Entra RE RICCARDO, uscendo dal Castello col seguito
BOLINGBROKE -
Fate largo, e mostrate a sua maestà
il dovuto rispetto…
(Inginocchiandosi a Riccardo)
Mio grazioso sovrano…
RICCARDO -
Bel cugino,
tu umilii il principesco tuo ginocchio
e lasci insuperbir la bassa terra
nel permettere ad essa di baciarlo.
Avrei più caro che fosse il mio cuore
a sentire il tuo affetto,
non il mio occhio a vedere questo ossequio
ch’esso non può gradire.
(Rialzandolo)
Su, su, cugino, che il tuo cuore è su,
lo so. Sta in alto almeno fino qui,
(Si tocca la fronte)
anche se il tuo ginocchio tocca terra.
BOLINGBROKE -
(Alzandosi)
Vengo soltanto a chieder quel che è mio.
RICCARDO -
Il tuo è tuo, e tuo son pure io,
e tuo è tutto.
BOLINGBROKE -
Voi sarete mio,
mio signore, per quanto i miei servigi
abbiano a meritarmi il vostro affetto.
RICCARDO -
Tu meriti già molto.
Sono ben meritevoli di avere,
quelli che sanno il modo più deciso
per ottenere.
(A York)
Zio, le vostre mani.
(Gli prende le mani)
Asciugatevi gli occhi, via le lacrime!
Le lacrime son mostra d’affezione,
ma non rimedio a ciò che le produce.
(A Bolingbroke)
Io sono troppo giovane, cugino,
per essere tuo padre,
mentre tu sei maturo quanto basta
per essere mio erede.
E quel che brami io te lo darò,
ed anche volentieri;
dobbiamo fare ciò che forza vuole,
e forza vuole che si vada a Londra.
Non è così, cugino?
BOLINGBROKE -
Sì, signore.
RICCARDO -
Se per te è sì, non posso io dire “no”.
(Escono)
SCENA IV
Il giardino del Duca di York
Entra la REGINA con due DAME
REGINA -
Che gioco inventeremo, qui in giardino,
per divagare la mente
dall’ansioso pensiero che l’opprime?
DAMA -
Si può giocare alle bocce, signora.
REGINA -
Questo gioco mi fa tornare in mente
che la mia vita è cosparsa d’intoppi,(76)
e che la mia fortuna va sbilenca,
correndo obliqua, come contro un peso.(77)
DAMA -
Si può danzare, allora.
REGINA -
No, nemmeno;
le mie gambe non trovano diletto
in nessuna misura, (78) quando il cuore
non conosce misura nella pena.
Perciò, fanciulla cara, niente danza.
Pensa a qualche altro gioco.
DAMA -
Ci raccontiamo qualche storia, allora?
REGINA -
Triste o gioiosa?
DAMA -
L’uno e l’altro genere.
REGINA -
No, nessuno dei due, ragazza mia;
perché quelle che parlano di gioia,
poiché di questa son del tutto priva,
tanto più mi ricordan la mia pena,
mentre quelle che parlan di dolore,
poiché solo dolore m’è rimasto
servirebbero solo ad aggravarlo.
Quello che ho già non voglio raddoppiarlo,
quel che mi manca, non voglio compiangerlo.
DAMA -
Signora, allora canterò. Va bene?
REGINA -
Son felice che tu n’abbia motivo;
ma più gradito sarebbe al mio cuore,
se ti mettessi a piangere.
DAMA -
Posso anche piangere, se vi fa bene.
REGINA -
E io, se mi facesse ben piangere,
canterei, senza mai chiedere in prestito
da te una sola lacrima…
Entra un GIARDINIERE con due SERVITORI
Ma zitta!
Vengono i giardinieri.
Entriamo sotto l’ombra di questi alberi.
La mia miseria contro qualche spillo
che quelli parleranno di politica:
ne parlan tutti, quando nello Stato
s’annuncia qualche grosso cambiamento.
Un malanno precede sempre un altro.
