E questo non lo voglio.

Ad evitare dunque il primo rischio,

ed a scansare, parlando, il secondo,

eccovi la decisa mia risposta.

Il vostro affetto merita senz’altro

il mio ringraziamento;

ma i miei meriti son troppo scarsi

per fare ch’io m’induca ad aderire

alla vostra ambiziosa petizione.

Primo: quand’anche fossero rimossi

tutti gli impedimenti e tutta piana

fosse la strada verso la corona,

siccome maturato mio possesso

e diritto spettantemi per nascita,

è sì grande la mia povertà d’animo,

e tanti e tanto gravi i miei difetti,

che della mia grandezza farei schermo

per occultarmi alla sovranità

- come un vascello inetto ad affrontare

il mare grosso - anziché agognare

a rimaner nascosto e soffocato

soltanto dai vapori della gloria.

Ma, grazia e Dio, di me non c’è bisogno;

ché se vi fosse, avrei bisogno io stesso

di troppe cose, poi, per aiutarvi.

La regal pianta del defunto re

ha lasciato al paese un regal frutto

che, portato che sia a maturazione

dal furtivo trascorrere del tempo,

si mostrerà certamente ben degno

della maestà del trono, ed il suo regno

ci renderà certamente felici.

Io lascio dunque volentieri a lui

quel che volete consegnare a me,

vale a dire il diritto alla corona

e le sorti della sua buona stella

che Dio non voglia io debba strappargli.

BUCKINGHAM -

Tutto ciò testimonia, monsignore,

quale coscienza alberga in vostra grazia;

ma, in fede mia, codesti vostri scrupoli,

a ben vagliar tutte le circostanze,

son senza consistenza e trascurabili.

Voi affermate che il principe Edoardo

è bene il figlio di vostro fratello;

noi diciamo lo stesso,

però non della moglie di Edoardo;

ché prima ei si promise a Lady Lucy,(90)

(vostra madre è vivente testimone

della promessa); e poi si fidanzò

per procura con Bona di Savoia,

la cognata del re di Francia. In seguito,

dopo ch’ebbe scartate queste due,

una misera donna postulante,

con il corpo sfiancato dalle doglie

di molti parti, una bellezza sfatta,

una vedova nelle ristrettezze,

al meriggio dei suoi giorni migliori,

fece preda dei suoi sguardi lascivi

e lo sedusse al punto da ridurlo

ad un vituperevole degrado

e ad una vergognosa bigamia.(91)

Da costei, nel suo talamo illegittimo

egli ebbe questo Edoardo,(92)

che noi per cortesia chiamiamo principe.

Altre e più amare recriminazioni

potrei fare, non fosse pel rispetto

che sento per certuni ancora in vita

e che impone ritegno alla mia lingua.

Vogliate, dunque, amabile signore,

accogliere con animo benigno

addosso alla regal vostra persona

quest’offerta di dignità regale:

se non proprio per rendere con essa

felici noi ed il paese tutto,

per trarre il vostro nobile lignaggio

fuor da un’età corrotta ed abusata

e riportarlo sul retto cammino

della legittima sua discendenza.

LORD MAYOR -

Accettatelo, amabile signore,

ve lo implorano i vostri cittadini.

BUCKINGHAM -

Non rifiutatevi, possente principe,

a questa nostra profferta d’amore.

RICCARDO -

Ahimè, perché volete caricarmi

di questo peso? Io non son tagliato

per il rango e la dignità di re.

Vi scongiuro, non la prendete a male,

ma non posso né voglio accontentarvi.

BUCKINGHAM -

Se rifiutate perché affetto e zelo

v’ispirano ripugna a spodestare

quel bimbo, figlio di vostro fratello

- ché conosciamo bene la bontà

del vostro cuore, e la gentile, amabile,

quasi femminea vostra tenerezza

verso i vostri parenti, e, in verità,

verso gente d’ogni altra condizione -,

è bene che sappiate, signor Duca,

che, consentiate o no alla nostra istanza,

mai quel figliolo del fratello vostro

regnerà da sovrano su di noi;

perché noi pianteremo su quel trono

un altro qual che sia, ad ignominia

ed a rovina della vostra casa.

E in tale decisione vi lasciamo.

Andiamo, cittadini, andiamo via!

Per le piaghe di Cristo, io sono stufo

di stare qui più oltre a supplicare!

(Buckingham, il Lord Mayor e tutti gli altri si avviano per uscire)

RICCARDO -

Non imprecate, signore di Buckingham!

CATESBY -

Richiamateli indietro, dolce principe,

e consentite alla loro richiesta.

Se gliela respingeste, monsignore,

se ne dorrebbe tutta la nazione.

RICCARDO -

Volete dunque sospingermi a forza

entro un mare d’affanni?… Richiamateli.

Non son fatto di sasso,

io, dopo tutto; sono ben sensibile

a queste vostre garbate insistenze,

se pur contrarie ai miei sentimenti

ed alla mia più intima coscienza.

Rientrano BUCKINGHAM e gli altri

Cugino Buckingham, e voi, signori,

uomini saggi e gravi,

poiché vi vedo sì deliberati

a impormi sulla schiena questa sorte,

perch’io, volente o no, ne porti il carico,

mi devo rassegnare a sostenerlo.

Ma se da questa vostra imposizione

dovesse uscir la nera maldicenza

e la rampogna dalla grinta amara,

il fatto d’esserci stato costretto

m’assolva da ogni macchia o traccia impura

ch’abbia per avventura a derivarne.

Dio sa - e voi ne siete testimoni

con l’occasione - quanto io sia lontano

dal nutrire un siffatto desiderio.

LORD MAYOR -

Dio benedica sempre vostra grazia;

ne siamo testimoni, e lo diremo.

RICCARDO -

E direte la pura verità.

BUCKINGHAM -

Dunque con questo titolo regale

io vi saluto qui: “Viva Riccardo,

degno re d’Inghilterra!”

TUTTI -

Così sia!

BUCKINGHAM -

Domani allora vi compiacerete

di farvi incoronare?

RICCARDO -

Domani o quando gradirete voi,

dal momento che voi così volete.

BUCKINGHAM -

Domani allora vi faremo scorta

all’incoronazione, vostra grazia;

e così, con il cuore in esultanza,

da voi ci congediamo.

RICCARDO -

E noi torniamo al nostro sacro offizio.

Addio, cugino. Addio, gentili amici.

(Escono tutti)

 

 

ATTO QUARTO

 

SCENA I - Londra, davanti alla Torre.

 

Entrano, da una parte, la REGINA ELISABETTA, la DUCHESSA DI YORK,

il MARCHESE DI DORSET; dall’altra ANNA, duchessa di Gloucester,

con la figlioletta di Clarenza.

 

DUCHESSA -

Oh, guarda chi incontriamo:

la nipotina mia Plantageneta,(93)

condotta per la mano

dalla gentile zia Anna di Gloucester!(94)

Scommetterei che sta andando alla Torre,

spinta dal suo sincero cuoricino,

a recare il saluto al dolce principe.

Bene incontrata, figlia!

ANNA -

Conceda Dio felice e lieto giorno

a entrambe vostre grazie.

ELISABETTA -

E così a voi,

cara cognata. Dove ve ne andate?

ANNA -

Non più in là della Torre e, come immagino,

con lo stesso affettuoso vostro intento:

a salutare i due giovani principi.

ELISABETTA -

Grazie, mia cara. Allora entriamo insieme.

Entra BRAKENBURY

Ecco il luogotenente della Torre,

e a buon punto: signor Luogotenente,

di grazia, come stanno i miei figlioli,

il principe con il fratello York?

BRAKENBURY -

Benissimo, signora; ma purtroppo

non posso consentirvi di vederli.

Il re m’ha dato una consegna ferrea.

