol attentare alla tua vita,
quasi additando al feroce assassino
la maniera di abbattere anche te.
Quella che noi chiamiamo tolleranza
nelle persone d’umile lignaggio
è, quando ha sede nei nobili petti,
fredda ed indifferente codardia.
Che dirti più? Il modo più sicuro
per proteggere la tua stessa vita
è vendicar la morte del mio Gloucester.
GAUNT -
Prenditela con Dio. Il suo vicario,(13)
unto con l’olio santo al Suo cospetto,
ha causato la morte di Gloucester;
se fu ingiusta, che la punisca il cielo,
perch’io non potrò mai darmi l’ardire
d’alzar un braccio contro il suo ministro.
DUCHESSA -
A chi rivolger dunque il mio lamento?
GAUNT -
A Dio, campione e scudo delle vedove.
DUCHESSA -
È tutto che mi resta. Vecchio Gaunt,
addio. Tu vai a Coventry,
a veder là nostro cugino Hereford
combattere con lo spietato Mowbray.
Oh, s’assidano in punta alla sua lancia
tutti i torti recati a mio marito,
sì ch’essa vada ad infiggersi in petto
al macellaio Mowbray!
O, se morte lo manchi al primo assalto,
gli pesino sul petto tanto gravi
i suoi delitti, da spezzar le reni
al bavoso schiumante suo destriero,
sì che questo lo sgroppi sulla lizza,
lasciandolo contrito prigioniero,
di mio nipote Enrico!
Addio, mio vecchio Gaunt!
Colei che fu di tuo fratello sposa
è condannata a chiudere la vita
avendo sol compagna l’afflizione.
GAUNT -
Addio, cognata. Devo andare a Coventry.
Sia tanto bene con te che rimani
quanto con me che vado.
DUCHESSA -
Una parola ancora, tuttavia:
l’afflizione rimbalza, quando cade,
non, come palla, in virtù del suo vuoto,
ma in forza del suo peso.
Mi congedo da te
prima d’aver ancora cominciato;
perché il dolore non finisce mai,
anche quando ti par che sia passato.
Saluta tuo fratello Edmondo York…
Beh, questo è tutto… Eppure, no, no, aspetta,
non andar via così… Sì, questo è tutto…
Però non te ne andare così in fretta…
C’è qualcosa che ancor mi viene in mente…
Ah, sì, dovresti dirgli… Ohimè, che cosa?…
Ah, sì, che venga a visitarmi a Plastry
quanto prima possibile per lui…
Ahimè, che ci verrebbe a far laggiù
il vecchio York? A vedere che cosa?
Stanze vuote, pareti disadorne,
dispense nude, ambienti spopolati
che già furono pieni di famigli,(14)
pianciti non calcati da alcun piede…
E che potranno udir gli orecchi suoi
altro che i miei lamenti,
a dargli il benvenuto a casa mia?
No, no, salutalo per conto mio,
ma che non venga là
dove niente potrebbe ricercare
oltre il dolore che v’abita ovunque.
Desolata, ti lascio, desolata,
per andare a morire desolata.
Questi miei occhi umidi di lacrime
prendon da te l’estremo lor congedo.
(Escono)
SCENA III
La lizza a Coventry
Entrano il LORD MARESCIALLO E LORD AUMERLE
MARESCIALLO -
Lord Aumerle, s’è armato il duca d’Hereford?
AUMERLE -
Di tutto punto, sì, Lord Maresciallo,
ed è impaziente di scendere in lizza.
MARESCIALLO -
Il duca di Norfolk è già sul campo,
e aspetta fiero e pieno di coraggio,
che l’avversario squilli la sua sfida.(15)
MARESCIALLO -
Allora i contendenti sono pronti.
S’attende solo l’arrivo del re.
Squilli di tromba.
Entra RE RICCARDO, col seguito; poi GIOVANNI DI GAUNT, BUSHY, BAGOT, GREEN e la folla di cortigiani.(16)
RICCARDO -
Maresciallo, chiedete a quel campione
la causa della sua venuta in armi,
il suo nome, e, com’è costume e legge,
fategli far solenne giuramento
che si batte per una causa giusta.
