Sanguinario sei,

e sanguinosa sarà la tua fine.

L’infamia che ti fu ministra in vita

ti sarà pur compagna nella morte.

(Esce)

ELISABETTA -

Ed io, per ben più valide ragioni,

se pur con meno forza e veemenza,

dico “Amen” alla sua maledizione.

(Fa per andarsene, ma Riccardo la ferma)

RICCARDO -

Fermatevi, signora,

debbo parlarvi.

ELISABETTA -

Parlarmi di che?

Non ho più figli di sangue reale

che tu possa scannare; e le mie figlie,

Riccardo, si faran monache oranti,

non regine piangenti;

non mirare perciò alle lor vite.(114)

RICCARDO -

Voi avete una figlia, Elisabetta,

virtuosa e bella, regale e graziosa.

ELISABETTA -

E deve ella morir per questo? Ah no,

lasciatemela vivere, Riccardo;

ed io corromperò i suoi costumi,

imbratterò la sua verde bellezza,

getterò su me stessa la calunnia

d’aver tradito il letto di Edoardo,

la coprirò col velo dell’infamia;

e dirò in giro, purché possa vivere

in salvo dal cruento tuo pugnale,

che essa non è figlia di Edoardo.

RICCARDO -

Non fare tale offesa ai suoi natali:

è principessa di sangue reale.

ELISABETTA -

Ed io dirò, per salvarle la vita,

che non lo è.

RICCARDO -

Ma sono i suoi natali

la miglior garanzia della sua vita.

ELISABETTA -

Sì, quella stessa per cui sono morti

i suoi fratelli.

RICCARDO -

Quelli ebbero avverse

alla lor nascita infauste stelle.

ELISABETTA -

No, ebbero avverse alle lor vite

infami parentele.

RICCARDO -

Il volere del fato è ineluttabile.

ELISABETTA -

Sì, quando a fare il volere del fato

è il ripudio della divina grazia.

A ben più degna morte

erano destinati i miei bambini,

se la Grazia t’avesse benedetto

con l’elargire a te più degna vita.

RICCARDO -

Parli come se fossi stato io

a uccidere i nipoti.

ELISABETTA -

Sì, nipoti!(115)

E dallo zio di tutto rapinati:

regno, famiglia, libertà e vita.

Di chiunque sia stata quella mano

che ha trafitto quei cuori di fanciulli,

fu la tua mente a guidarla in segreto;

ché senza dubbio il pugnale omicida

si fece prima la punta ed il filo

sopra la pietra dura del tuo cuore

per essere affondato nelle viscere

dei miei due agnellini.(116)

Se la continua morsa del dolore

non ne ammansisse il selvaggio furore,

questa mia lingua non saprebbe fare

ora al tuo orecchio il nome dei miei figli

senza ch’io ancorassi le mie unghie

al cavo dei tuoi occhi,

e, simile ad un barco alla deriva

rimasto senza vele né cordame

in questa squallida baia di morte,

andassi a fracassarmi disperata

incontro alla scogliera del tuo petto.

RICCARDO -

Signora, possa io aver successo

in quest’impresa e nel rischioso esito

di questa sanguinosa spedizione,

com’è vero ch’è mia buona intenzione

ora di far del bene a voi e ai vostri

più del male che v’ho fatto in passato.

ELISABETTA -

Quale bene può esistere,

coperto sotto la faccia del cielo,

che, una volta scoperto,

si possa rivelare per me un bene?

RICCARDO -

L’elevazione della vostra prole,

nobile dama.

ELISABETTA -

Sì, sopra un patibolo,

per perdervi la testa!

RICCARDO -

No, all’altezza

di dignità regale e di fortuna,

ai fastigi imperiali della gloria

su questa terra.

ELISABETTA -

Con questo tuo dire

tu vuoi sol lusingare il mio dolore.

Ma quale stato, quale dignità,

quale onore, puoi trasferire tu

ad uno dei miei figli?

RICCARDO -

Tutto ciò che posseggo… sì, me stesso

e tutto io mi sento di donare

ad uno dei tuoi figli

sì che tu possa in tal modo annegare

nel Lete del tuo animo adirato(117)

la triste rimembranza delle offese

che supponi che io t’abbia arrecato.

ELISABETTA -

Di’ presto, allora, avanti;

che codesto tuo sprazzo di bontà

non abbia a durar meno

dell’attimo che impieghi a dargli voce.

RICCARDO -

Ebbene sappi ch’io amo tua figlia

con tutta l’anima.

ELISABETTA -

E con tutta l’anima

la madre di mia figlia è pronta a crederlo.

RICCARDO -

Che vuoi dire?

ELISABETTA -

Che tu ami mia figlia

con tutta l’anima, come hai amato

con tutta l’anima i suoi fratelli,

ed io con tutta l’anima

ti ringrazio.

RICCARDO -

Non affrettarti troppo

a prender per traverso le parole;

intendo dire questo:

amo con tutta l’anima tua figlia

Elisabetta, e intendo far di lei

la regina del regno d’Inghilterra.

ELISABETTA -

Bene, e chi intendi che sarà il suo re?

