La sua morte,

se così è, costui l’ha meritata,

e bene han fatto le signorie vostre

a scoraggiar con questo ammonimento

da simili attentati i traditori.

Da uno come lui, in verità,

non m’aspettavo più nulla di buono,

dacché si mise con Madama Shore…(74)

BUCKINGHAM -

Era nostra intenzione, in verità,

di non procedere all’esecuzione

se non dopo che vostra signoria

fosse presente alla sua fine;

nostro malgrado, ha tutto anticipato,

l’affettuosissima sollecitudine

di questi nostri amici. Perché noi

avremmo ben voluto, monsignore,

che sentiste parlare il traditore

e confessare, in tutta compunzione,

i modi e i fini dei suoi tradimenti,

sì da poterne poi rendere contro

pubblicamente alla cittadinanza;

che può giudicar male il nostro agire

su di lui e compiangerne la morte.

LORD MAYOR -

Ma, caro monsignore,

le parole di vostra grazia bastano

per me; esse hanno lo stesso valore,

che avessi io stesso tutto visto e udito.

Non temete, miei nobili signori:

mi farò io stesso buon interprete

presso i nostri devoti cittadini

della legalità del vostro agire

in una circostanza come questa.

RICCARDO -

Ed è a tal fine che abbiamo richiesto

qui la presenza di vossignoria:

a prevenire maligne censure

dalla parte della cittadinanza.

BUCKINGHAM -

E voi, se pure giunto un po’ in ritardo

su quelle ch’eran le nostre intenzioni,

potrete tuttavia sempre attestare

quali vi è stato detto ch’esse fossero.

E con ciò, Sindaco, vi salutiamo.

(Esce il Lord Mayor)

RICCARDO -

Seguilo, seguilo, cugino Buckingham.

Egli va difilato alla Guildhall.(75)

E là, quando vedrai giunto il momento,

cerca d’insinuare avanti a tutti

che i figli d’Edoardo son bastardi;

di’ loro apertamente come Edoardo

abbia mandato a morte un cittadino,

solo per aver detto, il disgraziato,

che avrebbe fatto ereditar dal figlio

la “corona”, intendendo con tal nome

la sua casa, così denominata

per l’insegna che ha sulla facciata

e che ha disegnata una corona.

Insisti sull’odiosa sua lascivia,

di’ loro la sua foja animalesca,

che nell’estrosità delle sue voglie

si spingeva financo alle lor serve,

alle lor figlie ed alle loro mogli,

ovunque, insomma, il suo occhio smanioso

e l’istinto selvaggio del suo cuore

bramassero predare, senza freni.(76)

Anzi, se lo ritieni necessario,

ti puoi spingere anche tanto in là

da parlar della stessa mia persona

e rivelare che quando mia madre

rimase incinta del Duca di York,

l’insaziabile mio fratello Edoardo,

mio padre si trovava a guerreggiare

in Francia; e calcolando il tempo esatto

di quella gravidanza di sua moglie,

scoprì che il figlio non era suo seme;

ciò che apparve, del resto, chiaramente

dalle di lui fattezze, in nulla simili

alle fattezze del Duca mio padre.

Bada però di toccar questo tasto

con discrezione, e molto alla lontana,

perché, lo sai, mia madre è ancora viva.

BUCKINGHAM -

Non dubitate: mi farò oratore

in questo, come se fosse per me

l’aureo onorario della mia arringa.

E con ciò, mio signore, vado. Addio.

RICCARDO -

Se tutto girerà per il suo verso,

menateli al castello di Baynard;(77)

mi troverete in buona compagnia

di reverendi padri e dotti vescovi.

BUCKINGHAM -

Bene. Aspettate tra le tre e le quattro

notizie dalla Guildhall.

RICCARDO -

(A Lovell)

Corri dal dottor Shaw;

(A Ratcliff)

e tu da frate Penker;(78) dite a entrambi

che vengano a raggiungermi fra un’ora

al castello di Baynard.

(Escono Lovell e Ratcliff)

Io vado intanto a intendermi in segreto

per sottrarre i marmocchi di Clarenza

alla vista di tutti,

e ad ordinare che nessun estraneo,

chiunque sia ed a qualunque ora,

abbia contatto alcuno con i principi.(79)

(Esce entrando nella Torre)

 

 

 

SCENA VI - Londra, una strada.

