M’avete consultato come giudice:
sarebbe stato meglio domandarmi
di parlar come padre.
Oh, si fosse trattato d’un estraneo
invece di mio figlio, assai più facile
mi sarebbe riuscito, assai più facile
sarei io stato a sminuir la colpa.
Ho voluto fuggir nel mio verdetto
ogni sospetto di parzialità,
e con esso ho distrutto la mia vita.
M’aspettavo che alcuno tra di voi
dicesse ch’ero stato troppo duro
nel bandire una parte di me stesso;
ma voi alla mia lingua riluttante
consentiste di far che, controvoglia,
io mi recassi questo grave torto.

 

RICCARDO -

(A Bolingbroke)
Addio, cugino.
(A Gaunt)
Zio, dàgli congedo.
Noi l’abbiamo bandito per sei anni.
Deve andare.

 

Squillo di tromba.
(Esce Re Riccardo con seguito)

 

AUMERLE -

Addio, cugino Hereford.
Ciò che non mi puoi dire qui, in presenza,
me lo dirai per lettera
dal luogo dove andrai a stabilirti.

 

MARESCIALLO -

Io non prendo congedo, monsignore,
perché cavalcherò al vostro fianco
fin dove terraferma lo consente.

 

GAUNT –

(A Bolingbroke)
Perché sei tanto avaro di parole,
che non rendi il saluto a questi amici?

 

BOLINGBROKE -

Troppo poche son quelle che ho per voi
per congedarmi, quando di parole
la mia lingua dovrebb’essere prodiga
per dar voce alla pena che m’ambascia.

 

GAUNT -

Quel che ti affligge è soltanto il pensiero
di rimaner assente tanto tempo.

 

BOLINGBROKE -

È così infatti: assente la letizia,
sarà presente solo l’afflizione.

 

GAUNT -

Che son sei inverni? Passano veloci.

 

BOLINGBROKE -

Per la gente felice;
ma il dolore di un’ora ne fa dieci.

 

GAUNT -

E tu chiamalo un viaggio di piacere.

 

BOLINGBROKE -

Anche a chiamarlo, impropriamente, tale,
il mio cuore sospirerà lo stesso,
perché non potrà a meno di sentirlo
una forzata peregrinazione.

 

GAUNT -

Al sordo andare dei tuoi passi stanchi
guarda come una specie di castone
nel quale incastonare, a impreziosirlo,
il gioiello del tuo ritorno a casa.

 

BOLINGBROKE -

Ahimè, che invece ogni tedioso passo
non farà che portarmi col pensiero
a quale immenso mondo mi separi
dai gioielli che amo. La mia sorte
sarà di fare un lungo apprendistato
per cammini stranieri, ed alla fine,
riottenuta la libertà, vantarmi
di non essere stato niente più
che un semplice apprendista del dolore.(21)

 

GAUNT -

Tutti i luoghi che il cielo col suo sguardo
visita son felici porti e approdi
per il saggio. Necessità t’insegni
questo: che pari alla necessità
non esiste virtù. Fa’ di pensare
che non è stato il re a bandire te,
ma tu il re. Il dolore è più pesante
per chi lo porta con animo fiacco.
Va’, pensa che a mandarti dove andrai
sia stato io, a procurarti onore,
non che t’abbia esiliato il tuo sovrano;
o immagina magari che nell’aria
incomba una vorace pestilenza
e tu vada fuggendo in altri luoghi
alla ricerca d’un clima più sano.
Pensa a ciò ch’è più caro alla tua anima,
e immagina che stia là dove vai,
non già da dove vieni;
immagina che il canto degli uccelli
sia musica e che l’erba che calpesti
sia la gran sala delle udienze a corte
parata a festa, i fiori belle dame
ed i tuoi passi leggiadre scansioni
di misure di danza.
Il dolore ringhioso ha meno forza
di mordere se l’uomo se ne irride
e non gli dà importanza.

 

BOLINGBROKE -

Oh, ma chi può tenere la brace in mano
solo pensando alle nevi del Càucaso?
Chi può placare i morsi della fame
solo pensando ad un lauto banchetto?
O voltolarsi nudo nella neve
a dicembre pensando all’afa estiva?
Ah, no, la sola immagine del buono
non fa che acuire il senso del cattivo.
Il dolore di denti è più straziante
quand’esso rode dentro,
senza che possa incidersi l’ascesso.

 

GAUNT -

Vieni figlio, ti metto sulla strada.
Avessi l’età tua e i tuoi motivi,
non resterei un sol minuto ancora.

 

BOLINGBROKE -

Allora, suolo d’Inghilterra, addio!
Addio, mia dolce terra,
madre, nutrice che ancor mi sorreggi!
Dovunque io vada, pur se messo al bando,
di questo almeno potrò menar vanto:
d’esser di genuino ceppo inglese!

(Escono)

 

 

SCENA IV

 

Londra. La grande sala della corte.