MARESCIALLO -
(A Mowbray)
Nel sacro nome di Dio e del re,
declina le tue generalità
e la ragione perché vieni in armi;
dichiara chi è colui con cui ti batti
e qual è l’argomento della disputa.
Parla da cavaliere, franco e aperto,
e sotto vincolo di giuramento,
e come tale possano proteggerti
il cielo e il tuo valore.
MOWBRAY -
Tomaso Mowbary, Duca di Norfolk,
è il mio nome; e son qui venuto in armi,
sotto impegno di sacro giuramento,
- Dio guardi un cavaliere dal violarlo -
per difendere la mia fede in Dio,
al mio sovrano ed ai suoi successori,
dall’accusa del Duca Enrico di Hereford,
e per provare, in questa mia difesa,
ch’Enrico d’Hereford è un traditore
del mio Dio, del mio re e di me stesso.
Il cielo mi protegga,
perché mi batto pel mio buon diritto.
(Si siede)
Squillo di tromba.
Entra Enrico BOLINGBROKE, Duca di Hereford, sfidante, preceduto da un ARALDO
RICCARDO -
Maresciallo, a quel cavaliere in armi
domandate chi è, per qual ragione
viene qui corazzato in quella foggia;
in buona forma, come vuol la legge,
fategli dire sotto giuramento,
che combatte per una causa giusta.
MARESCIALLO -
(A Bolingbroke)
Dichiarami chi sei, come ti chiami,
e perché ti presenti così armato
davanti al re Riccardo, alla sua lizza;
contro chi vieni e qual è la tua causa.
Parla anche tu da vero cavaliere,
e ti protegga il cielo.
BOLINBROKE -
Enrico d’Hereford, duca di Làncaster
e Derby è il nome mio, e son qui in armi
a provar col valore del mio braccio,
e con l’aiuto dell’Onnipotente,
su questa lizza, che Tomaso Mowbray
è un malvagio e nefasto traditore
di Dio, di re Riccardo e di me stesso.
Poiché combatto per la buona causa,
m’accordi il cielo la sua protezione.
MARESCIALLO -
(Al pubblico degli astanti)
Sotto pena di morte,
che nessuno si prenda l’ardimento
di scender sul terreno della lizza,
eccetto il maresciallo e gli ufficiali
scelti a dirigere lo svolgimento
di questo nobile combattimento.
BOLINGBROKE -
Lord Maresciallo, datemi licenza
di baciare la mano al mio sovrano
e di prostrarmi innanzi a Sua maestà,
perché in questo momento Mowbray ed io
siamo due pellegrini
votati ad un asperrimo cammino.
Lasciate quindi che prendiam congedo
dai nostri amici con le buone forme
e diamo loro un affettuoso addio.
MARESCIALLO -
(Al re)
Con profondo rispetto, maestà,
lo sfidante vi porge il suo saluto
e chiede di baciar la vostra mano
e di prender così da voi congedo.
RICCARDO -
Voglio scendere io stesso
per abbracciarlo.(17) Cugino di Hereford,
come è giusta la causa
per cui ti batti, così sia la sorte
con te in questo regale cimento.
Addio, tu, sangue del mio stesso sangue;
sul quale, se oggi ti sarà versato,
caro cugino, noi potremo piangere,
ma non proporci di fare vendetta.
BOLINGBROKE -
Oh, che nessuna lacrima
per me profani nobile pupilla,
se m’accadrà di rimaner trafitto
dalla spada di Mowbray.
Io m’accingo a combattere con lui
con la risolutezza del falcone
che piomba su un uccello a farne preda.
(Al Lord Maresciallo)
Mi congedo da voi, caro signore,
(A Lord Aumerle)
da te, mio nobile cugino Aumerle;
ma non prendete questo mio commiato
come d’uno ch’è moribondo a letto,
anche se avrò a che fare con la morte,
ma d’uno che, nel vigore degli anni,
ha nel cuore la gioia della vita
e ne respira tutta la letizia.