 

Entra uno SCRIVANO

 

SCRIVANO -

Questo è l’atto d’accusa di Lord Hastings,

scritto con bella mano

e con bella calligrafia curiale;

ne sarà data pubblica lettura

oggi stesso, alla chiesa di San Paolo.

Notate come è ben concatenato

lo svolgersi dei fatti: per copiarlo,

da quando Catesby me l’ha mandato

ieri sera, ci ho messo undici ore;

lo stesso tempo ci sarà voluto

certamente a stilar l’originale;

eppure meno di cinque ore fa,

Hastings viveva, immune da sospetti,

non inquisito, in piena libertà.

Quanta onestà nel mondo d’oggi, eh?!

Ma chi è così cretino

da non scorgere un trucco sì evidente!

E tuttavia chi ha tanto coraggio

da affermare di essersene accorto?

Il mondo è perfido e andrà in malora,

se un’azionaccia turpe come questa

dev’esser vista solo col pensiero!

(Esce)

 

 

 

SCENA VII - Londra, il castello di Baynard.

 

Entrano RICCARDO e BUCKINGHAM, incontrandosi

 

RICCARDO -

Dunque, dunque, che han detto i cittadini?

BUCKINGHAM -

Mah! Per la santa Madre del Signore,

tutti morti: nemmeno una parola.

RICCARDO -

E della bastardìa

dei figli di Edoardo hai fatto cenno?

BUCKINGHAM -

Oh, sì, e anche della sua promessa

di sposar lady Lucy,(80)

e di quell’altra fatta per procura

in Francia;(81) delle sue voglie insaziabili;

delle sue violenze sulle mogli

e le figlie dei nostri cittadini;

del suo tiranneggiare per quisquilie;

della sua stessa origine bastarda,

dato che quand’è stato concepito

vostro padre era a guerreggiare in Francia,

e le fattezze sue non hanno nulla

che possa farlo assomigliare al Duca.

Ho alluso quindi ai vostri lineamenti,

esatta copia di quelli paterni,

per forma esterna e per nobiltà d’animo.

Ho decantato le vostre vittorie

sugli Scozzesi,(82) il vostro portamento,

rigido in guerra, giudizioso in pace,

la vostra generosità e virtù,

e graziosa umiltà: nulla ho lasciato,

nel mio discorso, nulla ho sorvolato

che potesse giovare al vostro scopo;

e quando la mia arringa è giunta al termine,

ho rivolto un appello

a tutti quelli ai quali stava a cuore

il bene del paese e li ho invitati

a gridare con me: “Viva Riccardo,

legittimo sovrano d’Inghilterra!”

RICCARDO -

E l’hanno fatto?

BUCKINGHAM -

No, che Dio m’assista!

Non han fiatato: muti come statue,

o meglio come pietre che respirano,

si guardavano fissi, l’un con l’altro,

pallidi come morti. Ed a vederli,

io li ho sgridati, ed ho chiesto al Lord Mayor

il perché di quel lor sordo silenzio.

La sua risposta fu che quella gente

non era avvezza a sentirsi arringare

da nessun altro che dallo scabino.(83)

Questi, allora, da me sollecitato

a ripetere loro il mio discorso

si mise a bofonchiare: “Il Duca dice…

il Duca ha detto…”, senza aggiunger nulla

di propria personale autorità.

Finito ch’ebbe, alcuni del mio seguito

che si trovavano in fondo alla sala,

lanciarono i lor berretti in aria

e una diecina di voci han gridato:

“Dio salvi Re Riccardo!”

Al che, io stesso, facendo tesoro

di quei pochi consensi, ho lor gridato:

“Vi ringrazio, gentili cittadini;

questa unanime vostra acclamazione

e questo vostro grido di esultanza

dimostrano la vostra assennatezza

e la vostra affezione per Riccardo”.

E lì ho troncato e son venuto via.

RICCARDO -

Diavolo! Tutti ciocchi senza lingua?

Tutti senza parlare!

Allora il Sindaco e i suoi consiglieri

verranno o no?

BUCKINGHAM -

Sono già tutti qui.