 

Entrano RE RICCARDO, BAGOT e GREEN da una parte; il DUCA DI AUMERLE dalla parte opposta.

 

RICCARDO - (A Bagot e a Green, come continuando un discorso)

 

L’abbiamo già osservato.(22)
(Ad Aumerle)
Cugino Aumerle, fino a che punto
accompagnasti l’altezzoso Hereford
per la sua strada?

 

AUMERLE -

“L’Altezzoso Hereford”
- se è così che vi piace chiamarlo -
l’ho accompagnato fino dove ha inizio
la via maestra, e là l’ho salutato.

 

RICCARDO -

E, dimmi, quante lacrime d’addio
furon versate da entrambe le parti?

 

AUMERLE -

Da parte mia, nessuna, in verità;
solo che un forte vento di nord-est
che soffiava mordendoci la faccia
ci ridestò l’umore che dormiva,
dando così al bugiardo nostro addio
la grazia d’una lacrima.

 

RICCARDO -

E che ti disse il nostro cuginetto
sul punto che vi siete separati?

 

AUMERLE -

“Addio”, mi disse, senza nulla aggiungere.
Al che il mio cuore, forse avendo sdegno
che la lingua potesse profanare
la parola, mi suggerì di fingere
d’esser talmente preso dall’angoscia,
che le parole parvero sepolte
nella tomba del mio grande dolore.
Sacramento! Se la parola “addio”
avesse avuto il magico potere
d’allungar l’ore e aggiunger anni ed anni
a quelli del suo troppo breve esilio,
di “addio” ne avrebbe ricevuti a iosa!
Ma poiché questo non era possibile,
egli da me non s’ebbe alcun addio.

 

RICCARDO -

Egli è nostro cugino, cugino Aumerle;
ma c’è da dubitare seriamente
che quando il tempo l’avrà richiamato
dall’esilio, quel caro cuginetto
brami di rivedere i suoi parenti.
Ho avuto modo di osservare io stesso,
e con me anche Bagot, Green e Bushy,
com’ei riesca corteggiare il popolo,
e immergersi nel fondo dei lor cuori
con umili ed affabili maniere;
e prodigarsi a loro in grandi gesti
corteggiando quei poveri artigiani
con l’arte del sorriso,
o col mostrar di sopportar paziente
il destino di questa sua condanna,
quasi a voler portar con sé in esilio
il loro affetto… Si tolse il cappello
davanti ad una povera ostricaia;
due carrettieri gli fanno l’augurio
“Che Dio v’assista!”, e s’hanno, in contraccambio,
l’omaggio d’una sua genuflessione,
con un bel: “Grazie, miei compatrioti,
miei cari amici!”; quasi a voler dire
che l’Inghilterra è sua per reversione(23)
e ch’egli è la più prossima speranza
dei nostri sudditi.

 

GREEN -

Beh, se n’è andato,
e vadano con lui questi pensieri.
Ora s’ha da pensare, mio sovrano,
ad adottare urgenti decisioni
contro i ribelli in armi nell’Irlanda,
prima che un ulteriore nostro indugio
possa offrir loro, a tutto nostro danno,
l’agio di rifornirsi d’altri mezzi.

 

RICCARDO -

A questa guerra andremo di persona.
E poiché per tener troppo gran corte,
e per essere troppo liberali,
le nostre casse sono alleggerite,
siamo costretti a dare in affittanza
l’intero nostro regno; il suo provento
servirà a finanziare questa impresa.
E se ciò non dovesse ancor bastare,
lasceremo ai ministri carta bianca
per accertarsi dove sono i ricchi,
sottoporli a pagare forti tasse,
e mandarci i ricavi del prelievo,
per fronteggiar le spese della guerra.
Noi partiremo per l’Irlanda subito.

Entra BUSHY
Che nuove, Bushy?

 

BUSHY -

Il vecchio Gaunt, signore,
è in grave stato: un malore improvviso,
e mi manda di volo a Vostra Altezza
per chiedervi di andarlo a visitare.

 

RICCARDO -

Dov’è ricoverato?

 

BUSHY -

A Ely House.

 

RICCARDO -

O Dio, ispira adesso il suo dottore
che l’aiuti a calarsi nella tomba.
La sola fodera dei suoi forzieri
può servire a confezionar casacche
per buona parte dei nostri soldati.
Signori, andiamo tutti a visitarlo.
In tutta fretta, ma pregando Iddio
di farci arrivar tardi.(24)

 

TUTTI -

E così sia.

 

(Escono)

 

ATTO SECONDO

 

 

 

SCENA I

 

Londra. Ely House.

 

GIOVANNI DI GAUNT è a letto infermo: con lui è il fratello EDMONDO LANGLEY, Duca di York

 

GAUNT -

Che dici, il Re verrà al mio capezzale,
ch’io possa spender l’ultimo mio fiato
ad istillare qualche onesto monito
alla sua irrequieta giovinezza?