(A Gaunt)
Ed ora, come nei banchetti inglesi,
mi volgo a dare l’ultimo saluto
al piatto più squisito della tavola,
per addolcirmi al massimo la chiusa.
O tu, terreno autore del mio sangue,
il cui giovane spirito
rinato in me con raddoppiata forza
mi leva in alto ad acciuffar pei crini
alta sulla mia testa la vittoria,
rendi più forte, con le tue preghiere,
la resistenza della mia corazza
e affila, con le tue benedizioni,
la punta della mia temprata lancia,
ch’essa trapassi come molle cera
la corazza di Mowbray,
e nuovo lustro possa derivare
alla casata di Giovanni Gaunt
dal fiero comportarsi di suo figlio.
GAUNT -
Dio t’assista nella tua buona causa.
Sii ratto nell’azione come il fulmine,
e fa’ che i colpi tuoi, due volte doppi,
cadano come tuono che stordisce
sull’elmo del mortale tuo nemico.
Fa’ divampare il giovane tuo sangue,
sii valoroso e vivi!
BOLINBROKE -
La mia innocenza e San Giorgio trionfino!
MOWBRAY -
Qualunque sorte Dio o la Fortuna
mi riservino, qui vivrà o morrà,
in fedeltà di cuore a re Riccardo
un leale ed onesto gentiluomo.
Mai con più franco cuore
prigioniero gettò via le catene
ed abbracciò il dorato suo riscatto
di quanto l’esultante anima mia
celebra in festa questo scontro d’armi.
Sovrano potentissimo, e voi pari,
miei cari amici, accogliete da me
l’augurio di anni felici per tutti.
M’accingo a sostenere questo scontro
col cuore in festa, come andassi a un gioco:
la verità rende sereno l’animo.
RICCARDO -
Addio, mio lord: io vedo nel tuo sguardo
la virtù e il valore insiem congiunti.
Lord Maresciallo, si vada alla prova:
date gli ordini vostri, e s’incominci.
MARESCIALLO -
Enrico Bolingbroke, duca di Lancaster
e signore di Hereford e Derby,
ricevi dalla mano mia la lancia,
e sia Dio difensore del diritto!
BOLINBROKE -
Saldo nella speranza come torre,
vi rispondo a gran voce: “E così sia!”.
MARESCIALLO -
(Ad un Ufficiale)
Va’ da Tomaso, Duca di Norfolk,
dàgli questa lancia.
1° ARALDO -
È qui presente Enrico duca di Hereford,
e signore di Lancaster e Derby,
a provar, sotto pena di spergiuro,
per Dio, pel suo sovrano e per se stesso,
che il duca di Norfolk, Tomaso Mowbray,
è reo di tradimento
a Dio, al suo sovrano ed a se stesso
e lo sfida a venir avanti in lizza,
per misurarsi in singolar tenzone.
2° ARALDO -
È qui presente il Duca di Norfolk,
Tomaso Mowbray, col fiero proposito,
sotto pena di falso e di spergiuro,
sia di difendere la sua persona,
sia di provare che Enrico di Hereford,
di Làncaster e Derby,
mente a Dio, al suo re ed a se stesso;
e, con animo franco e risoluto,
aspetta solo il segnale d’attacco.
MARESCIALLO -
Tromba! Venite avanti, combattenti!
La tromba suona l’inizio dello scontro, ma appena i contendenti si stanno per scontrare, il re si alza e getta a terra la mazza.(18)
Fermi! Il re ha gettato la sua mazza!
RICCARDO -
Che depongano entrambi lancia ed elmo,
e facciano ritorno ai loro scanni!
(Ai consiglieri del seguito)
Venite, voi, riuniamoci in consiglio
e squillino le trombe, fino a tanto
che non ritorneremo a palesare
le nostre decisioni a questi duchi.