Ma ostentate una certa riluttanza

nel dare loro udienza; non lo fate

se non in seguito a molte insistenze;

e, ricordate, fatevi trovare

con nelle mani un libro di preghiere,

in mezzo a quei due uomini di chiesa;(84)

perch’io imbastirò, su quella base,

un discanto canonico.(85)

Cercate di non ceder troppo presto

alle richieste che noi vi faremo;

fate la parte della verginella

che dice sempre “no” per dire “sì”.

RICCARDO -

Bene, vado, e se tu

reciterai sì bene la tua parte

nel perorar la loro richiesta

com’io la mia nel risponderti “no”,

il successo è senz’altro assicurato.

(Colpi alla porta)

BUCKINGHAM -

È il sindaco. Salite, andate su.(86)

(Esce Riccardo)

Entra il LORD MAYOR di Londra con i consiglieri

Benvenuto, signore.

Son qui a fare anticamera; ma il Duca

penso che non gradisca dare udienza.

Entra CATESBY, scendendo dal soppalco

Catesby, allora che cosa risponde

alla mia istanza il vostro signor Duca?

CATESBY -

Il mio signore prega vostra grazia

di tornare domani o doman l’altro.

È dentro con due reverendi padri

per le meditazioni spirituali

e non desidera venir distolto

da quel sacro esercizio dello spirito

da qualsivoglia mondana richiesta.

BUCKINGHAM -

Buon Catesby, ritorna da sua grazia,

digli ch’io sono qui

col Sindaco di Londra e i consiglieri(87)

per conferire con sua signoria

su cose di grandissima importanza

che riguardano il bene generale.

CATESBY -

Vado subito a dirglielo, signore.

(Esce Catesby)

BUCKINGHAM -

Ah, ah, Lord Mayor, questo nostro Duca

non è certo un Edoardo!

Non se ne sta sdraiato a trastullarsi

su un letto di lascivia, ma in ginocchio

a meditare; non sta sollazzandosi

in compagnia d’un paio di baldracche,

ma se ne sta raccolto, a meditare,

fra due reverendissimi prelati;

non dorme, ad ingrassare il pigro corpo,

ma vigila in preghiera, a far più ricca

la vigile sua anima.

Sarebbe la fortuna d’Inghilterra

se un principe virtuoso come lui

volesse assumer sulla sua persona

il sovrano potere; ma ho paura

che non sapremo convincerlo a tanto.

LORD MAYOR -

Diamine! Dio non voglia che rifiuti!

BUCKINGHAM -

Ho paura di sì.

Rientra CATESBY

Ma ecco Catesby

che torna. Ebbene che dice sua grazia?

CATESBY -

Sua grazia si domanda con stupore

a quale scopo abbiate radunato

e qui condotto un così folto stuolo

di cittadini senza che sua grazia

ne fosse stato affatto prevenuto.

Questo gli fa temere, monsignore,

che le vostre intenzioni a suo riguardo,

non sian delle migliori.

BUCKINGHAM -

Mi dispiace che il mio degno cugino

possa mai sospettare ch’io non nutra

delle buone intenzioni a suo riguardo.

Sa il cielo se veniamo qui da lui

animati dal più sincero affetto.

Torna di nuovo da sua grazia, e diglielo.

(Esce Catesby)

Eh, quando questa specie di sant’uomini

così devotamente religiosi

si trovano il rosario tra le mani,

è certo ben difficile distoglierli,

sì dolce ed esclusivo è il rapimento

nella fervida lor contemplazione.

Nel soppalco compare RICCARDO in mezzo a due prelati; a fianco CATESBY.

LORD MAYOR -

Ecco lassù sua grazia, fra due vescovi.

Vedete?

BUCKINGHAM -

Due pilastri di virtù

a sostegno di un principe cristiano,

per tenerlo lontano e preservato

dal peccato di vanità; e, vedete,

in mano tiene un libro di preghiere…

gli autentici ornamenti

dai quali riconoscere un sant’uomo.

Plantageneto illustre,

graziosissimo principe,

degnati porgere un orecchio amico

alle richieste nostre,

e perdonaci d’essere venuti

a interrompere le tue devozioni

ed il tuo cristianissimo fervore.