 

YORK -

Non datevene cruccio,
non fate a gara con il vostro fiato;
al suo orecchio ogni consiglio è vano.

 

GAUNT -

Oh, dicon che la voce di chi muore
attragga le coscienze
come l’eco d’un’armonia profonda;
che le parole di chi n’ha più poche
raramente son pronunciate invano:
esala dalla bocca verità
chi vi dà fiato nell’estremo duolo.
Chi sta sul punto di tacer per sempre
è più ascoltato d’altri
cui giovinezza e vita spensierata
appresero a parlare per blandire.(25)
S’imprime più l’estremo nostro istante
che tutto il resto della nostra vita.
Il sole che tramonta all’orizzonte,
è una musica all’ultime sue note,
è l’ultimo sapore della torta,
più dolce proprio perché è alla fine,
destinato a restare nel ricordo
più di quanto si sia prima gustato.
Se Riccardo non ascoltò consigli
da me vivo, c’è almeno da sperare
che le parole dello zio morente
valgano adesso a scuotergli l’orecchio.

 

YORK -

No, quell’orecchio è tutto rintronato
dai suoni della bassa piaggeria:
le lodi il cui sapore è sempre dolce
anche all’orecchio degli uomini saggi;
le canzoni lascive,
al velenoso suono delle quali
la gioventù dà volentieri orecchio;
o l’ultime notizie delle mode
venute in voga nell’altera Italia,
la cui maniera segue scimmiottando
con passo zoppo e in vile imitazione,
questo nostro retrogrado paese.
C’è forse qualche frivolezza al mondo
- per quanto vile e bassa, purché nuova -
che non gli venga soffiata all’orecchio?
Tardi giunge pertanto ogni consiglio
per trovare un orecchio che l’ascolti
là dove volontà
è sempre ammutinata contro il senno.
Rinunciate a indicar la giusta via
a chi vuol scegliersi la sua da solo.
Vi manca il fiato, e volete sprecare
quel poco che vi resta?

 

GAUNT -

Mi sento come un profeta ispirato
e, nel trarre il mio ultimo respiro,
formulo su di lui questo presagio:
la sua sfrenata, furiosa deboscia
è una fiammata che non può durare;
perché i fuochi violenti
divorano se stessi in poco tempo;
le pioggerelle durano di più
dei grossi rumorosi temporali;
cavallo cui sia dato troppo sprone
è presto stanco; cibo trangugiato
con ingordigia strozza chi lo mangia;
la vanità, insaziato cormorano,
consumati i suoi mezzi, si fa preda
subito di se stessa.
Questo superbo nostro regal trono,
quest’isola scettrata,
questa terra d’auguste maestà,
questo seggio di Marte che Natura
s’è costruita a farne sua difesa
contro l’infetta mano della guerra;
questa felice nostra stirpe d’uomini,
questo piccolo mondo, questa gemma
incastonata nell’argenteo mare
che la protegge come un alto vallo
o il profondo fossato d’un castello
dall’invidia di terre men felici;
quest’angolo di mondo benedetto,
questo nostro paese, questo regno,
quest’Inghilterra, nostra alma nutrice,
questo grembo prolifico di principi
di stirpe regia e per questo temuti,
illustri per natali, celebrati
per le gesta compiute fuori casa
al servizio della cristiana fede
e dell’autentica cavalleria
fin là, dove, nella Giudea caparbia,
sta il sepolcro del Redentor del mondo,
il figlio di Maria benedetta;
questa patria di tante anime fulgide,
questa cara, adorata nostra terra,
cara, per la sua gloria, a tutto il mondo,
ora è data in affitto,
- e mi vien da morire solo a dirlo -,
al pari d’un qualunque fondo rustico
o d’una fattoria da quattro soldi.
E così l’Inghilterra,
cinta da questo trionfante mare,
la cui costa, con l’alte sue scogliere
respinge l’invido, perenne assedio
dell’equoreo Nettuno,
è ora cinta solo di vergogna,
di scartafacci imbrattati d’inchiostro
e di vari strumenti d’ipoteca
vergati su marcite pergamene.
Questa nostra Inghilterra,
usa da sempre a conquistare gli altri
fa con vergogna conquista di sé.
Ah, potesse svanire un tale obbrobrio
con lo svanire di questa mia vita,
qual morte lieta sarebbe la mia!

 

Entrano RE RICCARDO, la REGINA, AUMERLE, BUSHY, GREEN, BAGOT, ROSS e VILLOUGBY

 

YORK -

Il re è qui. Cercate di trattare
con molto tatto la sua giovinezza;
i puledri son già per sé focosi,
se pungolati, subito s’impennano.

 

REGINA -

Come sta il nobile nostro zio Lancaster?

 

RICCARDO -

Caro zio, come state?
Come si sente il nostro vecchio Gaunt?