RICCARDO -

Lo stesso che l’avrà fatta regina.

Chi altri dovrebbe essere?

ELISABETTA -

Che! Tu?

RICCARDO -

Precisamente. Perché, che ne pensi?

ELISABETTA -

E in che modo vorresti corteggiarla?

RICCARDO -

È quello che vorrei saper da te

come da quella che meglio di tutti

conosce il suo carattere.

ELISABETTA -

Da me?…

RICCARDO -

Da te, signora, sì, con tutto il cuore.

ELISABETTA -

Mandale allora, per lo stesso uomo

che le ha trucidato i due fratelli

una coppia di cuori insanguinati

con sopra incisi i nomi “Edoardo” e “York”.

E poiché forse lei scoppierà in lagrime,

mandale un fazzoletto - come quello

che mandò a suo padre Margherita

tutto intriso del sangue del suo Rutland -

e dille che è lo stesso fazzoletto

che è servito per asciugare il sangue

sul capo del suo dolce fratellino,

e invitala a servirsene anche lei

per tergersi le lacrime dal viso.

Se tutti questi stimoli amorosi

non riusciranno a farla innamorare,

falle avere un bel resoconto scritto

di tutte le tue meritorie gesta:

narrale, per esempio, come hai fatto

a sbarazzarti di suo zio Clarenza,

di suo zio Rivers… sì, e a liquidare

per amor suo la cara zia Anna.

RICCARDO -

Ti fai gioco di me, signora; questa

non è la via per conquistar tua figlia.

ELISABETTA -

Un’altra non ce n’è; salvo che tu

non possa reincarnarti in altra forma,

sì da non essere più quel Riccardo

autore di quel cumulo di crimini.

RICCARDO -

Diciamo che l’ho fatto, tutto questo,

per amore di lei.

ELISABETTA -

Peggio che mai!

Ché allora non potrebbe altro che odiarti

per aver tu sprecato tanto sangue

per comprarti il suo cuore.

RICCARDO -

Insomma, senti:

quello che è fatto è fatto, e capo ha.

Talvolta gli uomini maldestramente

compiono cose delle quali, in seguito,

hanno agio di pentirsi e ravvedersi.

Se ho sottratto il regno ai tuoi figlioli,

lo renderò, come ammenda, a tua figlia;

se ho depredato i frutti del tuo grembo,

genererò in compenso, da tua figlia,

per dare vita alla tua discendenza,

creature del tuo sangue.

Nonna è nome, per peso d’affezione,

non inferiore al titolo adorante

di madre; e saran come figli tuoi,

solo un grado più giù, ma stesso sangue,

stessa tempra del vostro,

tutti usciti da un unico travaglio,

eccettuata la notte di doglie

ch’ella dovrà soffrire a partorirli,

e che tu stessa soffristi per lei.

Se i figli tuoi sono stati il tormento

della tua giovinezza, quelli miei

saranno il gaudio della tua vecchiaia.

Se la tua perdita non è che un figlio

votato ad esser re, per quella perdita

una tua figlia si farà regina.

Non posso offrirti la riparazione

che pure avrei voluto; accetta dunque

i benefici che può offrirti questa.

Tuo figlio Dorset che, col cuore in pena,

calca con passo inquieto estranio suolo,

potrà, per questa fausta nostra unione,

tornare in patria ed anche ricoprirvi

cariche alte e di grande prestigio.

Il re che chiama col nome di moglie

la tua leggiadra figlia,

chiamerà con il nome di fratello

il tuo Dorsét; e tu sarai pur sempre

la madre d’un sovrano d’Inghilterra,

e ti saranno tutte restaurate,

da questa doppia ondata di letizia,

le rovine dei giorni procellosi.

Oh, ci sorridono giorni felici.

Le lacrime versate

ti torneran mutate in vive perle,

e il loro prestito ti frutterà

un interesse di felicità

dieci volte maggiore al loro pregio.

Va’, dunque, madre mia, va’ da tua figlia,

e fa’ più ardite con la tua esperienza

le ritrosie della sua scarsa età;

preparale il verginale orecchio

ad ascoltar parole innamorate,

accendi nel suo cuore di fanciulla

l’ambiziosa scintilla

della dorata maestà regale;

rendi la principessa consapevole

della dolcezza delle silenziose

ore di gioia tra marito e moglie.

E quando questo braccio

avrà dato il castigo che si merita

al piccolo ribelle testadura

Buckingham, tornerò;

e cinto di ghirlande trionfali

io guiderò tua figlia Elisabetta

al talamo di un conquistatore,

le farò dono delle mie conquiste,

e sarà lei la sola vincitrice

di questa guerra, il Cesare di Cesare.

ELISABETTA -

Come pensi sia meglio presentargliela?

Col dirle che il fratello di suo padre

aspira a diventare suo marito?

O dovrò dir suo zio?

Oppure l’uomo che le ha trucidato

i fratelli e gli zii? Sotto qual titolo

dovrò parlarle d’amore per te,

per fare in modo che Dio, e la legge,

e la mia dignità, ed il suo amore

ti facciano apparire bene accetto

ai suoi giovani anni?