(La regina e le dame si ritirano sotto gli alberi)
GIARDINIERE -
(A uno dei suoi uomini)
Va’, lega i rami di quell’albicocco
che come tanti indocili monelli
fanno piegar la schiena al loro padre
con tutto il peso della lor grandezza.
Metti un puntello a quei rami pendenti.
(Ad un altro)
E tu va’ a fare il boia agli altri rami
che svettano, cresciuti troppo in fretta,
taglia loro la testa,
che non spicchino troppo in mezzo agli altri
di questa nostra piccola repubblica.
Sotto il nostro governo, tutti eguali!
E mentre voi v’occupate di questo,
io vado a sradicare quelle erbacce
che succhiano la forza del terreno
senza dare alcun frutto, e fanno ostacolo
al crescere di fiori salutari.
PRIMO SERVO -
Perché dovrebbe poi toccare a noi,
nel breve spazio d’una staccionata,
mantener legge e ordine e misura,
quasi a esibire questo nostro fondo
come un modello di governo d’ordine,
quando il nostro giardino acqua-cintato,(79)
questa intera Inghilterra, voglio dire,
rigurgita d’erbacce, e i suoi bei fiori
son soffocati, e le siepi arruffate,
le belle aiuole tutte in gran disordine,
e le buone erbe sommerse dai bruchi?
GIARDINIERE -
Zitto. Colui che questa primavera
caotica ha permesso, è giunto anch’egli
al suo spogliante autunno. Le malerbe
cresciute sotto il largo suo fogliame
e che sembrava che lo proteggessero
mentre lo divoravano, strappate
sono state con le radici e tutto
da Bolingbroke, intendo il conte di Wiltshire,
e Bushy e Green.
PRIMO SERVO -
E che! Son tutti morti?
GIARDINIERE -
Morti; ed Enrico Bolingbroke
ha catturato il re dissipatore.
Che peccato non abbia egli curata
la sua terra, e non l’abbia coltivata
come noi questo piccolo verziere.
Noi, quand’è la stagione,
facciamo un’incisione alla corteccia
ch’è la pelle degli alberi da frutto
perché il troppo rigoglio della linfa,
che sarebbe per essi come il sangue,
può danneggiar la vita della pianta
per troppo nutrimento.
Avesse fatto lui così con gli uomini
grandi ed in crescita del suo reame,
quelli potevan seguitare a vivere
fino a dar frutti d’opere leali,
ed egli assaporarli. I rami inutili
noi li tagliamo perché vivan gli altri
che portan frutti. Avesse ei così fatto,
avrebbe ancora in testa la corona
che lo sperpero in ozio di tante ore
ha trascinato in totale rovina.
PRIMO SERVO -
Che vuoi dire, che il re sarà deposto?
GIARDINIERE -
Spodestato l’è già; che sia deposto
è probabile. Sono giunte ieri
a un caro amico del Duca di York
lettere con notizie disastrose.
REGINA -
(Uscendo dal nascondiglio)
Ah, son compressa a morte!
Soffoco dalla voglia di parlare!
(Al giardiniere)
Tu, ch’hai l’aria d’un vecchio padre Adamo
ordinato a curar questo verziere,
come osa la tua rozza e goffa lingua
dar voce a sì sgradevoli notizie?
Quale Eva, qual serpe ti ha tentato
a presagir la caduta dell’uomo
una seconda volta maledetto?
Perché dài per deposto Re Riccardo?
Osi tu, che sei poco più del fango,
predir la sua caduta?
Come ti sei imbattuto, dove, quando
in queste ciance? Parla, miserabile!
GIARDINIERE -
Perdonatemi. Provo poca gioia
a diffonder notizie come questa,
mia signora, ma quel che dico è vero.
Re Riccardo si trova già costretto
nella possente morsa di Bolingbroke.