RICCARDO -

Non dovete scusarvi, mio signore,

son io, piuttosto a chiedere perdono,

ché, assorto nel servizio del Signore,

ho protratto l’attesa a questi amici.

Ma, a parte questo, qual è il desiderio

di vostra grazia?

BUCKINGHAM -

Lo stesso, e non altro,

spero, quale anche piaccia a Dio lassù,

e a tutti gli uomini buoni ed onesti

di quest’isola priva di governo.(88)

RICCARDO -

Non vorrei aver fatto qualche errore

che possa essere apparso offensivo

alla cittadinanza, e voi veniate

a rinfacciarmi la mia ignoranza.

BUCKINGHAM -

Difatti, mio signore: e a quell’errore

speriamo che, su nostra preghiera,

piaccia alla grazia vostra riparare.

RICCARDO -

Perché vivrei, se no, in cristiana terra?

BUCKINGHAM -

Sappiate allora qual è il vostro errore:

la persistente vostra riluttanza

ad occupare l’altissimo seggio,

l’augusto trono, lo scettrato ufficio

che è stato dei vostri avi;

la vostra abdicazione al vostro rango

e ad un diritto ch’è vostro per nascita,

alla gloriosa vostra discendenza

dalla casa reale; e tutto questo

a favore d’un ceppo secco e marcio;

mentre nella blandizie

della vostra assopita iniziativa,

che noi qui, per il bene del paese,

siamo appunto venuti a ridestare,

questa nobile isola è privata

dei naturali membri del suo corpo,

il volto deturpato dalle stigmate

dell’infamia, il regal ceppo innestato

a ignobili virgulti e quasi spinto

violentemente nel vorace gorgo

del più profondo e tenebroso oblio.

Per riparare a ciò, noi, di gran cuore,

siam qui a sollecitare vostra grazia

di assumer su di sé tutto il gravame

e il governo di questa vostra terra,

non già in veste di mero protettore,

o di amministratore, o di vicario,

o d’umile massaro, a lavorare

per il conto e per il vantaggio altrui,

ma in virtù del diritto di natali,

che vi deriva per generazioni,

da sangue a sangue, vostro in assoluto.

Perciò, in accordo con i cittadini,

vostri devoti ed ossequienti amici,

e per loro pressante incitamento,

io vengo a supplicare vostra grazia

di non negarsi a questa causa giusta.

RICCARDO -

Non so dire se sia più consentaneo

al mio rango o alla vostra condizione

ch’io m’allontani senza dir parola,

o vi rivolga un severo rimprovero.

Se scegliessi di non darvi risposta,

voi potreste pensare giustamente

che l’ambizione, rendendomi muto

ed impedendomi di replicare,

cedesse ad accollarsi l’aureo giogo

della sovranità che, bontà vostra,(89)

qui mi volete imporre… D’altra parte,

biasimarvi per questa vostra supplica,

così condita di fedele affetto,

sarebbe rendere male per bene

a degli amici. E questo non lo voglio.

Ad evitare dunque il primo rischio,

ed a scansare, parlando, il secondo,

eccovi la decisa mia risposta.

Il vostro affetto merita senz’altro

il mio ringraziamento;

ma i miei meriti son troppo scarsi

per fare ch’io m’induca ad aderire

alla vostra ambiziosa petizione.

Primo: quand’anche fossero rimossi

tutti gli impedimenti e tutta piana

fosse la strada verso la corona,

siccome maturato mio possesso

e diritto spettantemi per nascita,

è sì grande la mia povertà d’animo,

e tanti e tanto gravi i miei difetti,

che della mia grandezza farei schermo

per occultarmi alla sovranità

- come un vascello inetto ad affrontare

il mare grosso - anziché agognare

a rimaner nascosto e soffocato

soltanto dai vapori della gloria.

Ma, grazia e Dio, di me non c’è bisogno;

ché se vi fosse, avrei bisogno io stesso

di troppe cose, poi, per aiutarvi.

La regal pianta del defunto re

ha lasciato al paese un regal frutto

che, portato che sia a maturazione

dal furtivo trascorrere del tempo,

si mostrerà certamente ben degno

della maestà del trono, ed il suo regno

ci renderà certamente felici.

Io lascio dunque volentieri a lui

quel che volete consegnare a me,

vale a dire il diritto alla corona

e le sorti della sua buona stella

che Dio non voglia io debba strappargli.