RICCARDO -

Dille la pace che con questa unione

potrà godere la bella Inghilterra.

ELISABETTA -

Una pace che ella pagherà

al prezzo di una guerra permanente.

RICCARDO -

Dille che il re, che può ordinare, supplica.

ELISABETTA -

Per ottener da lei

cosa che a lei proibisce il Re dei re.

RICCARDO -

Dille ch’ella sarà una regina

alta e potente.

ELISABETTA -

Per versare lacrime,

come sua madre, sopra questo titolo.

RICCARDO -

Dille che l’amo d’un amore eterno.

ELISABETTA -

Ma quanto durerà quel tuo “eterno”?

RICCARDO -

Dolcemente costante

sino al fine della sua bella vita.

ELISABETTA -

Ma quanto a lungo “bella”

potrà durare la sua dolce vita?

RICCARDO -

Quanto a lungo vorran farla durare

il volere del cielo e la natura.

ELISABETTA -

Quanto a lungo sarà di gradimento

all’inferno e a Riccardo.

RICCARDO -

Dille ch’io, suo sovrano,

son suo umile suddito.

ELISABETTA -

Ma lei,

tua suddita, di tal sovranità

ha repugnanza.

RICCARDO -

Dille insomma

con le parole più belle e eloquenti

l’amore mio per lei.

ELISABETTA -

L’amore onesto

non ha bisogno di belle parole

per dichiararsi più efficacemente.

RICCARDO -

Diglielo allora con parole semplici.

ELISABETTA -

Semplice e disonesto

non s’accordano a fare un bel discorso.

RICCARDO -

Son troppo pronte e troppo terra-terra

le tue ragioni.

ELISABETTA -

Ahimè, le mie “ragioni”

sono fin troppo sprofondate in terra,

e morte, povere le mie creature!(118)

RICCARDO -

Non arpeggiare sulla stessa corda,

signora, queste son cose passate.

ELISABETTA -

Seguiterò a toccar la stessa corda,

fino a farmi spezzar quella del cuore.

RICCARDO -

Ma io ti giuro sopra il mio San Giorgio,

sulla mia Giarrettiera,(119)

la mia corona…

ELISABETTA -

Bestemmiato il primo,

macchiata di disdoro la seconda,

usurpata la terza…

RICCARDO -

… giuro…

ELISABETTA -

No!

Giurare tu non puoi su questi tre!

Il tuo San Giorgio, da te profanato,

ha perduto la sua sacralità;

la Giarrettiera, insozzata, ha impegnato

tutta la sua virtù cavalleresca;

la corona, usurpata,

ha infamato il regale suo fulgore.

Se per esser creduto vuoi giurare

su qualche cosa, giura su qualcosa

che tu non hai offeso.

RICCARDO -

Sul mondo, allora…

ELISABETTA -

Il mondo

è pieno degli infami tuoi delitti.

RICCARDO -

Allora sulla morte di mio padre.

ELISABETTA -

Con la tua vita l’hai disonorata.

RICCARDO -

Allora, su me stesso…

ELISABETTA -

Quel te stesso

s’è svilito finora da se stesso.

RICCARDO -

Bene, allora su Dio!

ELISABETTA -

Ohibò! A Lui

tu hai recato le offese più gravi.

Se tu avessi temuto di violare

un giuramento fatto nel Suo nome,

non avresti spezzato, come hai fatto,

la concordia raggiunta in questo regno

dai buoni uffici del re mio marito,

né sarebbero morti i miei fratelli.

Se tu avessi temuto

di venir meno a un voto fatto a Lui,

quell’imperial metallo

onde si cinge adesso la tua testa,

avrebbe ornato le tenere tempie

di mio figlio e sarebbero ancor vivi

e respiranti i due piccoli principi

- ahi troppo dolci compagni di letto

per giacersi abbracciati nella polvere! -

che il giuramento a Dio da te spezzato

ha dato in pasto ai vermi.

Allora, su che cosa puoi giurare?

RICCARDO -

Sull’avvenire.

ELISABETTA -

L’hai discreditato

col tuo passato, per il quale io stessa

dovrò tergermi ancora molte lacrime.

I figli ai quali hai trucidato i padri,

giovani e privi ormai di quel sostegno,

vivono sol per piangerli in vecchiaia;

i padri ai quali hai trucidato i figli,

vivono, sterili piante invecchiate,

sol per piangerli nella lor vecchiaia.

Non giurare sul tempo che verrà:

l’hai male usato già prima d’usarlo

per il mal uso fatto del trascorso.

RICCARDO -

Potessi avere in pugno la vittoria

contro l’armi nemiche,

nell’impresa rischiosa cui m’appresto,

com’è vero che ho l’animo disposto

a prosperar nel mio ravvedimento!

Mi maledico da me. Dio, fortuna,

interditemi ogni futura gioia!

Giorno, più non largirmi la tua luce,

né il tuo riposo, notte! E voi, pianeti

che presiedete alla buona fortuna,

siate avversi ai miei piani in quest’impresa,

se non è vero che con cuore pieno

di pura e immacolata devozione

io adoro tua figlia Elisabetta!