Le lor fortune adesso si misurano
sulla stessa bilancia:
ma ormai sul piatto del signore vostro
non c’è che lui, con altre nullità
che gli fan calo al peso,
mentre sul piatto del potente Bolingbroke
ci sono tutti i pari d’Inghilterra
e ciò fa tracollare la bilancia
da questa parte. Affrettatevi a Londra,
vedrete che è così com’io vi dico;
e non è più di quanto sanno tutti.
REGINA -
O sventura, che sì veloce hai il piede,
il tuo messaggio non era per me?
E perché son io l’ultima a saperlo?
Ah, forse hai tu pensato
di servirmi per ultima ch’io serbi
più a lungo in petto tutta la mia pena.
Mie dame, andiamo ad incontrare a Londra
il re di Londra nella sua afflizione.
Misera me, per questo sarei nata?
Per ornare col mio volto attristato
il trionfo del vittorioso Bolingbroke?
Giardiniere, per queste dolorose
notizie che m’hai detto,
farò rivolgere preghiere a Dio
perché non faccia più crescer germoglio
da quante piante tu possa innestare.
(Esce con le dame)
GIARDINIERE -
Sventurata regina! Se valesse
questo scongiuro a non volgere in peggio
la sorte che t’attende,
pesi pur esso sulla mia perizia.
Ella ha lasciato cadere una lacrima
in questo punto; e qui voglio piantare
un bel ceppo di ruta,
l’amarissima erba della grazia.
E ruta si vedrà spuntare tra poco
in questo luogo, in segno di pietà,
a ricordo d’una regina in lacrime.(80)
(Escono)
ATTO QUARTO
SCENA I
L’aula del Parlamento a Westminster
Entrano, come per una seduta del Parlamento, BOLINGBROKE, AUMERLE, NORTHUMBERLAND, PERCY, FITZWATER, SURREY, il VESCOVO DI CARLISLE e l’ABATE DI WESTMINSTER
BOLINGBROKE -
Fate entrare Bagot.
Entra BAGOT con ufficiali
Ora, Bagot,
parla libero e di’ quello che sai
sull’uccisione del nobile Gloucester:
chi la tramò col re,
chi fu di quella morte prematura
il sanguinario vero esecutore.
BAGOT -
Mettetemi a confronto con Lord Aumerle.
BOLINGBROKE -
(Ad Aumerle)
Cugino, degnati di farti avanti,
e venire a confronto con quest’uomo.
BAGOT -
So che la tracotante vostra lingua,
Lord Aumerle, non degna di smentita
ciò che una volta ha detto.
Ma la notte in cui si tramò tra noi
la morte di Lord Gloucester, son sicuro
d’avervi udito dire queste frasi:
“Non è forse il mio braccio tanto lungo
da portarsi giù giù fino a Calais
dalla tranquilla corte d’Inghilterra
per agguantar la testa di mio zio?”
E v’udii anche dire, son sicuro,
tra molti altri discorsi, quella notte,
che avreste volentieri rinunciato
a un’offerta di centomila scudi,
pur di non far tornare Enrico Bolingbroke
sul suolo d’Inghilterra;
ed anche aggiungere che la sua morte
sarebbe una fortuna per la patria.
AUMERLE -
Quale risposta, principi e signori,
dovrò io dare a questo miserabile?
Dovrò disonorare le mie stelle(81)
al punto da dovergli dar con l’armi
da pari a pari un severo castigo?
Mi sarà forza farlo,
se l’onor mio non vuol restar macchiato
dalla nefanda accusa ch’ei mi muove.
Ecco il mio pegno,(82) sigillo di morte
che di mia man ti bolla per l’inferno.
(Gli getta in terra il segno di sfida)
Dichiaro che tu menti per la gola,
e proverò col sangue del tuo cuore,
per quanto indegno d’imbrattare il filo
di questa spada mia di cavaliere,
che è falso, tutto falso quanto hai detto.
(Bagot s’inchina e raccoglie il pegno,
ma Bolingbroke gli grida)
BOLINGBROKE -
Fermati, non raccoglierlo, Bagot!