BUCKINGHAM -

Tutto ciò testimonia, monsignore,

quale coscienza alberga in vostra grazia;

ma, in fede mia, codesti vostri scrupoli,

a ben vagliar tutte le circostanze,

son senza consistenza e trascurabili.

Voi affermate che il principe Edoardo

è bene il figlio di vostro fratello;

noi diciamo lo stesso,

però non della moglie di Edoardo;

ché prima ei si promise a Lady Lucy,(90)

(vostra madre è vivente testimone

della promessa); e poi si fidanzò

per procura con Bona di Savoia,

la cognata del re di Francia. In seguito,

dopo ch’ebbe scartate queste due,

una misera donna postulante,

con il corpo sfiancato dalle doglie

di molti parti, una bellezza sfatta,

una vedova nelle ristrettezze,

al meriggio dei suoi giorni migliori,

fece preda dei suoi sguardi lascivi

e lo sedusse al punto da ridurlo

ad un vituperevole degrado

e ad una vergognosa bigamia.(91)

Da costei, nel suo talamo illegittimo

egli ebbe questo Edoardo,(92)

che noi per cortesia chiamiamo principe.

Altre e più amare recriminazioni

potrei fare, non fosse pel rispetto

che sento per certuni ancora in vita

e che impone ritegno alla mia lingua.

Vogliate, dunque, amabile signore,

accogliere con animo benigno

addosso alla regal vostra persona

quest’offerta di dignità regale:

se non proprio per rendere con essa

felici noi ed il paese tutto,

per trarre il vostro nobile lignaggio

fuor da un’età corrotta ed abusata

e riportarlo sul retto cammino

della legittima sua discendenza.

LORD MAYOR -

Accettatelo, amabile signore,

ve lo implorano i vostri cittadini.

BUCKINGHAM -

Non rifiutatevi, possente principe,

a questa nostra profferta d’amore.

RICCARDO -

Ahimè, perché volete caricarmi

di questo peso? Io non son tagliato

per il rango e la dignità di re.

Vi scongiuro, non la prendete a male,

ma non posso né voglio accontentarvi.

BUCKINGHAM -

Se rifiutate perché affetto e zelo

v’ispirano ripugna a spodestare

quel bimbo, figlio di vostro fratello

- ché conosciamo bene la bontà

del vostro cuore, e la gentile, amabile,

quasi femminea vostra tenerezza

verso i vostri parenti, e, in verità,

verso gente d’ogni altra condizione -,

è bene che sappiate, signor Duca,

che, consentiate o no alla nostra istanza,

mai quel figliolo del fratello vostro

regnerà da sovrano su di noi;

perché noi pianteremo su quel trono

un altro qual che sia, ad ignominia

ed a rovina della vostra casa.

E in tale decisione vi lasciamo.

Andiamo, cittadini, andiamo via!

Per le piaghe di Cristo, io sono stufo

di stare qui più oltre a supplicare!

(Buckingham, il Lord Mayor e tutti gli altri si avviano per uscire)

RICCARDO -

Non imprecate, signore di Buckingham!

CATESBY -

Richiamateli indietro, dolce principe,

e consentite alla loro richiesta.

Se gliela respingeste, monsignore,

se ne dorrebbe tutta la nazione.

RICCARDO -

Volete dunque sospingermi a forza

entro un mare d’affanni?… Richiamateli.

Non son fatto di sasso,

io, dopo tutto; sono ben sensibile

a queste vostre garbate insistenze,

se pur contrarie ai miei sentimenti

ed alla mia più intima coscienza.

Rientrano BUCKINGHAM e gli altri

Cugino Buckingham, e voi, signori,

uomini saggi e gravi,

poiché vi vedo sì deliberati

a impormi sulla schiena questa sorte,

perch’io, volente o no, ne porti il carico,

mi devo rassegnare a sostenerlo.

Ma se da questa vostra imposizione

dovesse uscir la nera maldicenza

e la rampogna dalla grinta amara,

il fatto d’esserci stato costretto

m’assolva da ogni macchia o traccia impura

ch’abbia per avventura a derivarne.

Dio sa - e voi ne siete testimoni

con l’occasione - quanto io sia lontano

dal nutrire un siffatto desiderio.