In lei siede la mia felicità

non meno che la tua: senza di lei,

per me, per te, per lei, per il paese

e per molte altre anime cristiane

sarà tristezza, consunzione, morte.

E tutto ciò non si potrà evitare

se non con questo. Perciò, cara madre

- così debbo chiamarti - sii con lei

una buona avvocata in mio favore,

e descrivimi a lei come sarò,

non come sono stato fino ad oggi;

non parlare dei meriti passati

ma dei futuri miei; insisti, insomma,

sulla necessità di queste nozze

e sulla situazione del momento,

non farti prender dal risentimento

davanti a sì fulgenti prospettive.

ELISABETTA -

Mi lascerò tentare dal demonio

fino a tal punto?

RICCARDO -

Sì, se quel demonio

ti tenta a fin di bene.

ELISABETTA -

Dovrò dimenticar dunque me stessa?

RICCARDO -

Sì, se il ricordo te ne porta danno.

ELISABETTA -

Hai ucciso i miei figli.

RICCARDO -

Ma sepolti

io li farò nel grembo di tua figlia,

e in quel nido di aromi profumato

a tuo grande conforto,

essi potran riprodurre se stessi.

ELISABETTA -

Dovrò io dunque andare da mia figlia

e persuaderla alla tua volontà?

RICCARDO -

A diventare una madre felice.

ELISABETTA -

Ci andrò. Scrivimi presto,

e ti farò sapere il suo pensiero.

RICCARDO -

Portale intanto, a pegno del mio amore,

questo bacio.

(La bacia)

Va’ dunque. Arrivederci.

(Esce Elisabetta)

S’è arresa. Femmina vuota e volubile!…

Entra RATCLIFF

Che notizie?

RATCLIFF -

Sovrano potentissimo,

al largo della costa, ad occidente,

ha messo l’ancora una grossa flotta.

Sulla spiaggia s’accalca una gran folla

di nostri, disarmati, malsicuri,

e, a quanto sembra, non molto decisi

a battersi e respingere il nemico.

Si pensa che sia Richmond l’ammiraglio

di quella flotta; e sono lì alla fonda

in attesa che arrivino da terra,

da Buckingham, gli aiuti per sbarcare.

RICCARDO -

Corra alcuno di voi, di buona gamba,

dal Duca di Norfolk… tu stesso, Ratcliff…

o Catesby… dov’è?

CATESBY -

Qui, monsignore.

RICCARDO -

Catesby, vola tu dal Duca.

CATESBY -

Subito,

più celere che posso, monsignore.

RICCARDO -

Vieni qui, Ratcliff, senti: corri a Salisbury.

Quando sei lì…

(A Catesby)

E tu che fai, che aspetti,

furfante pappamolla? Va’ dal Duca!

CATESBY -

Se non mi dite quel che devo dirgli,

vostra grazia…

RICCARDO -

Oh, è vero, caro Catesby!

Digli che arruoli a tamburo battente

il più grande e robusto nerbo d’uomini

che riesce a raccogliere, e poi subito

mi venga incontro a Salisbury.

CATESBY -

Vado.

(Esce)

RATCLIFF -

Che devo fare a Salisbury io,

vostra grazia?

RICCARDO -

Perché, che ci vuoi fare,

prima che arrivi là io?

RATCLIFF -

Non lo so.

Vostra altezza m’ha detto poco fa

di precederla là.

RICCARDO -

Ho cambiato idea.

Entra STANLEY

Stanley, quali notizie?

STANLEY -

Nessuna tanto buona, mio signore,

che possiate ascoltare con piacere;

nessuna, tuttavia, tanto cattiva

da non potersi proprio riferire.

RICCARDO -

Ehilà, un indovinello!…

Né buone, né cattive… C’è bisogno

però che tu ci giri tanto intorno,

quando puoi dire in modo più diretto

quello che devi? Insomma, che notizie?

STANLEY -

Richmond è sul mare.

RICCARDO -

Che ci affondi,

e il mare si richiuda su di lui!

Che ci fa là, quel vile rinnegato?

STANLEY -

Non so, ma posso ben indovinarlo,

mio possente sovrano.

RICCARDO -

E che indovini?

STANLEY -

Istigato da Dorset, Morton, Buckingham,

egli dirige sopra l’Inghilterra

per reclamarvi il trono.

RICCARDO -

E perché mai?

È forse vuoto il trono?

La spada non ha mano che l’impugni?

Il re è morto? L’impero è vacante?

Quale erede di York è ancora vivo,

all’infuori di me?

E chi ha diritto al trono d’Inghilterra

se non l’erede dell’augusto York?

E allora, che ci fa costui sul mare,

me lo sai dire?

STANLEY -

Non so dirvi altro,

mio signore, che quello che v’ho detto.

RICCARDO -

Sicché tu, all’infuori di pensare

ch’egli venga per essere tuo re,

non sai indovinare altro motivo

perché venga il Gallese.

Ho paura che tu stai meditando

di voltare gabbana,

e volare da lui.