ELISABETTA -

Come sarebbe “il re”… c’è forse un re?

BRAKENBURY -

Volevo intendere il Lord Protettore.

ELISABETTA -

Ah, lui! Che Dio lo scarti da quel titolo!

E che! Vuol forse porre uno steccato

fra l’amore dei miei figlioli e me?

Io son la loro madre:

chi mi può impedire di vederli?

DUCHESSA-

Ed io sono la madre del lor padre:

voglio vederli.

ANNA -

Io son la loro zia,

per legge, la lor madre per affetto;

e dunque conducetemi da loro.

Rispondo io per voi: e a mio rischio

vi dispenso dalla vostra consegna.

BRAKENBURY -

No, signora; non posso liberarmene

così; vi son tenuto a giuramento.

E pertanto vi chiedo di scusarmi.

(Esce)

Entra STANLEY, conte di Derby

STANLEY -

Ch’io vi rincontri appena di qui a un’ora,

dame, e saluterò la grazia vostra,

(Indicando la Duchessa di York)

madre ed ammiratrice reverenda

di due belle regine.

(Ad Anna)

Voi, signora,

dovete venir subito a Westminster

per essere colà incoronata

regina di Riccardo.

ELISABETTA -

Ahimè, che sento!

Slacciatemi, strappatemi i legacci,

che il mio povero cuore abbia più spazio

per pulsare, perché sta soffocando!

Ah, ch’io svengo ad un tal ferale annuncio!

ANNA -

Dispettosa notizia! Amaro annuncio!

DORSET -

Madre, coraggio, state di buon animo:

come sta vostra grazia?

ELISABETTA -

Oh, fuggi, Dorset!

Mettiti in salvo! Non star lì a guardarmi!

I due mastini, Morte e Distruzione,

ti son già alle calcagna.

Il nome di tua madre è malo auspicio

per i figli. Se vuoi scampar la vita,

figlio mio, va’, passa il mare, va’ da Richmond,

a vivere al riparo dall’inferno.(95)

Presto, fuggi da questo scannatoio

se non vuoi far che il numero dei morti

s’accresca del tuo nome,

e se non vuoi veder morire me,

la vittima della maledizione

di Margherita, né più madre ormai,

né moglie, né regina d’Inghilterra.

STANLEY -

Saggio consiglio e premuroso il vostro,

signora. Dorset, via, sfruttate subito

il vantaggio del tempo, andate via,

non v’attardate in indugi imprudenti.

Manderò una lettera a mio figlio(96)

perché vi venga incontro sulla strada

e vi dia ogni appoggio.

DUCHESSA -

Oh, mefitico vento di sciagura!

Grembo mio maledetto,

culla di morte! Hai portato al mondo

un basilisco, che con il suo sguardo

uccide chi gli càpita sott’occhio.

STANLEY -

(Ad Anna)

Signora, andiamo, venite con me.

Son qui stato spedito di gran fretta.

ANNA -

Verrò con voi, ma assai di malavoglia.

E Dio volesse che quel cerchio d’oro

che cingerà fra poco la mia fronte

fosse acciaio rovente

da bruciarmi il cervello; ch’io sia unta

con veleno mortale, da morire

prima che gli uomini possan gridare:

“Dio salvi la regina”.

ELISABETTA -

Va’, va’, povera anima,

non invidio davvero la tua gloria.

Ma non t’auguro male,

a nutrire con questo la mia collera.(97)

ANNA -

Non m’invidii, lo so; e so il perché.

Quando colui ch’è ora mio marito

venne da me, che seguivo in gramaglie

il feretro d’Enrico,

e s’era appena lavato le mani

del sangue di quell’angelo

di mio marito e di quel caro santo

ch’io seguivo piangendo in quel momento,

quando, dico, levai gli occhi a Riccardo,

questo augurio gli feci: “Maledetto

sii tu - dissi - d’aver fatto di me,

così giovane, una sì vecchia vedova;

e se ti sposerai, non abbandoni

il dolore il tuo letto, e sia tua moglie

- se mai vi sarà donna tanto folle

da maritarsi ad uno come te -

resa più misera dalla tua vita

di quanto misera hai reso me

con la morte del mio sposo adorato!”

Dio mio, Signore! Ed ecco, in un momento,

prima che m’accingessi a reiterargli

la mia maledizione, stoltamente

il mio cuore di donna fu impigliato

nella dolcezza delle sue parole

e divenne esso stesso, all’improvviso,

l’oggetto della mia maledizione;

che da allora ha tenuto gli occhi miei

senza riposo, perché nel suo letto

non ho ancora, nemmeno per un’ora,

goduto l’aurea rugiada del sonno,

destata come sono di continuo

dai suoi sogni paurosi.

Egli mi odia, inoltre, per mio padre,

Warwick,(98) e son sicura

che si sbarazzerà di me al più presto.

ELISABETTA -

Addio, povero cuore.

Ho pietà delle tue tribolazioni.

ANNA -

Non quanta n’abbia io di quelle vostre.

DORSET -

Addio, tu che con l’anima in gramaglie

ti prepari a ricevere la gloria.

ANNA -

Addio, povera anima,

che dalla gloria invece ti congedi.

DUCHESSA -

Tu, Dorset, va’ da Richmond,

e ti sia guida la buona fortuna;

tu, Anna, da Riccardo,

e ti siano custodi angeli buoni;

tu, Elisabetta, vattene al santuario,

e ti accompagnino santi pensieri.

Io vado là dove pace e riposo

si giacciono con me: nella mia tomba.

Ho vissuto ottant’anni di sventure

ed ogni ora di gioia m’è costata

sette giorni di pianto.

ELISABETTA -

Aspettate: volgiamo ancora insieme

uno sguardo alla Torre… O pietre antiche,

pietà di quei due teneri fanciulli

che l’umana perfidia ha rinserrato

dentro le vostre mura, rude culla

per quelle piccole dolci creature,

rozza nutrice, squallida, decrepita,

cupa e tetra compagna ai loro giochi!

Pietre, trattate bene i miei bambini!

Questo è l’addio del mio pazzo dolore.

(Escono)

 

 

 

SCENA II - Londra, la sala del trono al palazzo reale.

 

Trombe.(99) Entrano RICCARDO, in pompa magna, con in testa la corona; BUCKINGHAM, CATESBY, RATCLIFF, LOVELL, un PAGGIO e altri del seguito.

 

RICCARDO -

Fatemi largo. Cugino di Buckingham!

BUCKINGHAM -

Mio grazioso sovrano…

RICCARDO -

La tua mano.

(Buckingham gli dà la destra e lo accompagna al trono)

(Squillo di tromba)

(I due restano a parlare da soli)

A questa altezza siede re Riccardo

per tuo consiglio e con il tuo ausilio.

Ma dovremo portarle, queste glorie,

per un giorno, o saranno per durare

nel tempo, e noi potremo rallegrarcene?

BUCKINGHAM -

Vivano sempre, e durino perenni!

RICCARDO -

Ah, Buckingham, mi faccio ora con te

pietra di paragone, per saggiare

se tu sei veramente d’oro schietto.

Il giovinetto Edoardo è ancora vivo…

Tu capisci che cosa voglio dire.

BUCKINGHAM -

Continuate, amato mio signore.

RICCARDO -

Diamine, Buckingham, intendo dire

che vorrei esser re.

BUCKINGHAM -

Ma voi lo siete,

mio tre volte degnissimo sovrano!

RICCARDO -

Ah, sì? È così… ma Edoardo è vivo.

BUCKINGHAM -

Vero, nobile principe.

RICCARDO -

Amara conclusione, questa tua,

che Edoardo sia vivo…

“Vero, nobile principe”… Cugino,

un tempo tu non eri così ottuso.

Debbo essere chiaro?

Li voglio morti, questi due bastardi!