LORD MAYOR -

Dio benedica sempre vostra grazia;

ne siamo testimoni, e lo diremo.

RICCARDO -

E direte la pura verità.

BUCKINGHAM -

Dunque con questo titolo regale

io vi saluto qui: “Viva Riccardo,

degno re d’Inghilterra!”

TUTTI -

Così sia!

BUCKINGHAM -

Domani allora vi compiacerete

di farvi incoronare?

RICCARDO -

Domani o quando gradirete voi,

dal momento che voi così volete.

BUCKINGHAM -

Domani allora vi faremo scorta

all’incoronazione, vostra grazia;

e così, con il cuore in esultanza,

da voi ci congediamo.

RICCARDO -

E noi torniamo al nostro sacro offizio.

Addio, cugino. Addio, gentili amici.

(Escono tutti)

 

 

ATTO QUARTO

 

SCENA I - Londra, davanti alla Torre.

 

Entrano, da una parte, la REGINA ELISABETTA, la DUCHESSA DI YORK,

il MARCHESE DI DORSET; dall’altra ANNA, duchessa di Gloucester,

con la figlioletta di Clarenza.

 

DUCHESSA -

Oh, guarda chi incontriamo:

la nipotina mia Plantageneta,(93)

condotta per la mano

dalla gentile zia Anna di Gloucester!(94)

Scommetterei che sta andando alla Torre,

spinta dal suo sincero cuoricino,

a recare il saluto al dolce principe.

Bene incontrata, figlia!

ANNA -

Conceda Dio felice e lieto giorno

a entrambe vostre grazie.

ELISABETTA -

E così a voi,

cara cognata. Dove ve ne andate?

ANNA -

Non più in là della Torre e, come immagino,

con lo stesso affettuoso vostro intento:

a salutare i due giovani principi.

ELISABETTA -

Grazie, mia cara. Allora entriamo insieme.

Entra BRAKENBURY

Ecco il luogotenente della Torre,

e a buon punto: signor Luogotenente,

di grazia, come stanno i miei figlioli,

il principe con il fratello York?

BRAKENBURY -

Benissimo, signora; ma purtroppo

non posso consentirvi di vederli.

Il re m’ha dato una consegna ferrea.

ELISABETTA -

Come sarebbe “il re”… c’è forse un re?

BRAKENBURY -

Volevo intendere il Lord Protettore.

ELISABETTA -

Ah, lui! Che Dio lo scarti da quel titolo!

E che! Vuol forse porre uno steccato

fra l’amore dei miei figlioli e me?

Io son la loro madre:

chi mi può impedire di vederli?

DUCHESSA-

Ed io sono la madre del lor padre:

voglio vederli.

ANNA -

Io son la loro zia,

per legge, la lor madre per affetto;

e dunque conducetemi da loro.

Rispondo io per voi: e a mio rischio

vi dispenso dalla vostra consegna.

BRAKENBURY -

No, signora; non posso liberarmene

così; vi son tenuto a giuramento.

E pertanto vi chiedo di scusarmi.

(Esce)

Entra STANLEY, conte di Derby

STANLEY -

Ch’io vi rincontri appena di qui a un’ora,

dame, e saluterò la grazia vostra,

(Indicando la Duchessa di York)

madre ed ammiratrice reverenda

di due belle regine.

(Ad Anna)

Voi, signora,

dovete venir subito a Westminster

per essere colà incoronata

regina di Riccardo.

ELISABETTA -

Ahimè, che sento!

Slacciatemi, strappatemi i legacci,

che il mio povero cuore abbia più spazio

per pulsare, perché sta soffocando!

Ah, ch’io svengo ad un tal ferale annuncio!

ANNA -

Dispettosa notizia! Amaro annuncio!

DORSET -

Madre, coraggio, state di buon animo:

come sta vostra grazia?

ELISABETTA -

Oh, fuggi, Dorset!

Mettiti in salvo! Non star lì a guardarmi!

I due mastini, Morte e Distruzione,

ti son già alle calcagna.