AUMERLE -
Tranne uno,(83) di tutta quest’accolita
vorrei fosse il migliore a provocarmi.
FITZWATER -
Se proprio il tuo valore tiene tanto
all’uguaglianza di rango, Lord Aumerle,
ecco il mio pegno contro il tuo: ti sfido.
(Getta a terra il suo pegno di sfida)
Giuro per questo sole luminoso
che mi ti fa stanare dove sei,(84)
d’averti udito dire, e menar vanto,
d’esser stato tu la causa prima
dell’assassinio del nobile Gloucester.
E se pur lo negassi mille volte,
io ti dico che menti, e son pronto
a ricacciarti questa tua menzogna
nel cuore, là dov’essa è generata.
AUMERLE -
Vile, tu non vivrai fino a quel giorno!
FITZWATER -
Ah, per l’anima mia!
Vorrei che fosse subito quell’ora!
AUMERLE -
Questa menzogna, Fitzwater,
ti condanna all’inferno.
PERCY -
Tu menti, Aumerle:
l’onore suo in quest’accusa è integro
quanto tu sei sleale nel negarla.
E che tale tu sia, ecco il mio pegno,
(Gli getta anche lui il pegno di sfida)
a dimostrartelo sulle tue carni,
fino all’ultimo anelito di vita.
Raccoglilo, se osi.
AUMERLE -
E se non oso,
mi vadano in cancrena le due mani
per non brandire più vindice acciaio
sull’elmo lucido del mio nemico.
(Raccoglie il pegno di sfida di Percy)
UN ALTRO LORD -
E la terra riceva pure il mio,
spergiuro Aumerle, ed a raccoglierlo
io ti sprono, con tutte le smentite
che possan rintronar, da un sole all’altro,(85)
il cavo del tuo orecchio traditore.
Eccoti il pegno del mio onore, Aumerle,
(Getta anch’egli a terra il pegno)
e raccogli la sfida, se hai coraggio.
AUMERLE -
Non ce n’è più che vogliano sfidarmi?
Perdio, son pronto a battermi con tutti!
Ho mille anime in corpo
per rispondere ad altri diecimila.
SURREY -
(Ironico)
Ah, sì, ricordo bene, Lord Fitzwater,
quella volta che Aumerle e voi
discorrevate insieme…
FITZWATER -
È vero, infatti,
c’eravate anche voi, ricordo bene,
e mi potete far da testimonio
che quanto affermo è pura verità.
SURREY -
Falso, falso, per quanto è vero Iddio!
FITZWATER -
Surrey, tu menti!
SURREY -
Infame ragazzaccio!
Questa smentita tua
peserà tanto sopra la mia spada,
che renderà vendetta per vendetta,
rivalsa su rivalsa,
fino a che tu, maestro di menzogne,
non giacerai con esse sottoterra,
inerte come il teschio di tuo padre.
Ed a prova di ciò, questo è il mio pegno,
e raccogli la sfida se hai coraggio.
(Butta anch’egli a terra il suo pegno di sfida)
FITZWATER -
Sciocco! Sproni un cavallo già al galoppo!
Non credo che m’occorra più coraggio
di quanto me n’occorre per mangiare,
e bere, e respirare, e stare in vita,
per affrontare uno come te,
magari in mezzo a una landa selvaggia,
e là sputargli addosso,
gridandogli: “Tu menti, menti, menti!”
Ecco qua la mia polizza di credito
che t’assicura una buona lezione.
Come è vero ch’io voglio progredire
in questo rinnovato nostro regno,
così è vero che Aumerle è colpevole
di ciò di cui l’accuso. C’è di più:
dal duca di Norfolk, ora in esilio,
ho pure udito che fosti tu, Aumerle,
a spedire a Calais due tuoi sicari
per far assassinare il nobil duca.
AUMERLE -
Non c’è tra voi un onesto cristiano(86)
che voglia farmi credito d’un pegno(87)
perch’io possa lanciar da qui a Norfolk
la mia sfida, e provargli ch’è un bugiardo?