 

GAUNT -

Come s’addice bene questo nome
al mio stato presente!… “Vecchio Guanto”:(26)
e smunto sono, e logoro dagli anni.
È che dentro di me
il dolore ha osservato e mantenuto
un tedioso digiuno; e chi digiuna
senza ridursi smunto e macilento?
Troppo tempo ho vegliato al capezzale
di questa nostra assonnata Inghilterra,
e lo star troppo svegli fa magrezza
e chi è magro ha l’aspetto macilento.
La gioia di cui godon gli altri padri
- la vista dei lor figli -
osserva in me un digiuno rigoroso;
e tu, imponendomi tale digiuno,
m’hai reso così smunto ed emaciato.
Ed ora vo preciso come un guanto
nella tomba, che mi sta come un guanto
la cui cava ventraia
nient’altro eredita da me che ossa.

 

RICCARDO -

Possibile che un uomo così infermo
scherzi con tanta arguzia sul suo nome?

 

GAUNT -

È la stessa disgrazia
che si diverte a beffarsi di sé.
Tu vuoi uccidere il mio nome in me,(27)
ed io mi faccio beffa del mio nome,
per lusingarti, possente sovrano.

 

RICCARDO -

Oh, bella! Devon forse i moribondi
lusingare chi loro sopravvive?

 

GAUNT -

Al contrario: sono i sopravviventi
a lusingar chi muore..

 

RICCARDO -

E allora perché tu, che stai morendo,
affermi di volermi lusingare?

 

GAUNT -

Perché chi sta morendo qui sei tu,
anche s’io son, tra i due, il più malato.

 

RICCARDO -

Io son sano e respiro, caro zio.

 

GAUNT -

È vero, ma Colui che m’ha creato
sa com’io veda quanto tu stia male;
anche se, da malato, io veda poco.
Il tuo letto di morte è il tuo paese,
e tu vi giaci sopra
ammalato nella reputazione;
e affidi, da malato sprovveduto,
la cura del tuo corpo consacrato
ai medici che primi t’han ferito.
Nel breve cerchio della tua corona
sono annidati mille adulatori;
è un cerchio non più grande del tuo capo,
eppure, chiuso in così angusto limite,
c’è un guasto grande come la tua terra.(28)
Oh, se tuo nonno,(29) con occhio profetico,
avesse mai potuto antivedere
la rovina della sua discendenza
ad opera del figlio di suo figlio,
non t’avrebbe permesso di raggiungere
questo potere che è la tua vergogna;
avrebbe fatto in modo di privartene
prima che tu ne venissi in possesso,
ché tu stesso non sei or posseduto
al punto di destituir te stesso.
Fossi tu pure re del mondo intero,
sarebbe già per te grande vergogna
concedere in affitto questo regno;
ma poiché il mondo del quale sei re
è solo questa povera Inghilterra,
è tanta più vergogna
coprirla di vergogna in questo modo.
Ma tu dell’Inghilterra non sei il re,
sei solo il suo padrone-proprietario.
Ora il tuo stato, in termini legali,
è quello d’uno soggetto alla legge,
e tu…

 

RICCARDO -

E tu, lunatico svampito,
che ti fai forte nella presunzione
del privilegio che ti dà la febbre,
ardisci col tuo gelido rabbuffo
di far impallidir la nostra guancia,
scacciando dalla sua nativa sede
il regal nostro sangue?…
Per la legittima regal maestà
del mio trono, non fossi tu il fratello
del figlio di Edoardo, il grande re,
codesta tua linguaccia
che ti rotola sciolta nella testa
farebbe rotolare quella testa
via da quelle tue spalle irriverenti!

 

GAUNT -

Non risparmiarmi, non avere scrupoli,
perch’io sia figlio dello stesso sangue
di tuo padre Edoardo, mio fratello!
Tu come il pellicano,(30)
quel sangue l’hai spillato già ben bene,
e tracannato fino a ubriacartene.
L’anima pura e innocente di Gloucester,
mio fratello(31) - che sia beata in cielo,
mi può esser d’aiuto a dimostrare
che non avesti remora a spillare
anche il sangue di tuo cugino Edoardo.(32)
Allèati col male che m’affligge,
e sia pari la tua efferatezza
all’adunca vecchiezza,
che tu possa recidere d’un colpo
un fiore ch’è d’assai tempo avvizzito.
Vivi nell’ignominia,
ma l’ignominia non muoia con te:
queste parole sian, da qui in avanti,
il tuo tormento.
(Agli assistenti)
Portatemi al letto,
per poi portarmi assai presto alla tomba.
Resti ad amar la vita
chi da essa riceve amore e onore!

(Esce portato dai servi)

 

RICCARDO -

E muoia la vecchiaia e l’umor nero!
Tu li possiedi entrambi,
ed entrambi s’addicono alla tomba.

 

YORK -

Sire, mettete questi suoi scongiuri
nel conto del suo male e dell’età.
Io vi posso giurar sulla mia vita,
ch’egli vi vuole bene e vi tien caro
almeno al pari di suo figlio Enrico,
il duca d’Hereford, se fosse qui.