Lunga fanfara, mentre il re si consulta coi suoi consiglieri. Poi, rivolto ai due:
Fatevi qui da presso ed ascoltate
la decisione del nostro consiglio:
affinché il suolo del nostro reame
non sia macchiato dal sangue prezioso
ch’esso nutrì; e poiché gli occhi nostri
hanno in orrore la crudele vista
di ferite da fratricide spade
scavate nella carne del vicino;
e come è nostra ferma convinzione
ch’è l’orgoglio, con le sue ali d’aquila,
ispiratore d’ambiziosi voli
e di cupide mire verso l’alto,
accoppiato ad astiosa gelosia,
ad indurvi a destar la nostra pace,
che, qual tenero infante addormentato
nella culla di questa nostra terra,
respira calma e serena il suo sonno
la cui brusca rottura,
pel discorde rullare di tamburi
o per l’aspro squillar d’orride trombe
o pel ferreo cozzar d’armi guerriere
può fugar dai tranquilli nostri lidi
la bella pace finora goduta,
se non addirittura trascinarci
a nuotare nel sangue di fratelli;
per tutto questo, abbiamo decretato
di bandirvi dal nostro territorio.
Tu, Hereford, cugino,
a pena la vita, col divieto
di mettere più piede in Inghilterra
a salutare i nostri bei dominii
prima che per due volte cinque estati
abbiano fatti ricchi i nostri campi,
calcherai i sentieri dell’esilio.
BOLINBROKE -
La vostra volontà sarà eseguita.
Mi sarà come unico conforto
il pensare che il sole che vi scalda
qui nel regno splende anche su di me;
ed i raggi dorati che vi dona
verranno ad appuntarsi su di me
ad indorarmi i giorni dell’esilio.
RICCARDO -
Norfolk, a te condanna anche più dura,
che pronuncio con qualche riluttanza:
il corso lento e furtivo del tempo
mai segnerà per te l’ultimo limite
del duro esilio, che non avrà termine.
“Senza ritorno”: è questa la sentenza
ch’io pronuncio per te, pena la vita.
MOWBRAY -
Dura pronuncia, mio temuto sire,
ed invero del tutto inaspettata
dalle labbra di vostra maestà.
Io m’attendevo dalle vostre mani
miglior compenso per i miei servigi
che non una ferita sì profonda
come quella d’esser buttato via
dal vostro regno, alla mercé del mondo.
Dovrò dunque cessare di parlare
l’idioma appreso nei miei quarant’anni,
il mio nativo inglese;
la mia lingua non mi sarà più utile
d’una viola o d’un’arpa senza corde;
o sarà come un magico strumento,
racchiuso nel suo astuccio,
o dato in mano, quando di là tolto,
da qualcuno incapace di suonarlo
per modularne la dolce armonia.
E così voi m’avete imprigionato
la lingua nella bocca,
sbarrata con la duplice serranda
delle labbra e dei denti…
L’ottusa, sterile, crassa ignoranza
sarà così il mio solo carceriere,
posto a guardia di questa mia impotenza.
Sire, son troppo vecchio
per fare le graziucce ad una balia;
son troppo in là negli anni,
per ritornare a far lo scolaretto.
Quale condanna è, dunque, questa vostra
se non ad una morte silenziosa,
che priva la mia lingua
di fiatare l’idioma suo natale?
RICCARDO -
Non implorare compassione. È inutile.
La decisione è presa.
Ogni lagnanza ormai è fuori tempo.
MOWBRAY -
E dunque dovrò volgere le spalle
alla luce che ho qui, nel mio paese,
per andare a fissare la mia dimora
all’ombra d’una notte senza fine…
RICCARDO -
Volgiti intanto nuovamente a me,
e fammi il giuramento che ti chiedo
e che dovrai portarti via con te.