Ecco, per ora butto a terra questo:(88)
mi proverà con l’armi l’onor suo
se mai sia richiamato dall’esilio.
BOLINGBROKE -
Tutte queste contese
rimangano in sospeso, come impegni,
finché Norfolk non sarà richiamato.
Lo sarà, infatti. E benché mio nemico,
sarà reintegrato nei dominii
e nelle signorie che sono sue.
Decideremo dunque al suo ritorno
la sua prova dell’armi contro Aumerle.
CARLISLE -
Quel giorno, allora, non si vedrà mai.
L’esiliato Norfolk ha combattuto
per la gloria di Cristo a più riprese
contro pagani turchi e saraceni
sotto l’insegna della santa croce;
poi, stanco dello sforzo della guerra,
si ritirò in Italia, e lì, a Venezia,
alla terra di quel dolce paese
affidò il corpo, e l’anima sua pura
al suo gran capitano Gesù Cristo,
sotto le cui bandiere
aveva così a lungo combattuto.
BOLINGBROKE -
Che, vescovo! Norfolk è dunque morto?
CARLISLE -
Morto, com’io son vivo, monsignore.
BOLINGBROKE -
Guidi l’anima sua la dolce pace
nel grembo del buon vecchio padre Abramo.
Quanto alle vostre sfide, miei signori,
per ora restino tutte sospese:
fisserò io le date delle prove.
Entra YORK
YORK -
Grande Duca di Lancaster,
io vengo a te da parte di Riccardo,
senza più penne, che ben volentieri
ti adotta come suo diretto erede,
e rimette nella regal tua mano
il suo augusto scettro.
Ascendi dunque al trono d’Inghilterra
come suo successore, e vivi a lungo,
Enrico, quarto re di questo nome.(89)
BOLINGBROKE -
E nel nome di Dio Onnipotente,
io m’accingo a salire al regal seggio.
CARLISLE -
Dio non lo voglia!… Di tutti il più umile
in mezzo a tanta regal compagnia,
io son però colui che più s’addice
di parlare e di dir la verità.
Dio volesse che alcuno dei presenti
in questo nobilissimo consesso
trovasse in sé abbastanza nobiltà
per levarsi, sereno ed imparziale,
a giudice del nobile Riccardo:
quella sua nobiltà gli detterebbe
di astenersi da un tale empio sopruso.
Ma a qual suddito è dato
di pronunziar sentenza sul suo re?
E di quanti son qui
chi non è suddito di re Riccardo?
Nemmeno i ladri sono giudicati
senz’essere ascoltati,
per manifesta che sia la lor colpa.
Ed un re, ch’è l’immagine vivente
della maestà di Dio Onnipotente,
il suo primo soldato sulla terra,
il suo luogotenente, il suo vicario
unto dall’olio santo, incoronato,
da tanti anni insediato nel trono,
come può, dico, venir giudicato
dal subalterno accento d’un suo suddito,
e in sua assenza?… Dio Onnipotente,
non permettere che in cristiana terra
anime battezzate faccian mostra
d’una sì empia, odiosa, oscena azione!
Io parlo a sudditi, io stesso suddito,
sì arditamente per il mio sovrano
perché mi sento ispirato da Dio.
Questo Enrico, che voi chiamate re,
è un turpe traditore del suo re
ch’è anche re dell’orgoglioso Hereford.
E se a questo darete la corona,
questa è la predizione ch’io vi faccio:
sangue inglese concimerà la terra
per questa turpe azione, e gemeranno
per tale crimine le età future.
La pace andrà a dormire il proprio sonno
tra i turchi e gl’infedeli,
e in questa terra già nido di pace
una serie di guerre tumultuose
metterà contro fratelli a fratelli,
e famiglie a famiglie d’un sol sangue.(90)
Qui siederanno allora la rivolta,
lo scompiglio, l’orrore, la paura,
e faranno di questa terra un Golgota,
campo dei teschi degli inglesi uccisi.