 

RICCARDO -

Dici giusto: qual è l’amore di Hereford,
tale è il suo; e così per loro è il mio.
E tutto vada come deve andare.

Entra NORTHUMBERLAND

 

NORTHUMBERLAND -

Altezza, il vecchio Gaunt si raccomanda
alla vostra maestà.

 

RICCARDO -

Che cosa dice?

 

NORTHUMBERLAND -

Più nulla. Ormai per lui è detto tutto.
La sua lingua è strumento senza corde.
Ormai parole, vita e tutto il resto
il vecchio Lancaster l’ha consumato.

 

YORK -

Sia ora York il prossimo
a fare simigliante bancarotta.
La morte, pur nel suo tetro squallore,
pone un fine agli affanni dei mortali.

 

RICCARDO -

Il frutto più maturo cade prima;
ora è toccato a lui, consumato
è il suo tempo; a noi il cammino
rimane ancora tutto da percorrere.
Basta perciò di questo.
Ora pensiamo alla guerra d’Irlanda.
Dobbiamo sradicare da quell’isola
quei loro rozzi, setolosi kerni,
che vivon come bestie velenose
dove nessun veleno cresce e vive.(33)
E poiché questa poderosa impresa
esige un grosso sforzo finanziario,
decretiamo fin d’ora, a farvi fronte,
la confisca di tutto il vasellame,
del denaro contante e delle rendite
che furono di questo nostro zio.

 

YORK -

Ah, fino a quando dovrò pazientare?
Fino a quando la mia lealtà di suddito
mi darà ancor la forza
di patire in silenzio l’ingiustizia?
Né l’assassinio di Tomaso Gloucester,
né l’esilio di Bolingbroke,
né le atroci insolenze contro Gaunt,
né il veto posto alle nozze d’Enrico,(34)
né la mia stessa caduta in disgrazia
sono valsi finora ad inasprire
la paziente espressione del mio volto,
o a tracciarvi una ruga di dispetto
contro il mio re. Son l’ultimo dei figli
di quel nobile padre ch’era Edoardo,(35)
e dei quali tuo padre era il maggiore.
Mai leone fu più feroce in guerra,
mai agnello più mansueto in pace
di quel giovane gentiluomo e principe.
Sue sono le fattezze del tuo viso,
ed anche come il tuo era l’aspetto
quando aveva la stessa tua età;
e quando gli veniva di accigliarsi
contro qualcuno, era contro i francesi,
mai contro i suoi congiunti.
La sua nobile mano dispensava
ciò che aveva egli stesso conquistato;
mai dispensò quello che conquistato
aveva il vittorioso padre suo.
Né giammai le sue mani
si macchiarono del sangue di parenti;
l’ebbe sempre arrossate
di quello dei nemici di sua gente.
Ohimè, Riccardo, questo vecchio York,
s’è fatto trascinar troppo lontano
portato dal dolore;
non farebbe altrimenti un tal confronto…
(Singhiozza)

 

RICCARDO -

Oh, oh, che ti succede, zio? Che hai?

 

YORK -

Oh, mio Sire, vogliate perdonarmi,
se vi piaccia; ma se non vi piacesse,
son contento lo stesso.
Perché dunque volete confiscare,
per poi ridurli nelle vostre mani,
i beni mobili e le proprietà
spettanti in successione da suo padre
all’esiliato figlio Enrico d’Hereford?
Forse che non è morto il vecchio Gaunt?
Forse suo figlio Enrico non è vivo?
Non era forse Gaunt un uomo giusto?
Forse non è leale Enrico d’Hereford?
Giovanni Gaunt non meritava eredi?
E non è forse degno il figlio?
Private Hereford dei suoi diritti,
ed avrete spogliato il vostro tempo
degli statuti e delle guarentigie
che sono suoi per antico retaggio;
fa’ che domani non sia come l’oggi,
non essere te stesso. Giacché a quale titolo
sei re se non per un diritto antico
di chiara discendenza e successione?
Ora, davanti a Dio,
e Dio non voglia che questo s’avveri!,
se tu confischi ingiustamente a Enrico
quanto deve venirgli per diritto,
chiamando in revoca la concessione
delle reali lettere patenti,
sì ch’ei non possa più rivendicare
pel tramite dei suoi procuratori
la consegna dei beni a lui spettanti,
e gli rifiuti di offrirti l’omaggio,(36)
t’attirerai addosso mille rischi,
perderai mille cuori ben disposti,
e spronerai il mio paziente spirito
a nutrire pensieri incompatibili
con l’onore e la lealtà di suddito.

 

RICCARDO -

Tu puoi pensare, zio, quello che vuoi;
ma noi procederemo a confiscargli
denaro, vasellame, beni e tutto.