Il nome di tua madre è malo auspicio

per i figli. Se vuoi scampar la vita,

figlio mio, va’, passa il mare, va’ da Richmond,

a vivere al riparo dall’inferno.(95)

Presto, fuggi da questo scannatoio

se non vuoi far che il numero dei morti

s’accresca del tuo nome,

e se non vuoi veder morire me,

la vittima della maledizione

di Margherita, né più madre ormai,

né moglie, né regina d’Inghilterra.

STANLEY -

Saggio consiglio e premuroso il vostro,

signora. Dorset, via, sfruttate subito

il vantaggio del tempo, andate via,

non v’attardate in indugi imprudenti.

Manderò una lettera a mio figlio(96)

perché vi venga incontro sulla strada

e vi dia ogni appoggio.

DUCHESSA -

Oh, mefitico vento di sciagura!

Grembo mio maledetto,

culla di morte! Hai portato al mondo

un basilisco, che con il suo sguardo

uccide chi gli càpita sott’occhio.

STANLEY -

(Ad Anna)

Signora, andiamo, venite con me.

Son qui stato spedito di gran fretta.

ANNA -

Verrò con voi, ma assai di malavoglia.

E Dio volesse che quel cerchio d’oro

che cingerà fra poco la mia fronte

fosse acciaio rovente

da bruciarmi il cervello; ch’io sia unta

con veleno mortale, da morire

prima che gli uomini possan gridare:

“Dio salvi la regina”.

ELISABETTA -

Va’, va’, povera anima,

non invidio davvero la tua gloria.

Ma non t’auguro male,

a nutrire con questo la mia collera.(97)

ANNA -

Non m’invidii, lo so; e so il perché.

Quando colui ch’è ora mio marito

venne da me, che seguivo in gramaglie

il feretro d’Enrico,

e s’era appena lavato le mani

del sangue di quell’angelo

di mio marito e di quel caro santo

ch’io seguivo piangendo in quel momento,

quando, dico, levai gli occhi a Riccardo,

questo augurio gli feci: “Maledetto

sii tu - dissi - d’aver fatto di me,

così giovane, una sì vecchia vedova;

e se ti sposerai, non abbandoni

il dolore il tuo letto, e sia tua moglie

- se mai vi sarà donna tanto folle

da maritarsi ad uno come te -

resa più misera dalla tua vita

di quanto misera hai reso me

con la morte del mio sposo adorato!”

Dio mio, Signore! Ed ecco, in un momento,

prima che m’accingessi a reiterargli

la mia maledizione, stoltamente

il mio cuore di donna fu impigliato

nella dolcezza delle sue parole

e divenne esso stesso, all’improvviso,

l’oggetto della mia maledizione;

che da allora ha tenuto gli occhi miei

senza riposo, perché nel suo letto

non ho ancora, nemmeno per un’ora,

goduto l’aurea rugiada del sonno,

destata come sono di continuo

dai suoi sogni paurosi.

Egli mi odia, inoltre, per mio padre,

Warwick,(98) e son sicura

che si sbarazzerà di me al più presto.

ELISABETTA -

Addio, povero cuore.

Ho pietà delle tue tribolazioni.

ANNA -

Non quanta n’abbia io di quelle vostre.

DORSET -

Addio, tu che con l’anima in gramaglie

ti prepari a ricevere la gloria.

ANNA -

Addio, povera anima,

che dalla gloria invece ti congedi.

DUCHESSA -

Tu, Dorset, va’ da Richmond,

e ti sia guida la buona fortuna;

tu, Anna, da Riccardo,

e ti siano custodi angeli buoni;

tu, Elisabetta, vattene al santuario,

e ti accompagnino santi pensieri.

Io vado là dove pace e riposo

si giacciono con me: nella mia tomba.

Ho vissuto ottant’anni di sventure

ed ogni ora di gioia m’è costata

sette giorni di pianto.

ELISABETTA -

Aspettate: volgiamo ancora insieme

uno sguardo alla Torre… O pietre antiche,

pietà di quei due teneri fanciulli

che l’umana perfidia ha rinserrato

dentro le vostre mura, rude culla

per quelle piccole dolci creature,

rozza nutrice, squallida, decrepita,

cupa e tetra compagna ai loro giochi!

Pietre, trattate bene i miei bambini!

Questo è l’addio del mio pazzo dolore.

(Escono)

 

 

 

SCENA II - Londra, la sala del trono al palazzo reale.