Oh, se solleverete questa casa
contro quest’altra casa,
sarà la più funesta spaccatura
che mai colpì questa dannata terra.
Impeditelo, non lo permettete!
Fate del tutto perché non accada,
che i vostri figli ed i figli dei figli
non vi gridino la maledizione!
NORTHUMBERLAND -
Bella perorazione, monsignore!
E noi, in compenso di tanta fatica,
vi arrestiamo per alto tradimento.
A voi, signor Abate di Westminster
l’incarico di prenderlo in custodia
fino al dì del processo.
Signori, ora vogliate compiacervi
di accoglier la richiesta dei Comuni.(91)
BOLINGBROKE -
Voglio che sia condotto qui Riccardo
a confermar la sua abdicazione
avanti a tutti,
che non rimanga più alcun sospetto.
YORK -
Vado a prenderlo ed a scortarlo qui.
(Esce)
BOLINGBROKE -
Signori, che qui siete sotto arresto,
procuratevi una malleveria
che v’assista nel giorno del processo.
Poco dobbiamo noi al vostro affetto
così come ben poco affidamento
abbiamo sempre fatto su di voi.
Rientra YORK con RE RICCARDO e ufficiali che recano la corona e lo scettro
RICCARDO -
Ahimè, vedermi tratto avanti a un re
prima d’aver rimosso dalla mente
i pensieri del tempo mio di regno!…
Io non conosco l’arte di adulare,
di formular mielate piaggerie,
di chinare la schiena ed i ginocchi:
sia dato almeno il tempo alla mia pena
d’iniziarsi a una tal sottomissione.
Eppure le sembianze di questi uomini
me le ricordo bene. Erano i miei.
Gli stessi che gridavan: “Viva il re!”
Giuda fece lo stesso con il Cristo;
solo che dei suoi dodici seguaci
tutti egli ebbe fedeli, meno uno:
con me, nessuno su dodicimila!
“Dio salvi il re!”… Nessuno dice “amen”?
Tocca a me far da prete e da sacrista?
Amen, allora! Che Dio salvi il re!
Il re non son più io? Amen lo stesso,
se per tale mi tiene ancora il Cielo!
Per qual bisogna sono qui chiamato?
YORK -
Per ripetere in pubblico
l’offerta che di sua libera scelta
vostra maestà ha già fatto
di rinunciare al titolo di re
in favore del Duca Enrico Bolingbroke.
RICCARDO -
(A un ufficiale)
Datemi la corona.
(L’ufficiale gli porge la corona)
(A Bolingbroke)
Ecco, cugino,
afferrala: la mano mia di qua,
la tua di là… Questa corona d’oro
ora somiglia ad un profondo pozzo
con due secchi che scendono giù a turno:
uno vuoto, che dondola nel vuoto,
l’altro, non visto, in fondo, colmo d’acqua.
Il secchio che va giù, pieno di lacrime,
son io, che delle mie profonde pene
m’abbevero; tu sei quello che sale.
BOLINGBROKE -
Vi credevo disposto alla rinuncia.
RICCARDO -
Alla corona, sì; ma le mie pene
restano e resteranno sempre mie.
Voi potete spogliarmi dei miei titoli,
della mia maestà, delle mie glorie:
delle mie pene, no, perché di queste
ancora e sempre sarò io il re.
BOLINGBROKE -
Con la corona, voi cedete a me
una parte di queste vostre cure.
RICCARDO -
Quelle cure che tu t’accolli, in alto,
non m’alleviano delle mie qui in basso.
La mia cura è la perdita di cure,
ora che ogni altra cura se n’è andata;
la tua cura è l’acquisto di altre cure
che tanta cura hai messo a perseguire.
Io mi tengo anche quelle che ti cedo;
restano ancor con me,
se pur s’attengono alla corona.
BOLINGBROKE -
Siete d’accordo a ceder la corona?