(Anche rivolto a Bolingbroke)
Posate entrambi qui, sulla mia spada(19)
di re le vostre mani di proscritti,
e per la fede che dovete a Dio
- quella dovuta a noi, vostro sovrano,
l’abbiamo messa al bando insieme a voi -
giurate d’osservare la consegna
che qui solennemente vi facciamo:
mai non dovrete - e in ciò vi sian d’aiuto
Dio e la vostra lealtà di sudditi -
unirvi in alleanza nell’esilio,
mai l’uno riveder dell’altro il volto;
né mai comunicare per iscritto;
mai scambiarvi un saluto;
mai cercare di mitigar, tra voi,
la torbida tempesta di quell’odio
che v’ha resi così nemici in patria;
mai associarvi nel comune intento
di tramare, di ordire, complottare
contro di noi, o contro il nostro stato,
i nostri sudditi, la nostra terra.
(I due posano le mani sull’elsa della spada del re)
BOLINGBROKE -
Lo giuro.
MOWBRAY -
Anch’io, d’osservar tutto questo.
BOLINGBROKE -
Norfolk, ti dico addio, come a un nemico.(20)
A quest’ora, se avesse il nostro re
acconsentito a che noi ci battessimo,
una delle nostre anime,
si troverebbe ad aleggiar nell’aria
bandita dalla fragil sepoltura
del suo corpo, così com’è bandito
il nostro corpo dalla nostra terra.
Ma prima di lasciare questo regno,
confessa in pubblico i tuoi tradimenti;
non trascinarti dietro, sì lontano
- perché lontano tu ne devi andare -
il fardello d’un’anima colpevole.
MOWBRAY -
No, Bolingbroke; s’io fui mai traditore,
sia cancellato per sempre il mio nome
dal libro della vita, ed io bandito
sia dal cielo, come lo son da qui.
Ma quello che sei tu ben lo sa Dio,
e tu ed io, ed anche troppo presto
il re dovrà riceverne cagione,
temo, di gran dolore.
(Al re)
Addio, maestà. Non c’è nessuna strada,
d’ora in avanti, ch’io possa smarrire,
se non quella che mena all’Inghilterra:
ché mia strada sarà l’intero mondo.
(Esce)
RICCARDO –
(A Gaunt)
Zio, scorgo nello specchio dei tuoi occhi
il riflesso del tuo cuore angosciato,
e la tristezza che ti vaga in viso
ti guadagna un abbuono di quattro anni
dal numero di quelli del suo esilio.
(A Bolingbroke)
Saranno solo sei gelidi inverni,
e tornerai in patria benvenuto.
BOLINGBROKE -
Che lungo tempo in una paroletta!
Quattro torpidi e letargosi inverni,
quattro ubertose e pingui primavere
fatte svanire con una parola:
tale fiato hanno i re!…
GAUNT -
Ringrazio il mio sovrano
che per riguardo a me,
accorcia di quattr’anni
l’esilio di mio figlio. Ma, purtroppo,
io ne trarrò modesto beneficio,
ché prima che i sei anni da scontare
abbian visto mutar le loro lune
e avvicendarsi le loro stagioni,
la mia lucerna, ormai senza più olio,
con la sua luce vieppiù affievolita
sarà già spenta dal peso degli anni
e della notte che non ha più fine;
il mozzicone della mia candela
sarà tutto bruciato e consumato,
e il sopraggiunger della cieca morte
non mi lascerà più veder mio figlio.
RICCARDO -
Oh, zio, molti anni ancora hai tu da vivere.
GAUNT -
Ma non un sol minuto
di più che tu, re, possa concedermi.
Tu puoi spezzare il corso dei miei giorni
infliggendomi la più cupa pena,
e privarmi altresì delle mie notti,
ma non mi potrai dare un sol mattino;
puoi aiutare la mano del tempo
a scanalarmi la faccia di rughe,
ma non potrai fermar nessuna ruga
ch’esso possa tracciar col suo trascorrere.
Con lui la tua parola
è moneta sonante alla mia morte,
ma quando io sia morto,
non ti potrà bastar tutto il tuo regno
a riscattar da lui il mio respiro.
RICCARDO -
Il bando di tuo figlio è scaturito
da maturo consiglio, cui tu stesso
hai avuto parola. Perché dunque
ti mostri così scuro e risentito
con la nostra giustizia?
GAUNT -
Cose dolci al palato
si fanno acide alla digestione.
1 comment