E che sia fatto subito!

Che dici adesso? Rispondi e sii breve.

BUCKINGHAM -

Vostra grazia può fare ciò che vuole.

RICCARDO -

Va’, va’, mi pare che sei tutto ghiaccio!

La parentela ti si è congelata.

Di’, sei d’accordo che devon morire?

BUCKINGHAM -

Datemi un po’ di respiro, una pausa,

mio buon signore, avanti che su ciò

possa parlare positivamente.

Vi darò subito una risposta.

(Esce)

CATESBY -

(Agli altri nobili)

Il re è in preda all’ira;

guardate come si morde le labbra.

RICCARDO -

Voglio avere a che fare, d’ora innanzi

solo con imbecilli teste dure

o con giovanottelli senza scrupoli:

non mi piacciono quelli che mi scrutano

come volessero leggermi dentro.

Si fa guardingo l’ambizioso Buckingham…

(Al Paggio, a parte)

Ragazzo!

PAGGIO -

Mio signore?

RICCARDO -

Conosci tu qualcuno

che l’oro corruttore possa indurre

a una segreta faccenda di morte?

PAGGIO -

Conosco un gentiluomo

scontento perché i suoi modesti mezzi

non s’accordano colle sue pretese:

l’oro per lui sarebbe un argomento

più convincente di venti avvocati,

senza dubbio capace di tentarlo

a compiere qualunque malefatta.

RICCARDO -

Come si chiama?

PAGGIO -

Tyrrell, mio signore.

RICCARDO -

Mi pare di conoscerlo:

vallo a chiamare, e mandalo da me.

(Esce il paggio)

Quel Buckingham che rumina pensieri

e fa il furbo con me,

non sarà più da oggi il confidente

dei miei pensieri. Con me ha retto il passo

per tanto tempo, senza mai stancarsi,

ed ora, ecco, si ferma a prender fiato…

Ebbene, così ho detto e così sia!

Entra STANLEY

Ebbene allora, Lord Stanley, che nuove?

STANLEY -

Sappiate, dunque, amato mio signore,

che il marchese di Dorset, come ho udito,

se n’è fuggito a raggiungere Richmond,

dove questi si trova.

RICCARDO -

Catesby, senti: spargimi la voce

che mia moglie è malata, molto grave;

io darò l’ordine a chi dico io

che sia tenuta strettamente al chiuso.

Rintracciami un qualche nobiluomo

di mezza tacca, oscuro, squattrinato,

al quale potrei dar subito in moglie

la figliola del Duca di Clarenza.(100)

Quanto al maschio, è un autentico cretino,

e non mi mette il minimo pensiero.

Ma non star lì a guardarmi a bocca aperta!

Sveglia!… Ripeto: va’, spargi la voce

in giro che la mia regina, Anna,

è malata, in pericolo di vita.

Datti daffare, ché mi preme assai

soffocare sul nascere speranze,

che se vengono poi alimentate,

potrebbero riuscirmi perniciose.

(Esce Catesby)

È necessario ch’io mi prenda in moglie

la figlia di Edoardo, mio fratello;

altrimenti il mio regno poggerà

sopra un fragile vetro…

Uccidere i fratelli, e poi sposarla…

È via di malsicura riuscita,

ma sono ormai tanto avanti nel sangue,

che un delitto ne chiama dietro un altro.

Ormai negli occhi miei non ha più stanza

la pietà lacrimosa.

Entra TYRRELL

Sei tu, Tyrrell?

TYRRELL -

Son io: Giacomo Tyrrell,

obbedientissimo suddito vostro.

RICCARDO -

“Obbedientissimo”… Lo sei davvero?

TYRRELL -

Vostra Grazia può mettermi alla prova.

RICCARDO -

Avresti tu tanto fegato in corpo

da uccidermi un amico?

TYRRELL -

A vostro grado;

meglio però sarebbe due nemici.

RICCARDO -

Bene, allora ci sei: son due nemici

quelli di cui vorrei che t’occupassi,

che non dànno più tregua alla mia pace,

disturbatori dei miei dolci sonni,

Tyrrell; intendo dire i due bastardi

che si trovan rinchiusi nella Torre.

TYRRELL -

Apritemi la strada per raggiungerli,

e vi libererò dal loro incubo.

RICCARDO -

Tu mi canti una musica dolcissima.

Tyrrell, ascolta, fatti più vicino;

Va’ là con questo: è il mio lasciapassare.(101)

Alzati(102) e dammi orecchio.

(Tyrrell si alza e Riccardo gli sussurra qualcosa) all’orecchio)

Null’altro.(103) Dimmi solo: “È stato fatto”,

e io ti vorrò bene in sempiterno,

e ti ricoprirò di benefici.

TYRRELL -

Sbrigherò la faccenda in poco tempo.

(Esce)

Rientra BUCKINGHAM

BUCKINGHAM -

Mio signore, ho considerato a fondo

la richiesta su cui m’avete dianzi

voluto scandagliare.

RICCARDO

Ah, non importa,

lasciamola pur lì. Dorset, piuttosto:

ha preso il largo, è fuggito da Richmond.

BUCKINGHAM -

L’ho saputo, signore.

RICCARDO -

Stanley, Richmond

è figlio di tua moglie… Stacci attento…

BUCKINGHAM -

Monsignore, mi par giunto il momento

di reclamarvi quella concessione

che m’è dovuta per una promessa

sulla quale impegnaste il vostro onore:

intendo, sire, la contea di Hereford

coi beni mobili da voi promessimi.

RICCARDO -

(Senza badargli, e sempre rivolto a Stanley)

… tieni d’occhio tua moglie,

se dovesse mandar messaggi a Richmond,

me ne risponderai tu di persona.

BUCKINGHAM -

Che dice vostra altezza

riguardo a questa mia giusta richiesta?

RICCARDO -

(Sempre senza badargli, rivolto a Stanley)

Enrico Sesto, a quanto mi ricordo,

profetizzò che Richmond

sarebbe stato re, quand’egli, Richmond,

era ancora un monello impertinente….

Sarebbe stato re… Forse… chissà…

BUCKINGHAM -

Signore…

RICCARDO -

(c.s.)

Come mai quel preveggente

non seppe presagire al tempo stesso,

me presente, che io l’avrei ucciso?

BUCKINGHAM -

La promessa della contea, signore…

RICCARDO -

Richmond!… Recentemente fui ad Exeter,

ed il suo sindaco cortesemente

mi volle far vedere quel castello

e lo indicò col nome di Rougemont;(104)

ad udire il qual nome ebbi un sussulto,

perché un bardo d’Irlanda un certo giorno

mi predisse che non sarei vissuto

per molto tempo ancora,

dopo che avessi visto Rougemont.

BUCKINGHAM -

Signore…

RICCARDO -

Buckingham, che ore sono?

BUCKINGHAM -

… ardisco ricordare a vostra grazia

la promessa…

RICCARDO -

Sì, sì, ma che ore sono.

BUCKINGHAM -

Stanno quasi per battere le dieci.

RICCARDO -

Bene, lasciale battere.

BUCKINGHAM -

Perché “lasciale battere”, signore?

RICCARDO -

Perché come l’automa d’una pendola

tu sei lì che continui a battere

tra il postulare come un accattone

e il mio almanaccare per mio conto.

Oggi non sono in vena di regali!

BUCKINGHAM -

Compiacetevi almeno

di dire sì o no alla mia richiesta.

RICCARDO -

Non sono in vena. Non seccarmi più!

(Esce seguìto da tutti, meno Buckingham)

BUCKINGHAM -

Ah, così lui compensa i miei servigi?

Con quel fare sprezzante ed offensivo?

Per questo, dunque, l’avrei fatto re?…

Ahimè, pensiamo a quel ch’è capitato

ad Hastings, ed andiamo a rifugiarci

a Brecon,(105) finché resta sulle spalle

questa mia testa ormai pericolante!