STANLEY -

No, mio sovrano;

non pensate così male di me.

RICCARDO -

Allora dove sono le tue truppe

per ricacciarlo indietro? Dove sono

i tuoi fittavoli e i tuoi seguaci?

Non saranno per caso sulla spiaggia

a ponente a proteggere lo sbarco

di quei ribelli?

STANLEY -

No, mio buon signore,

i miei uomini sono tutti al nord.

RICCARDO -

Tiepidi amici! Che ci fanno al nord,

se il re ha bisogno di loro a ponente?

STANLEY -

Non ne hanno ricevuto nessun ordine,

mio possente sovrano.

Piaccia a vostra maestà di congedarmi,

ed io andrò a raccogliere i miei uomini,

e vi raggiungerò con essi, vostra grazia,

dove e quando vorrà vostra maestà.

RICCARDO -

Eh, già, tu ti vorresti allontanare

per unirti con Richmond. Non mi fido.

STANLEY -

Sovrano potentissimo,

non ci può essere alcun motivo

che voi siate portato a dubitare

della mia amicizia. Traditore

non sono stato mai, né mai sarò.

RICCARDO -

E allora va’, e raduna i tuoi uomini;

ma lascia qui con me tuo figlio Giorgio.

E bada a tener salda la tua fede,

o si farà precaria la saldezza

della sua testa.

STANLEY -

Vogliate trattarlo

così com’io saprò provare a voi

tutta la mia lealtà.

(Esce)

Entra un PRIMO MESSO

PRIMO MESSO -

Mio grazioso sovrano, nel Devonshire,

come m’hanno informato degli amici,

Sir Edward Courtney con suo fratello,

il tracotante vescovo di Exeter,

sono in armi, e con loro un grande numero

di lor confederati.

Entra un SECONDO MESSO

SECONDO MESSO -

Mio sovrano,

nel Kent i Guilford sono ora in armi,

e d’ora in ora convengono a gara

molti e molti altri a fianco dei ribelli,

ingrossando vieppiù le loro file.

Entra un TERZO MESSO

TERZO MESSO -

Sire, l’esercito del grande Buckingham…

RICCARDO -

Al diavolo, uccellacci di sventura!

che! venite a cantar solo di morte?

(Lo percuote)

Toh, prendi questo tu,

finché non porti migliori notizie!

TERZO MESSO -

Ma la notizia per cui son venuto

da vostra maestà, sire, era questa:

che improvvisi diluvi e inondazioni

hanno tutto disperso e sparpagliato

l’esercito di Buckingham,

e che lui se ne va solo e ramingo,

dove diretto, nessuno lo sa.

RICCARDO -

Scusami, allora. Prendi questa borsa,

per sollevarti dalle mie percosse.

E dimmi: qualche amico preveggente

ha proclamato una buona mercede

a chi catturerà quel traditore?

TERZO MESSO -

La promessa, signore, fu bandita

per pubblico proclama.

Entra un QUARTO MESSO

QUARTO MESSO -

Corre voce, maestà,

che il marchese di Dorset e lord Lovell

siano in armi nella contea di York;

ma reco a vostra altezza questo annuncio

che la conforterà: la flotta bretone

dispersa in mare dalla gran tempesta;

Richmond, al largo della costa Dorset,

ha fatto andare a terra una scialuppa

a chiedere alla gente ch’era a riva

se fossero dalla sua parte o no;

e quelli gli han risposto ch’eran là

mandati da lord Buckingham

appunto per proteggere il suo sbarco.

Ma Richmond, non fidandosi di loro,

ha levato le vele e nuovamente

ha fatto rotta verso la Bretagna.

RICCARDO -

In marcia, in marcia; giacché siamo in armi,

se non per affrontar nemici esterni,

almeno per schiacciar questi ribelli

di casa nostra. Avanti!

Entra CATESBY

CATESBY -

Mio sovrano, lord Buckingham è preso;

questo è quanto di meglio posso dirvi.

Ma il Conte Richmond è sbarcato a Milford

con un potente esercito:

è una notizia meno confortante,

ve la dovevo dare tuttavia.

RICCARDO -

Avanti, avanti, in marcia sopra Salisbury!

Mentre qui discutiamo, una battaglia

che vale un regno potrebb’esser vinta

oppure persa! S’occupi qualcuno

di far tradurre Buckingham a Salisbury

prigione; gli altri in marcia insieme a me!

(Tromba. Escono tutti)

 

 

 

SCENA V - Londra, in casa di Lord Stanley.

 

Entrano STANLEY e don(120) Cristoforo URSWICK

 

STANLEY -

Don Cristoforo, dirai questo a Richmond,

da parte mia: che Giorgio, il mio figliolo,

è tenuto all’ingrasso nel porcile

di quel temibilissimo cinghiale;(121)

se a lui mi rivoltassi apertamente,(122)

la testa di mio figlio salterebbe;

che la paura di ciò mi trattiene

dal fargli avere subito il mio aiuto.

Parti, e salutami il tuo signore.