RICCARDO -
Sì, no; no, sì… Perch’io non son più nulla,
non debbo dire né sì e né no,
perciò no, no: io mi rassegno a te.(92)
Attento ora a come mi disfaccio:
mi tolgo via dal capo questo peso,
dalla mia mano questo scettro incomodo,
dal mio cuore l’orgoglio del potere.
Con le mie stesse lacrime
mi lavo l’olio della sacra unzione.
Di mia mano consegno la corona.
Con la mia stessa lingua
rinnego il mio potere sconsacrato.
Con il mio fiato sciolgo i giuramenti,
rimetto a tutti i voti di lealtà,
ripudio fasto e dignità regale,
rinuncio ai miei castelli, alle mie rendite,
revoco atti, statuti, decreti.
Voglia Dio perdonare i violatori
di tutti i giuramenti fatti a me,
e mantenere quelli fatti a te
inviolati; concedere a me
che ormai non ho più nulla
di non avere a dolermi di nulla;
a te, che tutto ormai hai conseguito,
di tutto rallegrarti.
Possa tu vivere e sedere a lungo
sul trono di Riccardo,
e Riccardo giacere quanto prima
supino al fondo di terragna fossa.
“Dio salvi Enrico re!”,
dice lo spodestato re Riccardo,
“e a lui mandi molti anni
di radiose giornate”. Che più resta?
NORTHUMBERLAND -
Nient’altro, solo che leggiate in pubblico
questa sequela di nefandi crimini
da voi commessi e dai seguaci vostri
contro lo Stato e il bene del paese
affinché, per la vostra confessione,
possano tutti giudicare giusti
i motivi per cui siete deposto.
RICCARDO -
Devo proprio? Disfare innanzi a tutti
il groviglio delle mie debolezze?
Mio gentile Northumberland,
se tutti i torti da te perpetrati
si trovassero scritti in un registro,
li leggeresti tu, senza vergogna,
dinnanzi a così inclito consesso?
Supponiamo che tu potessi farlo:
tu potresti trovare in quell’elenco
un paragrafo atroce
sulla deposizione d’un sovrano
e la rottura del ferreo legame
d’un sacro giuramento, e quel paragrafo
vedresti tinto d’una macchia nera
e condannato nel libro del Cielo.
Anzi, voi tutti qui,
che avete gli occhi fissi su di me,
che abbaio su me stesso
come un cane tenuto alla catena,
pur se alcuno tra voi, come Pilato,
dentro di sé se ne lavi le mani
e al di fuori fa mostra di pietà,
voi tutti qui, come tanti Pilati,
m’avete abbandonato alla mia croce;
e non c’è acqua che tal colpa lavi.
NORTHUMBERLAND -
Via, monsignore, non perdiamo tempo.
Leggete dunque questo documento.
RICCARDO -
Gli occhi mi si riempiono di lacrime,
non posso leggere; ma l’umor salso
non me li rende ciechi fino al punto
ch’io non possa discernere qui attorno
un assortito branco di felloni.
Anzi, se volgo gli occhi su di me,
mi scopro d’essere uno come loro,
per aver consentito alla mia anima
di spogliare di tutta la sua pompa
il corpo d’un sovrano consacrato,
di avvilirne la gloria,
di abbassarne ad un’umil sudditanza
l’orgogliosa maestà,
la potestà al livello d’un bifolco.
NORTHUMBERLAND -
Mio signore…
RICCARDO -
No, no, né tuo signore,
né d’alcun altro, borioso insolente!
Io non ho nessun nome, nessun titolo,
e non ho più nemmeno il nome mio
che mi fu imposto al fonte di battesimo.(93)
Ah, che giorno terribile è mai questo,
che io, con tanti inverni sulle spalle,
non sappia più con che nome chiamarmi!
Oh, fossi un re per gioco, un re di neve,
e dissolvermi in mille gocce d’acqua
al calore del sole di Bolingbroke!