(Esce)

 

 

 

SCENA III - ALTRA STANZA DEL PALAZZO

 

Entra TYRRELL

 

TYRRELL -

La più cruenta impresa, la più infame,

il più spietato, il più empio massacro

che il mondo abbia mai visto, è consumato!

Perfino quei cagnacci sanguinari

di Dighton e Farrest, due spietati,

cinici ed incalliti delinquenti,

che col denaro avevo subornato

a questa barbara carneficina

lacrimavano come due mocciosi,

sopraffatti da tenera pietà,

a raccontarmi tanta efferatezza.

“Oh - mi fa Dighton - quelle due creature

dormivano… così”. “Così, così -

fa Forrest - abbracciati l’uno all’altro

con quelle loro braccine innocenti,

color dell’alabastro….

Le loro labbra, quattro rose rosse

su di un unico stelo, e si baciavano

nel bel rigoglio della loro estate.

Sul lor guanciale un libro di preghiere,

che per un attimo - prosegue Forrest -

stava quasi per farmi mutar d’animo…

Ma oh, il diavolo!…” E così dicendo,

s’interruppe, lo scellerato. E Dighton:

“Abbiamo soffocato nella morte

il più dolce prodotto, il più perfetto

che la Natura abbia mai modellato

dal primo giorno della Creazione!”

E con questo, senza più altro dire

si sono allontanati,

con la coscienza rosa dal rimorso;

e così io li ho lasciati,

per venire a recarne la notizia

a questo re sanguinario… Ma eccolo.

Entra RICCARDO

Salute al mio signore.

RICCARDO -

Caro Tyrrell!

Qual felice notizia tu mi porti?

TYRRELL -

Se l’aver fatto quanto m’ordinaste

vi può fare felice, ebbene siatelo,

perché è fatto.

RICCARDO -

Ma li vedesti morti?

TYRRELL -

Sì, signore.

RICCARDO -

E sepolti?

TYRRELL -

Ad interrarli

provvide il cappellano della Torre;

come ed in quale luogo, non lo so.(106)

RICCARDO -

Passa da me subito dopo cena.(107)

Voglio sapere nei particolari

come son morti. Pensa, nel frattempo,

al modo come posso compensarti,

e conta di ottenere quel che chiedi.

Va’ ora.

TYRRELL -

Prendo umilmente congedo.

(Esce)

RICCARDO -

Il maschio di Clarenza l’ho rinchiuso

sotto stretta custodia; la sua femmina

l’ho sposata a un oscuro gentiluomo;

i due figli di Edoardo ora riposano

nel gran grembo d’Abramo; Anna, mia moglie,

ha detto buona notte a questo mondo.

Adesso, poiché sono a conoscenza

che il bretone Richmònd ha messo l’occhio

su Elisabetta, la giovane figlia

di mio fratello Edoardo,(108) e con quel nodo

mira spavaldamente alla corona,

vado da lei fare la mia parte

di prosperoso ed allegro aspirante.


Entra RATCLIFF, di corsa

RATCLIFF -

Mio signore…

RICCARDO -

Che irrompi a questo modo?

Buone o male notizie?

RATCLIFF -

Male, signore: Morton è fuggito

a raggiungere Richmond, e Buckingham,

spalleggiato dai validi gallesi,

è in campo, e va ingrossando le sue forze.

RICCARDO -

Ely con Richmond m’intriga di più

che Buckingham con tutte le sue forze

racimolate in tutta fretta e furia.

Non ci perdiamo in chiacchiere:

ho imparato che il trepido commento

è servo inerte al torpido indugiare;

e l’indugiare porta all’impotenza

ed a muoversi a passo di lumaca.

Sia dunque la bruciante speditezza

ala al mio volo, Mercurio di Giove,

e araldo per un re.

Vammi d’urgenza ad arruolare uomini.

Il mio scudo di guerra è questo avviso:

essere più fulminei possibile,

quando in campo ci sono traditori.


(Escono)

 

 

 

SCENA IV - Londra, davanti al palazzo reale.

 

Entra la vecchia REGINA MARGHERITA

 

MARGHERITA -

Ecco che adesso la loro fortuna

comincia a rinfrollirsi ed a disfarsi

nelle putride fauci della morte.

Son rimasta nascosta

accortamente entro questi paraggi,

per assistere al dissolvimento

di quelli che son stati i miei nemici.

Ho assistito ad un prologo feroce.

Ora tornerò in Francia,

sperando che lo svolgersi del dramma,

non sia meno crudele, fosco e tragico.

Entrano la DUCHESSA DI YORK

e la REGINA ELISABETTA

Chi viene?… Sventurata Margherita,

ritirati di nuovo!

(Si fa da parte)

ELISABETTA -

Ah, miei poveri principi!

Mie tenere creature!

Miei fiorellini non ancor sbocciati!

Mie dolcezze in germoglio!

Se ancora le vostre anime gentili

aleggiano nell’aria, non fissate

dal giudizio di Dio in lor dimora,

fluttuate con le vostre ali d’aria

intorno a me, ascoltate il lamento

di questa vostra disperata madre!

MARGHERITA -

(A parte)

Sì, aleggiatele intorno,

per dirle che, giustizia per giustizia,

giustizia è anche quella

che ha offuscato in decrepita notte

il bel mattino della vostra infanzia.

DUCHESSA -

Tante sventure m’han rotto e infiochito

la voce; e la mia lingua,

esausta dal dolore, è inerte e muta….

Edoardo Plantageneto, ahimè,

perché sei morto? Perché t’hanno ucciso?

MARGHERITA -

(c.s.)

Plantageneto per Plantageneto:

Edoardo paga un debito di morte

per un altro Edoardo.

DUCHESSA -

Come hai potuto, Dio Onnipotente,

involarti da sì teneri agnelli,

per sbalestrarli nel ventre del lupo?

Dormivi forse, tu,

quando si consumava quello scempio?

MARGHERITA -

(c.s.)

Come quando morì il mio santo Enrico

ed il mio dolce figlio.(109)

DUCHESSA -

Vita morta ch’io sono, vista cieca,

povero spettro mortale vivente,

spettacolo di lutto, onta del mondo,

diritto della tomba

dalla vita usurpato, breve sunto

e testimonio di giorni dolenti,

(Si siede per terra)(110)

ch’io racqueti la mia inquietudine

sul leal suolo inglese, slealmente

ubriacato con sangue innocente.

ELISABETTA -

Ah, potessi tu, terra,

apprestarmi qui subito una tomba,

come m’appresti un seggio di tristezza!

Potessi là nasconder le mie ossa,

senza doverle riposare qui!

(Si siede anch’essa per terra)

Chi ha cagione di lutto più di me!

MARGHERITA -

(Uscendo e facendosi avanti)

Se più antico dolore

è più degno di venerazione,

riconoscete al mio il beneficio

della priorità, e alle mie pene

il primo posto nell’indignazione.

E se il dolore ammette compagnia,

rifate il conto delle vostre pene

e poi paragonatele alle mie:

io avevo un Edoardo

fino a quando un Riccardo non l’ha ucciso;

io avevo un marito,

fino a quando Riccardo non l’ha ucciso;

(A Elisabetta)

tu avevi un Edoardo,

fino a quando Riccardo non l’ha ucciso;

tu avevi un Riccardo

fino a quando Riccardo non l’ha ucciso.

DUCHESSA -

Avevo anch’io un Riccardo;

e tu me l’hai ucciso; avevo un Rutland,

anche, e tu hai concorso a farlo uccidere.

MARGHERITA -

Tu avevi un Clarenza,

e Riccardo l’ha ucciso.

Tu, dal canile della tua matrice,

hai partorito un segugio infernale

che dà caccia mortale a tutti noi.