Informalo altresì che la regina

ha consentito molto di buon cuore

ch’egli sposi sua figlia Elisabetta.

Ma, dimmi, dov’è ora acquartierato

il nobilissimo Richmond?

URSWICK -

A Pembroke,

o forse anche ad Hardforest, nel Galles.(123)

STANLEY -

Chi c’è con lui, di nobili?

URSWICK -

Sir Walter Herbert, famoso soldato,

Sir Gibert Talbot e sir William Stanley,

Oxford, il temutissimo lord Pembroke,

e poi Sir James Blunt e Rice ap Thomas,(124)

con tutto un seguito di valorosi

e molti altri di nome e gran valore.

Puntano con gli eserciti su Londra,

salvo che non si trovino impegnati

a dar battaglia prima.

STANLEY -

Bene, va’,

affrettati a tornar dal suo signore.

Io gli bacio la mano. Questa lettera

gli chiarirà le mie intenzioni. Addio.

(Escono)

 

 

ATTO QUINTO

 

SCENA I - Salisbury, una piazza.

 

Entra lo SCERIFFO con alabardieri, che scortano BUCKINGHAM al supplizio

 

BUCKINGHAM -

Non mi vuole ascoltare re Riccardo?

SCERIFFO -

No, signore; dovete rassegnarvi.

BUCKINGHAM -

O William Hastings, o figli d’Edoardo,

o Grey, o Rivers, o santo re Enrico

e il tuo diletto figlio Edoardo, o Vaughan,

e tutti voi che perdeste la vita,

per occulta e nefanda iniquità,

se le vostre anime crucciate e inquiete

vedon di tra le nuvole quest’ora,

fatevi scherno della mia rovina,

non foss’altro che per vostra vendetta!

Oggi è il giorno dei Morti, amico, è vero?

SCERIFFO -

Sì.

BUCKINGHAM -

Ecco, allora, ci siamo: il dì dei Morti

è il giorno del Giudizio del mio corpo;

è il giorno ch’io, vivente re Edoardo,

m’augurai che segnasse la mia fine

se mai avessi tradito i suoi figli

ed i parenti della sua regina;

è il giorno ch’io m’augurai di morire

vittima della falsa lealtà

dell’amico di cui più mi fidassi.

Questo giorno dei Morti, proprio questo,

è, per la spaurita anima mia,

il termine assegnato ai miei delitti.

Quell’altissimo Iddio che tutto vede,

e col quale ho creduto di scherzare,

ecco che ora ritorce sul mio capo

le mie false ed ipocrite preghiere,

e mi dà seriamente

quello ch’io spesso Gli ho chiesto per burla.

Così Egli alle spade degli infami

ordina di ritorcere la punta

contro il petto di quelli che le impugnano;

così cade pesante sul mio collo

l’amara profezia di Margherita:

“Quand’egli - mi predisse quella volta -

t’avrà spezzato il cuore dal dolore,

tu ti ricorderai di Margherita,

che te l’ha profetato!”… Andiamo, guardie,

conducetemi al ceppo dell’infamia.

Al male tocca il male,

all’ignominia tocca l’ignominia.

(Esce con gli alabardieri)

 

 

 

SCENA II - Il campo presso Tamworth(125)

 

Entrano RICHMOND, OXFORD, BLOUNT, HERBERT,

e soldati, con tamburi e vessilli

 

RICHMOND -

Commilitoni, amici fedelissimi

oppressi sotto il giogo del tiranno:

fin qui ci siamo spinti molto avanti

nelle viscere stesse del paese,

senza incontrare ostacoli di sorta;

e qui ricevo da mio padre Stanley,(126)

un messaggio con valida promessa

di sostegno e d’incoraggiamento.

Lo scellerato, sanguinario verro

usurpatore, che ha messo in rovina

i vostri campi opimi di raccolti

e le vigne ubertose, ora trangugia

come brodaglia il vostro sangue caldo

e fa dei vostri petti dilaniati

il suo trogolo. Questo immondo verro

ora si trova al centro di quest’isola,

come m’informano, davanti a Leicester,(127)

a un giorno appena di marcia da qui.

Miei prodi amici, nel nome di Dio,

avanti, con fiduciosa baldanza,

a raccoglier le messe d’una pace

che duri eterna, attraverso la prova

di questa cruda e sanguinosa guerra.

Di mille spade è fatta la coscienza

di ciascuno di quanti siamo qui

contro questo colpevole assassino.

HERBERT -

E passeranno a noi, sono sicuro,

tutti che sono adesso suoi alleati.

BLOUNT -

Altro alleato non gli resta infatti

se non che chi lo è solo per paura

e che nell’ora estrema del bisogno

gli volterà le spalle.

RICHMOND -

Tutto a nostro vantaggio; e allora, in marcia!

Speranza che procede da virtù

rapida vola con ali di rondine;

d’un re fa un dio, e d’un umile un re.

(Escono)

 

 

 

SCENA III - Il campo di Boswort

 

Entrano RE RICCARDO, in armi, il DUCA DI NORFOLK,

il CONTE DI SURREY e altri

 

RICCARDO -

La nostra tenda piantatela qui,

qui, sul campo di Bosworth…

Monsignore di Surrey,

perché avete quell’aria così grave?