 

YORK -

In questo caso, io non ci starò.
Non contare su me. Addio, mio sire.
Che avverrà dopo, nessuno può dire;
è facile, comunque, prevedere
che dal male non possa uscire il bene.(37)
(Esce)

 

RICCARDO -

Bushy, corri dal conte di Wiltshire
e digli di venire ad Ely House,
per sistemare la nostra faccenda.(38)
Partiamo per l’Irlanda posdomani,
ed è gran tempo, credo. In nostra assenza,
conferiamo l’incarico a zio York
di Lord Governatore d’Inghilterra,
perché è probo e ci volle sempre bene.
Venite, mia regina:
domani sarà forza separarci.
Allegra, ci rimane poco tempo.
(Escono il Re, la Regina, Aumerle, Bushy, Bagot e Green)

 

NORTHUMBERLAND -

Così, signori, Lancaster è morto.

 

ROSS -

E vivo a un tempo, ché duca è suo figlio.

 

WILLOUGHBY -

Per il titolo; per gli averi, no.

 

NORTHUMBERLAND -

Lo sarebbe per l’una e l’altra cosa,
se la giustizia avesse lungo corso.

 

ROSS -

Ho il cuore gonfio; ma, povero cuore,
sarà costretto a crepare in silenzio
prima di liberarsi dal suo peso
e mandar la mia lingua in libertà.

 

NORTHUMBERLAND -

Aprilo, invece; di’ quello ch’hai dentro;
e si secchi la lingua
a chi riferirà le tue parole
per farti danno.

 

WILLOUGHBY -

Se quel che vuoi dire
è cosa che riguarda il Duca di Hereford,
coraggio, parla pure con franchezza
e senza remore, perché al mio orecchio
non par vero di udire finalmente
qualcuno che gli parla in suo favore.

 

ROSS -

Favori, in verità, non posso fargliene,
salvo che non prendiate come tale
la pietà che m’ispira la sua sorte,
defraudato e spogliato dei suoi beni.

 

NORTHUMBERLAND -

È una vergogna, dico, avanti a Dio,
che noi si debba star passivamente
a subir l’onta di tanti soprusi
a un principe del sangue come egli è,
e a tanti altri di nobile lignaggio,
in questo nostro paese in sfacelo.
Il re non è più lui.
È pervertito dal maligno influsso
di bassi adulatori: tutta gente,
che per nient’altro che perché ci odia,
ci potrebbe accusar di ciò che vuole
e il re, senza alcun dubbio, a secondarli
ci punirebbe assai pesantemente
nella vita, nei figli e loro eredi.

 

ROSS -

Ha già spogliato con odiose tasse
il popolo, alienandosi del tutto
il cuore della gente.
È andato a rivangare antiche cause
per far pagare ammende a molti nobili,
perdendone del tutto l’amicizia.

 

WILLOUGHBY -

E ogni giorno si vanno escogitando
nuovi prelievi, come assegni in bianco,(39)
benevolenze,(40) e non so più che cosa.
Ma nel nome di Dio, questo denaro
si può sapere dove va a finire?

 

NORTHUMBERLAND -

Non certo a finanziare nuove guerre,
perché di guerre non ne ha fatte più,
preferendo con vili compromessi,
cedere tutto quanto i suoi degni avi
avevan conquistato combattendo.

 

ROSS -

E ha dato il regno in affitto a Wiltshire.

 

WILLOUGHBY -

Un re che ha dichiarato fallimento
come un ignobile bancarottiere!

 

NORTHUMBERLAND -

Rovina e infamia gli pendon sul capo.

 

ROSS -

Ora, per questa sua guerra in Irlanda,
malgrado le pesanti tassazioni,
non ha saputo trovare altri mezzi
che derubarli al duca che ha bandito.

 

NORTHUMBERLAND -

Che, per giunta, è suo nobile parente.
O re degenere!… Però, signori,
noi ce ne stiamo tutti qui, tranquilli,
a udire il sibilar della tempesta
che s’approssima, e non facciamo nulla
per cercarci un riparo.
Vediamo il vento sbatacchiar le vele
con paurosa violenza, e stiamo fermi,
senza togliere l’acqua dallo scafo,(41)
andando incontro a sicuro naufragio.

 

ROSS -

Che ci attenda il naufragio, lo sappiamo;
ma come fare a scampare il pericolo,
se siamo stati noi a provocarlo,
per aver tollerato le sue cause?

 

NORTHUMBERLAND -

Beh, direi proprio che non è così;
ché dalle cupe occhiaie della morte
intravvedo spuntare ancor la vita.
Ma non m’arrischio a fare previsioni
sul tempo della nostra redenzione.

 

WILLOUGHBY -

Parla, Northumberland, liberamente!
Perché noi tre non siamo che un sol uomo,
e parlando fra noi,
le tue parole restano segrete,
come nella tua mente i tuoi pensieri.
Su, non aver paura, parla franco!