Tu, quel cane che prima d’aver occhi

ebbe denti per azzannare a morte

teneri agnelli e berne il dolce sangue;

quel turpe insulto all’opera di Dio;

quel supremo tiranno della terra

che regna in mezzo ad occhi tumefatti

d’anime in pianto, tu l’hai sguinzagliato

dal tuo grembo perché ci desse caccia

fino alla tomba tutti. Dio Signore,

retto, giusto ed esatto dispensiere,

oh, come ti ringrazia Margherita

che codesto carnivoro cagnaccio

si sia dato a sbranare anche la prole

partorita dal ventre di sua madre

e faccia sì che s’accompagni a noi

sopra uno stesso banco di lamenti!

DUCHESSA -

Non esultare delle mie sventure,

moglie d’Enrico; Dio m’è testimone

di quanto ho lagrimato per le tue.

MARGHERITA -

Compatiscimi, ho fame di vendetta,

ed ora me ne sazio a contemplarla

messa in atto. Il tuo Edoardo è morto,

che uccise il mio Edoardo; l’altro Edoardo,

morto per ripagare il mio Edoardo;

il giovinetto York è solo un peso

aggiunto alla bilancia

a compensare il più alto valore

da me perduto. Il tuo Clarenza è morto,

che uccise il mio Edoardo, pugnalandolo;

e tutti che di quel folle spettacolo

furono spettatori: Vaughan, Grey,

Rivers e quell’adultero di Hastings,(111)

tutti precocemente soffocati

nelle lor tombe. Ancor vivo è Riccardo,

tenebroso sensale dell’inferno,

risparmiato per fare incetta d’anime

e spedirle laggiù; ma la sua fine

seguirà molto presto, lacrimosa

e illacrimata. Si squarci la terra,

vada a fuoco l’inferno, urlino i diavoli,

preghino i santi affinché quel demonio

sia trascinato via di qui al più presto!

Annulla, Dio, ti prego, quanto prima

il buono di sua vita,(112)

perch’io possa esclamare, ancora viva,

“È morto quel cagnaccio!”

ELISABETTA -

Ohimè, tu ben me lo preconizzasti

che sarebbe venuto per me il giorno

in cui t’avrei chiamata a unirti a me

nel maledire insieme questo ragno,

questo immondo cagnaccio tumefatto,

questo gibboso, ributtante rospo!

MARGHERITA -

Io ti chiamai allora vuota immagine

della grandezza mia; misera ombra,

io ti chiamai, regina dipinta,

brutta copia di quel ch’io ero stata;

prologo lusinghiero

d’uno spettacolo terrificante;

issata in alto per cader più in basso;

madre da burla di due bei bambini;

rutilante vessillo, destinato

a bersaglio d’ogni esiziale colpo;

simulacro regale, fiato, bolla;

regina da burletta, destinata

solo a riempitivo della scena.

Dov’è più tuo marito?

Dove i fratelli tuoi, i tuoi due figli?

Che ti rimane più di cui gioire?

Chi più s’inchina supplice ai tuoi piedi

esclamando: “Dio salvi la regina”?

Dove son più gli inchini adulatori

dei Pari; dove son le moltitudini

che s’accalcavano a farti seguito?

Ripensa a tutto questo

e poi rifletti a quel che sei ridotta:

da una moglie felice

a una vedova affranta dal dolore;

da una madre beata d’esser madre

ad una che ne maledice il nome;

da una adusa a ricevere suppliche

ad una che ora supplica umilmente;

da regina ad autentico relitto,

coronato di triboli e d’affanni;

da una che di me si fece scherno

ad una ch’è schernita ora da me;

da una ch’era temuta da tutti

ed ora vive temendo uno solo;

da una adusa a comandare a tutti,

ad una da nessuno più obbedita.

Così ha virato il corso la Giustizia

e t’ha ridotto a una misera spoglia

preda del tempo, senza più con te

che il ricordo di quello che sei stata,

per tuo maggior tormento,

ora che sei ridotta a quel che sei.

Usurpasti il mio posto,

ed è giusto che usurpi ora una parte

della mia afflizione;

ed è giusto che il tuo collo orgoglioso

ora sopporti per metà con me

il mio pesante giogo, mentre io

ne ritiro da sotto il capo stanco

per lasciarne sul tuo l’intero peso.

Addio, moglie di York,

e regina di triste malasorte!

Sorriderò, una volta giunta in Francia,

a ripensare alle sventure inglesi.

ELISABETTA -

Ah, tu, maestra di maledizioni,

rimani un poco e dimmi come fare,

ti prego, a maledire i miei nemici.

MARGHERITA -

Imponiti di rinunciare al sonno

la notte, e al cibo il giorno;

confronta la felicità tua morta

col tuo dolore vivo;

pensa ai tuoi bimbi come a due creature

più tenere di quello che son state,

e a chi li uccise come a un assassino

più nefando di quanto egli già sia:

col pensare migliore la tua perdita,

tanto peggiore penserai l’ autore.

Tutto questo rimuginando in mente,

avrai imparato come maledire.

ELISABETTA -

Ma le parole mie son molli e fievoli;

rendimele più forti con le tue.

MARGHERITA -

Saranno sufficienti le tue pene

a renderle taglienti e penetranti.

(Esce)

DUCHESSA -

Perché poi la sventura

dev’esser così piena di parole?

ELISABETTA -

Avvocati ventosi degli affanni

dei lor clienti, ariosi legatari

di gioie non iscritte in testamenti,

ansimanti oratori di miserie,

le parole: lasciatele sfogare;

anche se ciò che vanno perorando

non serve ad altro, può servire almeno

ad alleviare il cuore.

DUCHESSA -

Se è così,

non tener dunque la lingua legata;

vieni con me, e insieme soffochiamo

col soffio di amarissime parole

quello stramaledetto figlio mio

che ha soffocato i dolci tuoi bambini.

(Tromba all’interno)

È lui. Non lesinargli le invettive.

Entrano RE RICCARDO, CATESBY, altri, marciando, con vessilli e tamburi. Le due donne gli si fanno incontro.

RICCARDO -

Chi intercetta la strada alla mia marcia?

DUCHESSA -

Chi, sciagurato? Oh, guardami: colei

che avrebbe ben potuto intercettarti,

strozzandoti nel suo dannato grembo,

dal consumare tutti gli assassinii

di cui ti sei macchiato!

ELISABETTA -

Credi tu forse di poter nascondere

con la corona d’oro quella fronte

su cui, se la giustizia fosse giusta,

dovrebb’essere impresso l’assassinio

di chi quella corona possedeva

da sovrano, e la morte scellerata

dei miei figli e fratelli?

DUCHESSA -

Rospo Rospo!

Dov’è Giorgio Clarenza, tuo fratello?

Dove sono i suoi figli? Su, rispondi!

ELISABETTA -

E dove sono Rivers, Vaughan, Grey?

DUCHESSA -

Ed il nobile Hastings!… Dov’è Hastings?

RICCARDO -

Squillate, trombe! Rullate tamburi,

sì che i cieli non abbiano ad udire

queste ciarliere femmine

urlare insulti all’Unto del Signore!

Suonate, ho detto. Avanti, che aspettate?

(Squilli di tromba e rullìo di tamburi)

Ora voi state calme,

e mi trattate come si conviene,

o annegherò le vostre imprecazioni

sotto più sordi clamori di guerra.

DUCHESSA -

Sei tu mio figlio?

RICCARDO -

Che domanda, madre!

E ne ringrazio Dio, mio padre e voi.

DUCHESSA -

Allora devi ascoltar con pazienza

ciò che ti dice qui la mia impazienza.

RICCARDO -

Signora, ho tratto da voi questo vizio:

che non sopporto accento di rimprovero.