SURREY -

Ho il cuore cento volte più leggero

della mia aria, sire.

RICCARDO -

Dov’è Norfolk?

NORFOLK -

Sono qui, vostra grazia.

RICCARDO -

Norfolk, domani ci sarà da dare

gran botte, eh, non è vero?

NORFOLK -

Darne, e pigliarne, amato mio signore.

RICCARDO -

Che aspettate ad issare la mia tenda?

Questa notte voglio dormire qui…

Domani chissà dove… Ma che importa…

(La tenda è rizzata su un lato della scena)

Chi ha potuto contare

il numero di questi traditori?

NORFOLK -

Un sei o settemila, non di più.

RICCARDO -

Il nostro esercito è tre volte tanto,

e in più di tanto c’è il nome d’un re,

un bastione che manca a quelli là.

Su la tenda!… Venite, gentiluomini,

andiamo a fare una ricognizione,

e studiare i vantaggi del terreno.

Fate venire con voi alcuni esperti

che sappian darci una stima sicura.

Badate a tener l’ordine nel campo

e a non sciupare il tempo, ché domani,

signori, ci sarà un bel daffare.

(Escono)

Entrano, dall’altra parte del campo, RICHMOND, sir William BRANDON, OXFORD, DORSET e altri, tra i quali James BLOUNT; soldati si mettono a montare la tenda di Richmond.

RICHMOND -

Un sole affaticato ci ha mostrato

un dorato tramonto,

e con la scia del suo fulgido carro

tutta luce, promette per domani

una gloriosa giornata. Voi, Brandon,

del mio stendardo sarete l’alfiere.

Portatemi da scrivere,

penna ed inchiostro sotto la mia tenda;

voglio tracciare il piano di battaglia

e la pianta del nostro schieramento,

assegnare ai diversi comandanti

i rispettivi compiti in dettaglio

e ripartir le scarse nostre forze

in giusta proporzione per ciascuno.

Voi, Oxford, William Brandon, Walter Herbert,

mi resterete a fianco; il Conte Pembroke

terrà la testa del suo reggimento…(128)

Sir James Blount, mio bravo generale,

portategli per me la buona notte,

e per le due di domani mattina

ditegli di venire alla mia tenda.

Devo pregarvi ancora d’un favore:

sapete dirmi dove sta accampato

il Conte Stanley con il suo esercito?

BLOUNT -

Se ho ben riconosciuto i suoi vessilli

- e son certo di sì - il suo reggimento

è accampato ad un mezzo miglio a sud

del poderoso esercito del re.

RICHMOND -

S’è possibile, senza rischiar troppo,

mio caro Blount, trovate voi un mezzo

per parlargli e per dargli da mia parte

questo messaggio: è di somma importanza.

BLOUNT -

A costo della vita, mio signore,

lo farò. Dio vi conceda questa notte

un tranquillo riposo.

RICHMOND -

Buona notte, buon capitano Blount.(129)

(Esce Blount)

Signori, ci dobbiamo consultare

per quanto c’è da fare per domani;

nella mia tenda, però, ché qui fuori

l’aria è cruda e pungente.

(Con Richmond si ritirano nella sua tenda Brandon, Oxford e Herbert. Gli altri si allontanano)


Entrano RE RICCARDO, RATCLIFF, NORFOLK e CATESBY

RICCARDO -

Catesby, che ora è?

CATESBY -

Le nove, monsignore: ora di cena.

RICCARDO -

Non cenerò stasera.

Portami carta e inchiostro nella tenda.

M’hanno allentato la celata all’elmo?

È pronta nella tenda l’armatura?

CATESBY -

Sì, mio sovrano, tutto pronto e in ordine.

RICCARDO -

Sarà bene, Norfolk, che tu t’affretti

al tuo posto; fa’ attenta vigilanza;

scegliti sentinelle ben fidate.

NORFOLK -

Bene, vado, signore.

RICCARDO -

E domattina, nobile signore,

àlzati con l’allodola.

NORFOLK -

Va bene;

potete star tranquillo, monsignore.

(Esce)

RICCARDO -

Catesby…

CATESBY -

Sì, signore?

RICCARDO -

Manda un messo di corsa da Lord Stanley,

a dir che venga qui con i suoi uomini;

ma presto, prima del levar del sole,

se non vuol far piombar suo figlio Giorgio

nell’antro buio della notte eterna.

(Esce Catesby)

(A Ratcliff)

Prendi una coppa, versami del vino.

E procurami un lume per la notte.

Per lo scontro campale di domani

fammi trovar sellato il bianco Surrey.

Bada che le mie lance sian robuste

e non troppo pesanti a maneggiare…

Ratcliff!

RATCLIFF -

Sì, mio signore?

RICCARDO -

Hai visto il malinconico Northumberland?

RATCLIFF -

L’ho visto mentre, col conte di Surrey,

verso l’ora che vanno a letto i polli,

rassegnava le schiere, una per una,

e andava incoraggiando i suoi soldati.