 

NORTHUMBERLAND -

Ecco, allora: m’è giunta informazione
da Port le Blanc, una baia in Bretagna,
che il duca d’Hereford, con altri nobili
- Lord Rinaldo di Cobham,
Tomaso figlio del conte di Arundel
e suo erede, che or non è molto
aveva rotto con il Duca di Exeter
suo fratello, Arcivescovo di Canterbury;
Sir Thomas Erpingham, Sir Thomas Ramston,
Sir John Norbery, Sir Robert Waterton,
e Francis Quoint ed altri grossi nomi -
tutti questi, dal Duca di Bretagna
ben riforniti di otto grosse navi
e di tremila armati, fanno rotta
a tutta vela verso queste coste
e contan di toccar la nostra terra
tra breve su una spiaggia a settentrione;
e sarebbero forse già sbarcati,
se non che vogliono prima aspettare
la partenza del re verso l’Irlanda.
E dunque se vogliamo liberarci
dal giogo che ci opprime come schiavi;
se vogliamo infoltir di nuove penne
l’ala ferita della nostra patria;
riscattar la corona sfigurata
dal marchio dell’ignobile ipoteca;
forbire il regal scettro dalla polvere
che ne offusca l’avita lucentezza,
e fare che l’augusta maestà
abbia a riprendere il suo vero volto,
non c’è più da indugiare: tutti insieme
con me, di corsa, verso Ravenspurgh!
Ma se sentite che vi manca il cuore,
restate e zitti! Ci vado da solo.

 

ROSS -

Macché, nessun indugio! Via, a cavallo!
Questi tuoi dubbi, mio caro Northumberland,
sollevali soltanto a chi ha paura.

 

WILLOUGHBY -

Io sarò là per primo,
se il mio cavallo reggerà lo sforzo.
(Escono)

 

 

SCENA II

 

Il castello di Windsor

 

Entrano la REGINA, BUSHY e BAGOT

 

BUSHY -

Vi vedo d’umor triste, mia signora.
Quando v’accomiataste da Sua Grazia
gli prometteste di metter da parte
l’opprimente mestizia,
umore che fa male alla salute,
e di serbare un umore piacevole.

 

REGINA -

Lo promisi per compiacere al Re;
per compiacere a me stessa, non posso.
E del resto non vedo altro motivo
per dare il benvenuto a un tal ospite
com’è questa tristezza,
se non l’aver da poco detto addio
ad un ospite dolce, al mio Riccardo.
Eppure sento avvicinarsi a me
una pena che non è ancora nata,
ma è già matura in grembo alla Fortuna,
perché l’anima mia intimamente,
trasale, trepida, per un nonnulla.
C’è qualche cosa che l’affligge più
del distacco dal suo signore, il re.

 

BUSHY -

L’oggetto d’ogni pena ha mille ombre
che sembrano dolore, ma non sono.
È che l’occhio di chi soffre una pena,
attraverso le lacrime che accecano,
scompone una visione in più soggetti,
come succede di certe pitture
che se sono guardate di prospetto
non offrono che immagini indistinte,
mentre presentano netti contorni
se guardate di sghembo o di traverso.(42)
Così la vostra dolce maestà,
guardando tra le lacrime
la partenza del re, vostro signore,
scopre forme che, viste senza lacrime,
son ombre di qualcosa che non c’è.
Quindi, tre volte graziosa regina,
più di quanto richieda la partenza
del re, vostro signore, non piangete.
Non si vede altra causa;
o, se mai si vedesse, non è altro
che l’effetto ingannevole dell’occhio
che piange come vere certe cose
che sono invece solo immaginarie.

 

REGINA -

Sarà così, ma il cuore, nel mio intimo,
insiste a dire ch’è tutt’altra cosa.
Sia come sia, mi sento tutta presa
da una tristezza a tal punto opprimente,
che se pur mi proponga, ragionando,
di non farmi venir pensieri tristi,
basta un niente per ritornar depressa,
e mancare.

 

BUSH -

Non è che fantasia,
questa vostra, graziosa mia signora.

 

REGINA -

No, non è questo; l’idea del dolore
deriva sempre da un dolore vero,
se pur remoto; il mio non è così:
non c’è nulla di cui io possa dire
che ha generato in me quel qualche cosa
che m’affligge; e nemmeno c’è qualcosa
ch’io possa dire ch’abbia generato
quel nulla. Cosa sia poi questo nulla,
non lo so, non riesco a dargli un nome.
So solo ch’è una pena senza nome.

 

Entra GREEN

 

GREEN -

Dio salvi la maestà della regina!
E ben trovati a voi, cari signori!
Spero che il re non sia salpato ancora
per l’Irlanda.

 

REGINA -

Perché speri tu questo?
Meglio sperare invece che lo sia:
rapidità esigono i suoi piani;
nella rapidità sta la speranza.
Ma perché speri che non sia partito?