DUCHESSA -

Oh, lasciami parlare.

RICCARDO -

Parlate pure, ma io non vi ascolto.

DUCHESSA -

Dirò parole miti e misurate.

RICCARDO -

E brevi, buona madre, perché ho fretta.

DUCHESSA -

Hai proprio tanta fretta?…

Io t’ho aspettato Dio sa quanto tempo,

in tormento ed angoscia.

RICCARDO -

Ed alla fine,

non son venuto a recarvi conforto?

DUCHESSA -

No, per la Croce Santa, e lo sai bene!

Tu sei venuto al mondo

per far di questo mondo il mio inferno.

Grave e dura per me fu la tua nascita;

iraconda e proterva la tua infanzia;

terribili, selvaggi, furibondi

i tuoi anni di scuola; scapestrata

la prima giovinezza: insidiosa,

scaltrita, sanguinaria, burbanzesca;

più tranquilla, ma solo in apparenza,

perché ammantata d’odio sorridente

e perciò stesso ancora più nefasta,

la tua età matura.

Puoi menzionare un’ora di sollievo

che m’abbia dato la tua compagnia?

RICCARDO -

Nessuna, no, salvo quell’ora d’Humphrey,

che vi chiamò a rompere il digiuno

senza la mia presenza.(113)

Ma se son così in odio agli occhi vostri,

fatemi proseguire la mia marcia

senza attardarmi qui ad irritarvi.

Tamburi!

DUCHESSA -

Aspetta, no, fammi finire!

RICCARDO -

Parlate troppo amaro.

DUCHESSA -

Una parola…

l’ultima. Non ce ne diremo più.

RICCARDO -

E sia, parlate.

DUCHESSA -

O sarai tu a morire

per giusto e santo decreto di Dio

prima di ritornare vittorioso

da questa spedizione; o sarò io,

carica d’anni e di tribolazioni,

a non poter veder più la tua faccia.

Voglio perciò che tu ti porti dietro

la più pesante mia maledizione,

sì ch’essa possa il dì della battaglia

gravarti addosso più dell’armatura.

Le mie preghiere scenderanno in campo

a combattere a fianco ai tuoi nemici,

e l’anime dei piccoli d’Edoardo

aliteranno là, a sussurrare

promesse di successo e di vittoria

ai tuoi nemici. Sanguinario sei,

e sanguinosa sarà la tua fine.

L’infamia che ti fu ministra in vita

ti sarà pur compagna nella morte.

(Esce)

ELISABETTA -

Ed io, per ben più valide ragioni,

se pur con meno forza e veemenza,

dico “Amen” alla sua maledizione.

(Fa per andarsene, ma Riccardo la ferma)

RICCARDO -

Fermatevi, signora,

debbo parlarvi.

ELISABETTA -

Parlarmi di che?

Non ho più figli di sangue reale

che tu possa scannare; e le mie figlie,

Riccardo, si faran monache oranti,

non regine piangenti;

non mirare perciò alle lor vite.(114)

RICCARDO -

Voi avete una figlia, Elisabetta,

virtuosa e bella, regale e graziosa.

ELISABETTA -

E deve ella morir per questo? Ah no,

lasciatemela vivere, Riccardo;

ed io corromperò i suoi costumi,

imbratterò la sua verde bellezza,

getterò su me stessa la calunnia

d’aver tradito il letto di Edoardo,

la coprirò col velo dell’infamia;

e dirò in giro, purché possa vivere

in salvo dal cruento tuo pugnale,

che essa non è figlia di Edoardo.

RICCARDO -

Non fare tale offesa ai suoi natali:

è principessa di sangue reale.

ELISABETTA -

Ed io dirò, per salvarle la vita,

che non lo è.

RICCARDO -

Ma sono i suoi natali

la miglior garanzia della sua vita.

ELISABETTA -

Sì, quella stessa per cui sono morti

i suoi fratelli.

RICCARDO -

Quelli ebbero avverse

alla lor nascita infauste stelle.

ELISABETTA -

No, ebbero avverse alle lor vite

infami parentele.

RICCARDO -

Il volere del fato è ineluttabile.

ELISABETTA -

Sì, quando a fare il volere del fato

è il ripudio della divina grazia.

A ben più degna morte

erano destinati i miei bambini,

se la Grazia t’avesse benedetto

con l’elargire a te più degna vita.

RICCARDO -

Parli come se fossi stato io

a uccidere i nipoti.

ELISABETTA -

Sì, nipoti!(115)

E dallo zio di tutto rapinati:

regno, famiglia, libertà e vita.

Di chiunque sia stata quella mano

che ha trafitto quei cuori di fanciulli,

fu la tua mente a guidarla in segreto;

ché senza dubbio il pugnale omicida

si fece prima la punta ed il filo

sopra la pietra dura del tuo cuore

per essere affondato nelle viscere

dei miei due agnellini.(116)

Se la continua morsa del dolore

non ne ammansisse il selvaggio furore,

questa mia lingua non saprebbe fare

ora al tuo orecchio il nome dei miei figli

senza ch’io ancorassi le mie unghie

al cavo dei tuoi occhi,

e, simile ad un barco alla deriva

rimasto senza vele né cordame

in questa squallida baia di morte,

andassi a fracassarmi disperata

incontro alla scogliera del tuo petto.

RICCARDO -

Signora, possa io aver successo

in quest’impresa e nel rischioso esito

di questa sanguinosa spedizione,

com’è vero ch’è mia buona intenzione

ora di far del bene a voi e ai vostri

più del male che v’ho fatto in passato.

ELISABETTA -

Quale bene può esistere,

coperto sotto la faccia del cielo,

che, una volta scoperto,

si possa rivelare per me un bene?

RICCARDO -

L’elevazione della vostra prole,

nobile dama.

ELISABETTA -

Sì, sopra un patibolo,

per perdervi la testa!

RICCARDO -

No, all’altezza

di dignità regale e di fortuna,

ai fastigi imperiali della gloria

su questa terra.

ELISABETTA -

Con questo tuo dire

tu vuoi sol lusingare il mio dolore.

Ma quale stato, quale dignità,

quale onore, puoi trasferire tu

ad uno dei miei figli?

RICCARDO -

Tutto ciò che posseggo… sì, me stesso

e tutto io mi sento di donare

ad uno dei tuoi figli

sì che tu possa in tal modo annegare

nel Lete del tuo animo adirato(117)

la triste rimembranza delle offese

che supponi che io t’abbia arrecato.

ELISABETTA -

Di’ presto, allora, avanti;

che codesto tuo sprazzo di bontà

non abbia a durar meno

dell’attimo che impieghi a dargli voce.

RICCARDO -

Ebbene sappi ch’io amo tua figlia

con tutta l’anima.

ELISABETTA -

E con tutta l’anima

la madre di mia figlia è pronta a crederlo.

RICCARDO -

Che vuoi dire?

ELISABETTA -

Che tu ami mia figlia

con tutta l’anima, come hai amato

con tutta l’anima i suoi fratelli,

ed io con tutta l’anima

ti ringrazio.

RICCARDO -

Non affrettarti troppo

a prender per traverso le parole;

intendo dire questo:

amo con tutta l’anima tua figlia

Elisabetta, e intendo far di lei

la regina del regno d’Inghilterra.

ELISABETTA -

Bene, e chi intendi che sarà il suo re?

RICCARDO -

Lo stesso che l’avrà fatta regina.

Chi altri dovrebbe essere?

ELISABETTA -

Che! Tu?

RICCARDO -

Precisamente. Perché, che ne pensi?

ELISABETTA -

E in che modo vorresti corteggiarla?

RICCARDO -

È quello che vorrei saper da te

come da quella che meglio di tutti

conosce il suo carattere.

ELISABETTA -

Da me?…

RICCARDO -

Da te, signora, sì, con tutto il cuore.