(A Bolingbroke)
O tu, buon re, gran re - seppur non grande
nella bontà - se ancor la mia parola
è moneta che ha corso in Inghilterra,
fammi portare subito uno specchio(94)
ch’io vi possa vedere la mia faccia
com’è, dopo che in essa la maestà
ha fatto bancarotta.
BOLINGBROKE -
Vada qualcuno a prendere uno specchio.
(Esce uno del seguito)
NORTHUMBERLAND -
Intanto, nell’attesa dello specchio,
mio signore, leggete questa carta.
RICCARDO -
Demonio! Vuoi già darmi il tuo tormento
avanti ch’io precipiti all’inferno!
BOLINGBROKE -
Lascia stare, Northumberland, desisti.
NORTHUMBERLAND -
Ma i Comuni non s’accontenteranno.
RICCARDO -
I Comuni saranno soddisfatti
perch’io leggerò loro quanto basta,
quando avrò sotto gli occhi il vero libro
dove son scritti tutti i miei peccati,
vale a dire me stesso.
(Rientra l’uomo con lo specchio,
Riccardo glielo strappa dalle mani)
Qua quello specchio! È qua ch’io voglio leggere.
(Guardandosi allo specchio)
Come! Non più scavata di così
la mia faccia? Con tanti colpi inferti,
non vi lasciò il dolor più grossa traccia?
Ah, specchio adulatore, tu m’inganni
come facevano i miei cortigiani
nella felice stagion del mio regno.
Era questa la faccia che, ogni giorno,
provvedeva per diecimila uomini
sotto il tetto della sua stessa casa?
La stessa che, radiosa come un sole,
costringeva chiunque la guardasse
ad abbassar le palpebre?
Che s’è allietata di tante follie
per abbassarsi infine avanti a Bolingbroke?
Fragile gloria splende in questa faccia,
fragile com’è fragile la gloria!
(Scaglia lo specchio a terra)
Eccoti frantumato in mille pezzi!
Annota, re votato ormai al silenzio,(95)
la morale di tutto questo scherzo:
con qual rapidità
il dolore ha distrutto la mia faccia.
BOLINGBROKE -
(Indicando lo specchio in frantumi)
Quella era l’ombra della vostra faccia
e a distruggerla, come avete fatto,
è stata l’ombra del vostro dolore.(96)
RICCARDO -
L’ombra del mio dolore… Sì, ripetilo…
Ah, sì, vediamo, è vero, è proprio vero!
Il mio dolore infatti è tutto dentro
e queste forme esterne
sono soltanto ombre della pena
che non si vede e che cresce in silenzio
all’interno dell’animo straziato.
È là l’essenza vera del dolore;
e grazie, o re, alla tua munificenza
che mi fornisce non solo le cause
dei miei lamenti, ma m’insegna il modo
anche di lamentare quelle cause.
Ti chiedo solo una grazia, e poi vado,
non ti disturbo più. Posso ottenerla?
BOLINGBROKE -
Senz’altro. Ditela, gentil cugino.
RICCARDO -
“Gentil cugino”… Sono più d’un re!
Quand’ero re, i miei adulatori
non erano che sudditi;
ed ora che son divenuto suddito,
ho come adulatore un re. Ma allora,
quale bisogno ho io di supplicare
per una grazia, se son così grande?
BOLINGBROKE -
Chiedete, ad ogni modo.
RICCARDO -
Ed otterrò?
BOLINGBROKE -
Ma certo!
RICCARDO -
Allora lasciami andar via.
BOLINGBROKE -
Dove?
RICCARDO -
Dove vorrai, purché lontano
il più possibile dalla tua vista.
BOLINGBROKE -
(A quelli del seguito)
Allora accompagnatelo alla Torre!
RICCARDO -
Oh, bene: “accompagnatelo!”
Potevi dir “rubatelo”, piuttosto,
perché qui siete tutti quanti ladri,(97)
voi che con tanta rapida destrezza
salite perché un vero re discende.
(Esce scortato da alcune guardie e da alcuni pari)
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