 

GREEN -

Perché, quale unica nostra speranza,
potrebbe richiamare le sue truppe,
e render disperata la speranza
di un nemico che ha messo saldo piede
su questa terra. Lo sbandito Bolingbroke
s’è revocato il bando da se stesso
e con armi brandite a dar battaglia
è approdato felicemente a Ravenspurgh.

 

REGINA -

Oh, non lo voglia il cielo!

 

GREEN -

Ahimè, signora,
purtroppo è proprio vero; e quel che è peggio
Northumberland col suo giovane figlio,
Enrico Percy e i Lord Beaumont e Ross,
e Willoughby con tutti i loro amici,
son corsi ad un suo cenno.

 

BUSHY -

Perché non proclamaste traditori
Northumberland e tutti gli altri nobili
del gruppo dei ribelli?

 

GREEN -

L’abbiam fatto;
ma sopra quel decreto il conte Worcester
spezzò la mazza,(43) rassegnò la carica
di siniscalco,(44) ed accorse da Bolingbroke
insieme a tutti i servi della casa.

 

REGINA -

Allora, Green, se è vero quel che dici,
tu sei l’ostetrico della mia pena,
e Bolingbroke ne è l’orrido parto.(45)
L’anima mia ha partorito il mostro,
ed io, novella puerpera in affanno,
aggiungo pena a pena, doglia a doglia.

 

BUSHY -

Signora, non dovete disperarvi.

 

REGINA -

Chi mai potrà impedirmelo, oramai?
Vo’ darmi preda alla disperazione,
vo’ dichiarare guerra alla speranza,
questa guardiana adulatrice e ipocrita,
sempre pronta a respingere la morte,
che invece scioglierebbe nobilmente
i lacci della vita,
ch’essa, la parassita, tiene stretti.

Entra il DUCA DI YORK

 

GREEN -

Ecco il duca di York.

 

REGINA -

Con le insegne di guerra(46) al vecchio collo.
Oh, che gravi pensieri nel suo sguardo!
Zio, per l’amor di Dio,
ditemi una parola di conforto.

 

YORK -

Se lo facessi, falserei, regina,
il mio pensiero. Conforto è solo in cielo,
e noi siam sulla terra,
dove son solo croci, affanni e triboli.
Vostro marito è voluto partire
per salvare a sé terre assai lontane;
altri vengono qui,
a far ch’egli ne perda in casa sua;
e a fargli da puntello qui, nel regno,
non è rimasto alcuno eccetto me,
che, debole e spossato dall’età,
non so nemmeno puntellar me stesso.
È arrivata per lui l’ora del vomito,
dopo tanti bagordi;
e di mettere a prova le amicizie
che l’hanno lusingato fino ad oggi.

 

Entra un SERVO

 

SERVO -

Monsignor Duca, il re vostro nipote
era già in mare. Non ha fatto in tempo.

 

YORK -

Già?… Vada allora tutto come vada!
I nobili fuggiti…
il popolo che gli si è fatto ostile,
pronto anch’esso, ho paura, alla rivolta,
ed a passare tutto a Enrico d’Hereford…
Corri a Plashy, da mia cognata Gloucester,
chiedile che mi mandi per tuo mezzo
mille sterline. Toh, prendi il mio anello.(47)

 

SERVO -

Oh, signore, a proposito…
non ve l’ho detto: oggi, al mio ritorno,
m’ero fermato appunto là, signore,…
ma vi darò cordoglio a dirvi il resto.

 

YORK -

Quale resto, gaglioffo, che hai da dire?

 

SERVO -

La Duchessa, signore, era già morta,
un’ora prima ch’io giungessi là.

 

YORK -

Pietà di Dio! Che marea di sciagure
si sta abbattendo tutta in una volta
su questa triste, tormentata terra!
Non so che fare. Avesse Dio voluto
che il re - pur senza mia infedeltà
verso di lui a dargliene motivo -
m’avesse fatto mozzare la testa,
insieme a mio fratello!… Come mai!
Non ci sono corrieri per l’Irlanda?
Come faremo a trovare il denaro
per questa guerra?…
(Alla regina)
Vi prego, cognata,
- nipote dovrei dire - perdonatemi.
(Al servo)
Senti ragazzo, corri a casa mia,
vedi di procurarti qualche carro,
e porta via le armature che trovi.
(Esce il servo)
Signori, vi volete dar lo scomodo
d’andar in giro a reclutar soldati?
Se vi dicessi che so come fare
per districarmi nel grosso garbuglio
degli affari che sono in mano mia,
non credetemi. L’uno come l’altro
son miei parenti: uno è il mio sovrano
che il mio dovere ed il mio giuramento
m’impongon di difendere;
ma l’altro è anch’egli mio parente, e il re
gli ha fatto grave torto
a cui coscienza e vincoli di sangue
anche m’impongono di rimediare.
Bene, qualcosa si dovrà pur fare.
(Alla regina)
Intanto m’occupo di voi, nipote:
venite.