ELISABETTA -

Mandale allora, per lo stesso uomo

che le ha trucidato i due fratelli

una coppia di cuori insanguinati

con sopra incisi i nomi “Edoardo” e “York”.

E poiché forse lei scoppierà in lagrime,

mandale un fazzoletto - come quello

che mandò a suo padre Margherita

tutto intriso del sangue del suo Rutland -

e dille che è lo stesso fazzoletto

che è servito per asciugare il sangue

sul capo del suo dolce fratellino,

e invitala a servirsene anche lei

per tergersi le lacrime dal viso.

Se tutti questi stimoli amorosi

non riusciranno a farla innamorare,

falle avere un bel resoconto scritto

di tutte le tue meritorie gesta:

narrale, per esempio, come hai fatto

a sbarazzarti di suo zio Clarenza,

di suo zio Rivers… sì, e a liquidare

per amor suo la cara zia Anna.

RICCARDO -

Ti fai gioco di me, signora; questa

non è la via per conquistar tua figlia.

ELISABETTA -

Un’altra non ce n’è; salvo che tu

non possa reincarnarti in altra forma,

sì da non essere più quel Riccardo

autore di quel cumulo di crimini.

RICCARDO -

Diciamo che l’ho fatto, tutto questo,

per amore di lei.

ELISABETTA -

Peggio che mai!

Ché allora non potrebbe altro che odiarti

per aver tu sprecato tanto sangue

per comprarti il suo cuore.

RICCARDO -

Insomma, senti:

quello che è fatto è fatto, e capo ha.

Talvolta gli uomini maldestramente

compiono cose delle quali, in seguito,

hanno agio di pentirsi e ravvedersi.

Se ho sottratto il regno ai tuoi figlioli,

lo renderò, come ammenda, a tua figlia;

se ho depredato i frutti del tuo grembo,

genererò in compenso, da tua figlia,

per dare vita alla tua discendenza,

creature del tuo sangue.

Nonna è nome, per peso d’affezione,

non inferiore al titolo adorante

di madre; e saran come figli tuoi,

solo un grado più giù, ma stesso sangue,

stessa tempra del vostro,

tutti usciti da un unico travaglio,

eccettuata la notte di doglie

ch’ella dovrà soffrire a partorirli,

e che tu stessa soffristi per lei.

Se i figli tuoi sono stati il tormento

della tua giovinezza, quelli miei

saranno il gaudio della tua vecchiaia.

Se la tua perdita non è che un figlio

votato ad esser re, per quella perdita

una tua figlia si farà regina.

Non posso offrirti la riparazione

che pure avrei voluto; accetta dunque

i benefici che può offrirti questa.

Tuo figlio Dorset che, col cuore in pena,

calca con passo inquieto estranio suolo,

potrà, per questa fausta nostra unione,

tornare in patria ed anche ricoprirvi

cariche alte e di grande prestigio.

Il re che chiama col nome di moglie

la tua leggiadra figlia,

chiamerà con il nome di fratello

il tuo Dorsét; e tu sarai pur sempre

la madre d’un sovrano d’Inghilterra,

e ti saranno tutte restaurate,

da questa doppia ondata di letizia,

le rovine dei giorni procellosi.

Oh, ci sorridono giorni felici.

Le lacrime versate

ti torneran mutate in vive perle,

e il loro prestito ti frutterà

un interesse di felicità

dieci volte maggiore al loro pregio.

Va’, dunque, madre mia, va’ da tua figlia,

e fa’ più ardite con la tua esperienza

le ritrosie della sua scarsa età;

preparale il verginale orecchio

ad ascoltar parole innamorate,

accendi nel suo cuore di fanciulla

l’ambiziosa scintilla

della dorata maestà regale;

rendi la principessa consapevole

della dolcezza delle silenziose

ore di gioia tra marito e moglie.

E quando questo braccio

avrà dato il castigo che si merita

al piccolo ribelle testadura

Buckingham, tornerò;

e cinto di ghirlande trionfali

io guiderò tua figlia Elisabetta

al talamo di un conquistatore,

le farò dono delle mie conquiste,

e sarà lei la sola vincitrice

di questa guerra, il Cesare di Cesare.

ELISABETTA -

Come pensi sia meglio presentargliela?

Col dirle che il fratello di suo padre

aspira a diventare suo marito?

O dovrò dir suo zio?

Oppure l’uomo che le ha trucidato

i fratelli e gli zii? Sotto qual titolo

dovrò parlarle d’amore per te,

per fare in modo che Dio, e la legge,

e la mia dignità, ed il suo amore

ti facciano apparire bene accetto

ai suoi giovani anni?

RICCARDO -

Dille la pace che con questa unione

potrà godere la bella Inghilterra.

ELISABETTA -

Una pace che ella pagherà

al prezzo di una guerra permanente.

RICCARDO -

Dille che il re, che può ordinare, supplica.

ELISABETTA -

Per ottener da lei

cosa che a lei proibisce il Re dei re.

RICCARDO -

Dille ch’ella sarà una regina

alta e potente.

ELISABETTA -

Per versare lacrime,

come sua madre, sopra questo titolo.

RICCARDO -

Dille che l’amo d’un amore eterno.

ELISABETTA -

Ma quanto durerà quel tuo “eterno”?

RICCARDO -

Dolcemente costante

sino al fine della sua bella vita.

ELISABETTA -

Ma quanto a lungo “bella”

potrà durare la sua dolce vita?

RICCARDO -

Quanto a lungo vorran farla durare

il volere del cielo e la natura.

ELISABETTA -

Quanto a lungo sarà di gradimento

all’inferno e a Riccardo.

RICCARDO -

Dille ch’io, suo sovrano,

son suo umile suddito.

ELISABETTA -

Ma lei,

tua suddita, di tal sovranità

ha repugnanza.

RICCARDO -

Dille insomma

con le parole più belle e eloquenti

l’amore mio per lei.

ELISABETTA -

L’amore onesto

non ha bisogno di belle parole

per dichiararsi più efficacemente.

RICCARDO -

Diglielo allora con parole semplici.

ELISABETTA -

Semplice e disonesto

non s’accordano a fare un bel discorso.

RICCARDO -

Son troppo pronte e troppo terra-terra

le tue ragioni.

ELISABETTA -

Ahimè, le mie “ragioni”

sono fin troppo sprofondate in terra,

e morte, povere le mie creature!(118)

RICCARDO -

Non arpeggiare sulla stessa corda,

signora, queste son cose passate.

ELISABETTA -

Seguiterò a toccar la stessa corda,

fino a farmi spezzar quella del cuore.

RICCARDO -

Ma io ti giuro sopra il mio San Giorgio,

sulla mia Giarrettiera,(119)

la mia corona…

ELISABETTA -

Bestemmiato il primo,

macchiata di disdoro la seconda,

usurpata la terza…

RICCARDO -

… giuro…

ELISABETTA -

No!

Giurare tu non puoi su questi tre!

Il tuo San Giorgio, da te profanato,

ha perduto la sua sacralità;

la Giarrettiera, insozzata, ha impegnato

tutta la sua virtù cavalleresca;

la corona, usurpata,

ha infamato il regale suo fulgore.

Se per esser creduto vuoi giurare

su qualche cosa, giura su qualcosa

che tu non hai offeso.

RICCARDO -

Sul mondo, allora…

ELISABETTA -

Il mondo

è pieno degli infami tuoi delitti.

RICCARDO -

Allora sulla morte di mio padre.

ELISABETTA -

Con la tua vita l’hai disonorata.

RICCARDO -

Allora, su me stesso…

ELISABETTA -

Quel te stesso

s’è svilito finora da se stesso.

RICCARDO -

Bene, allora su Dio!