RICCARDO -

Bene, mi fa piacere…

Quella coppa di vino, per favore.

Non mi sento l’alacrità di spirito

e la gaiezza d’animo mia solita.

(Beve, poi porge la coppa vuota a Ratcliff)

Posala là. Son pronti inchiostro e carta?

RATCLIFF -

Son qui pronti, signore.

RICCARDO -

Di’ alla scolta

di fare buona guardia alla mia tenda.

Lasciami adesso. Intorno a mezzanotte

vieni di nuovo qui ad aiutarmi

a indossar l’armatura.

Va’ pure adesso; lasciami, t’ho detto.

(Esce Ratcliff. Riccardo si ritira nella tenda)


Entra STANLEY, e s’affaccia alla tenda di Richmond, che sta all’interno attorniato dai suoi ufficiali

STANLEY -

La Fortuna benigna e la Vittoria

si posino propizie sul tuo elmo!

RICHMOND -

E s’accompagni con la tua persona

ogni conforto che la buia notte

possa offrire, mio nobile patrigno!

Dimmi, che fa la nostra buona madre?

STANLEY -

Ella t’invia attraverso di me

la sua benedizione, e prega sempre

per il bene di Richmond. Ma ti basti

di sapere di ciò, veniamo a noi.

L’ora notturna scorre via furtiva

e già si va sfaldando dall’oriente

la tenebra squamosa. Eccoti quanto,

in breve, poiché l’ora ce lo ingiunge:

appena giorno, schiera le tue forze

e affida la tua sorte all’arbitraggio

dei colpi d’uno scontro vita o morte.

Io, per quanto potrò - né posso tutto

ciò che vorrei - guadagnerò del tempo

per aiutarti nel modo migliore

in questo incerto scontro;

ma non mi posso spinger troppo in là

da mostrare che son dalla tua parte,

perché se ciò divenisse palese,

mio figlio Giorgio, tuo giovin fratello,

sarebbe certamente messo a morte

sotto gli occhi del padre. E dunque addio.

L’ora pericolosa e il poco tempo

troncano le effusioni dell’affetto

e l’ampio scambio di dolci parole

su cui sarebbe gradito indugiare

a parenti sì a lungo separati.

Dio ci conceda miglior agio in seguito

per tutti questi amorevoli riti.

Ancora addio. Sii prode e vittorioso.

RICHMOND -

Riaccompagnatelo al suo reggimento.

Io cercherò di riposare un poco,

nonostante l’assillo dei pensieri,

perché domani non mi pesi addosso

un plumbeo sonno, quando avrei bisogno

di librarmi con ali di vittoria.

Di nuovo, degni amici e cavalieri,

la buona notte a tutti.

(Escono tutti. Richmond, rimasto solo, s’inginocchia)

O Tu, di cui mi sento capitano,

volgi un occhio benigno alle mie forze,

metti nel loro pugno

i contundenti ferri di tua ira,

che s’abbattano gravi e poderosi

sugli elmi del nemico usurpatore;

fa’ delle nostre persone i ministri

del tuo castigo, sì che, vittoriosi,

possiamo innalzar lodi alla tua gloria.

A Te affido la vigile mia anima,

prima che il sonno abbassi sui miei occhi

le sue cortine. Oh, difendimi sempre!

(Si alza, si corica e si addormenta)

Appare lo SPETTRO DEL PRINCIPE EDOARDO, figlio di Enrico VI, nello spazio tra la tenda di Riccardo e quella di Richmond

SPETTRO -

(Rivolto a Riccardo)

Possa il mio peso opprimere domani

grave come un macigno la tua anima:

Pensa a come mi pugnalasti a Tewsbury

nel fiore della prima giovinezza.

Perciò dispera e muori.

(Rivolto a Richmond)

Richmond, sta’ di buon animo,

ché l’anime dei principi scannati

combattono per te. Chi ti conforta,

Richmond, è la prole di Re Enrico.

Entra lo SPETTRO DI ENRICO VI

SPETTRO -

(Rivolto a Riccardo)

Quando ero mortale,

tu apristi sul mio corpo consacrato

mortali bocche con il tuo pugnale.

Pensa alla Torre e a me. Dispera e muori.

Questo ti ordina il Sesto Enrico.

(Rivolto a Richmond)

Sii tu, virtuoso e santo, il vincitore.

Enrico re, che ti vaticinò

che re saresti diventato un giorno,(130)

ti viene in sogno a infonderti coraggio.

Vivi e prospera, Richmond.

Entra lo SPETTRO DI CLARENZA

SPETTRO -

(Rivolto a Riccardo)

Ch’io possa con il peso d’un macigno

seder sulla tua anima domani…

io, che fui immerso a morte,

povero me, in nauseabondo vino,

tradito a morte dalla tua perfidia…

Domani, alla battaglia, pensa a me,

e la tua spada cada senza taglio

dovunque colpirai. Dispera e muori.

(Rivolto a Richmond)

Tu, progenie della Casa di Làncaster,

gli offesi eredi di quella di York

pregano in tuo favore: angeli buoni

proteggan le tue forze.