ELISABETTA -

Ohibò! A Lui

tu hai recato le offese più gravi.

Se tu avessi temuto di violare

un giuramento fatto nel Suo nome,

non avresti spezzato, come hai fatto,

la concordia raggiunta in questo regno

dai buoni uffici del re mio marito,

né sarebbero morti i miei fratelli.

Se tu avessi temuto

di venir meno a un voto fatto a Lui,

quell’imperial metallo

onde si cinge adesso la tua testa,

avrebbe ornato le tenere tempie

di mio figlio e sarebbero ancor vivi

e respiranti i due piccoli principi

- ahi troppo dolci compagni di letto

per giacersi abbracciati nella polvere! -

che il giuramento a Dio da te spezzato

ha dato in pasto ai vermi.

Allora, su che cosa puoi giurare?

RICCARDO -

Sull’avvenire.

ELISABETTA -

L’hai discreditato

col tuo passato, per il quale io stessa

dovrò tergermi ancora molte lacrime.

I figli ai quali hai trucidato i padri,

giovani e privi ormai di quel sostegno,

vivono sol per piangerli in vecchiaia;

i padri ai quali hai trucidato i figli,

vivono, sterili piante invecchiate,

sol per piangerli nella lor vecchiaia.

Non giurare sul tempo che verrà:

l’hai male usato già prima d’usarlo

per il mal uso fatto del trascorso.

RICCARDO -

Potessi avere in pugno la vittoria

contro l’armi nemiche,

nell’impresa rischiosa cui m’appresto,

com’è vero che ho l’animo disposto

a prosperar nel mio ravvedimento!

Mi maledico da me. Dio, fortuna,

interditemi ogni futura gioia!

Giorno, più non largirmi la tua luce,

né il tuo riposo, notte! E voi, pianeti

che presiedete alla buona fortuna,

siate avversi ai miei piani in quest’impresa,

se non è vero che con cuore pieno

di pura e immacolata devozione

io adoro tua figlia Elisabetta!

In lei siede la mia felicità

non meno che la tua: senza di lei,

per me, per te, per lei, per il paese

e per molte altre anime cristiane

sarà tristezza, consunzione, morte.

E tutto ciò non si potrà evitare

se non con questo. Perciò, cara madre

- così debbo chiamarti - sii con lei

una buona avvocata in mio favore,

e descrivimi a lei come sarò,

non come sono stato fino ad oggi;

non parlare dei meriti passati

ma dei futuri miei; insisti, insomma,

sulla necessità di queste nozze

e sulla situazione del momento,

non farti prender dal risentimento

davanti a sì fulgenti prospettive.

ELISABETTA -

Mi lascerò tentare dal demonio

fino a tal punto?

RICCARDO -

Sì, se quel demonio

ti tenta a fin di bene.

ELISABETTA -

Dovrò dimenticar dunque me stessa?

RICCARDO -

Sì, se il ricordo te ne porta danno.

ELISABETTA -

Hai ucciso i miei figli.

RICCARDO -

Ma sepolti

io li farò nel grembo di tua figlia,

e in quel nido di aromi profumato

a tuo grande conforto,

essi potran riprodurre se stessi.

ELISABETTA -

Dovrò io dunque andare da mia figlia

e persuaderla alla tua volontà?

RICCARDO -

A diventare una madre felice.

ELISABETTA -

Ci andrò. Scrivimi presto,

e ti farò sapere il suo pensiero.

RICCARDO -

Portale intanto, a pegno del mio amore,

questo bacio.

(La bacia)

Va’ dunque. Arrivederci.

(Esce Elisabetta)

S’è arresa. Femmina vuota e volubile!…

Entra RATCLIFF

Che notizie?

RATCLIFF -

Sovrano potentissimo,

al largo della costa, ad occidente,

ha messo l’ancora una grossa flotta.

Sulla spiaggia s’accalca una gran folla

di nostri, disarmati, malsicuri,

e, a quanto sembra, non molto decisi

a battersi e respingere il nemico.

Si pensa che sia Richmond l’ammiraglio

di quella flotta; e sono lì alla fonda

in attesa che arrivino da terra,

da Buckingham, gli aiuti per sbarcare.

RICCARDO -

Corra alcuno di voi, di buona gamba,

dal Duca di Norfolk… tu stesso, Ratcliff…

o Catesby… dov’è?

CATESBY -

Qui, monsignore.

RICCARDO -

Catesby, vola tu dal Duca.

CATESBY -

Subito,

più celere che posso, monsignore.

RICCARDO -

Vieni qui, Ratcliff, senti: corri a Salisbury.

Quando sei lì…

(A Catesby)

E tu che fai, che aspetti,

furfante pappamolla? Va’ dal Duca!

CATESBY -

Se non mi dite quel che devo dirgli,

vostra grazia…

RICCARDO -

Oh, è vero, caro Catesby!

Digli che arruoli a tamburo battente

il più grande e robusto nerbo d’uomini

che riesce a raccogliere, e poi subito

mi venga incontro a Salisbury.

CATESBY -

Vado.

(Esce)

RATCLIFF -

Che devo fare a Salisbury io,

vostra grazia?

RICCARDO -

Perché, che ci vuoi fare,

prima che arrivi là io?

RATCLIFF -

Non lo so.

Vostra altezza m’ha detto poco fa

di precederla là.

RICCARDO -

Ho cambiato idea.

Entra STANLEY

Stanley, quali notizie?

STANLEY -

Nessuna tanto buona, mio signore,

che possiate ascoltare con piacere;

nessuna, tuttavia, tanto cattiva

da non potersi proprio riferire.

RICCARDO -

Ehilà, un indovinello!…

Né buone, né cattive… C’è bisogno

però che tu ci giri tanto intorno,

quando puoi dire in modo più diretto

quello che devi? Insomma, che notizie?

STANLEY -

Richmond è sul mare.

RICCARDO -

Che ci affondi,

e il mare si richiuda su di lui!

Che ci fa là, quel vile rinnegato?

STANLEY -

Non so, ma posso ben indovinarlo,

mio possente sovrano.

RICCARDO -

E che indovini?

STANLEY -

Istigato da Dorset, Morton, Buckingham,

egli dirige sopra l’Inghilterra

per reclamarvi il trono.

RICCARDO -

E perché mai?

È forse vuoto il trono?

La spada non ha mano che l’impugni?

Il re è morto? L’impero è vacante?

Quale erede di York è ancora vivo,

all’infuori di me?

E chi ha diritto al trono d’Inghilterra

se non l’erede dell’augusto York?

E allora, che ci fa costui sul mare,

me lo sai dire?

STANLEY -

Non so dirvi altro,

mio signore, che quello che v’ho detto.

RICCARDO -

Sicché tu, all’infuori di pensare

ch’egli venga per essere tuo re,

non sai indovinare altro motivo

perché venga il Gallese.

Ho paura che tu stai meditando

di voltare gabbana,

e volare da lui.

STANLEY -

No, mio sovrano;

non pensate così male di me.

RICCARDO -

Allora dove sono le tue truppe

per ricacciarlo indietro? Dove sono

i tuoi fittavoli e i tuoi seguaci?

Non saranno per caso sulla spiaggia

a ponente a proteggere lo sbarco

di quei ribelli?

STANLEY -

No, mio buon signore,

i miei uomini sono tutti al nord.

RICCARDO -

Tiepidi amici! Che ci fanno al nord,

se il re ha bisogno di loro a ponente?

STANLEY -

Non ne hanno ricevuto nessun ordine,

mio possente sovrano.

Piaccia a vostra maestà di congedarmi,

ed io andrò a raccogliere i miei uomini,

e vi raggiungerò con essi, vostra grazia,

dove e quando vorrà vostra maestà.

RICCARDO -

Eh, già, tu ti vorresti allontanare

per unirti con Richmond.