 

Trombe.(99) Entrano RICCARDO, in pompa magna, con in testa la corona; BUCKINGHAM, CATESBY, RATCLIFF, LOVELL, un PAGGIO e altri del seguito.

 

RICCARDO -

Fatemi largo. Cugino di Buckingham!

BUCKINGHAM -

Mio grazioso sovrano…

RICCARDO -

La tua mano.

(Buckingham gli dà la destra e lo accompagna al trono)

(Squillo di tromba)

(I due restano a parlare da soli)

A questa altezza siede re Riccardo

per tuo consiglio e con il tuo ausilio.

Ma dovremo portarle, queste glorie,

per un giorno, o saranno per durare

nel tempo, e noi potremo rallegrarcene?

BUCKINGHAM -

Vivano sempre, e durino perenni!

RICCARDO -

Ah, Buckingham, mi faccio ora con te

pietra di paragone, per saggiare

se tu sei veramente d’oro schietto.

Il giovinetto Edoardo è ancora vivo…

Tu capisci che cosa voglio dire.

BUCKINGHAM -

Continuate, amato mio signore.

RICCARDO -

Diamine, Buckingham, intendo dire

che vorrei esser re.

BUCKINGHAM -

Ma voi lo siete,

mio tre volte degnissimo sovrano!

RICCARDO -

Ah, sì? È così… ma Edoardo è vivo.

BUCKINGHAM -

Vero, nobile principe.

RICCARDO -

Amara conclusione, questa tua,

che Edoardo sia vivo…

“Vero, nobile principe”… Cugino,

un tempo tu non eri così ottuso.

Debbo essere chiaro?

Li voglio morti, questi due bastardi!

E che sia fatto subito!

Che dici adesso? Rispondi e sii breve.

BUCKINGHAM -

Vostra grazia può fare ciò che vuole.

RICCARDO -

Va’, va’, mi pare che sei tutto ghiaccio!

La parentela ti si è congelata.

Di’, sei d’accordo che devon morire?

BUCKINGHAM -

Datemi un po’ di respiro, una pausa,

mio buon signore, avanti che su ciò

possa parlare positivamente.

Vi darò subito una risposta.

(Esce)

CATESBY -

(Agli altri nobili)

Il re è in preda all’ira;

guardate come si morde le labbra.

RICCARDO -

Voglio avere a che fare, d’ora innanzi

solo con imbecilli teste dure

o con giovanottelli senza scrupoli:

non mi piacciono quelli che mi scrutano

come volessero leggermi dentro.

Si fa guardingo l’ambizioso Buckingham…

(Al Paggio, a parte)

Ragazzo!

PAGGIO -

Mio signore?

RICCARDO -

Conosci tu qualcuno

che l’oro corruttore possa indurre

a una segreta faccenda di morte?

PAGGIO -

Conosco un gentiluomo

scontento perché i suoi modesti mezzi

non s’accordano colle sue pretese:

l’oro per lui sarebbe un argomento

più convincente di venti avvocati,

senza dubbio capace di tentarlo

a compiere qualunque malefatta.

RICCARDO -

Come si chiama?

PAGGIO -

Tyrrell, mio signore.

RICCARDO -

Mi pare di conoscerlo:

vallo a chiamare, e mandalo da me.

(Esce il paggio)

Quel Buckingham che rumina pensieri

e fa il furbo con me,

non sarà più da oggi il confidente

dei miei pensieri. Con me ha retto il passo

per tanto tempo, senza mai stancarsi,

ed ora, ecco, si ferma a prender fiato…

Ebbene, così ho detto e così sia!

Entra STANLEY

Ebbene allora, Lord Stanley, che nuove?

STANLEY -

Sappiate, dunque, amato mio signore,

che il marchese di Dorset, come ho udito,

se n’è fuggito a raggiungere Richmond,

dove questi si trova.

RICCARDO -

Catesby, senti: spargimi la voce

che mia moglie è malata, molto grave;

io darò l’ordine a chi dico io

che sia tenuta strettamente al chiuso.

Rintracciami un qualche nobiluomo

di mezza tacca, oscuro, squattrinato,

al quale potrei dar subito in moglie

la figliola del Duca di Clarenza.(100)

Quanto al maschio, è un autentico cretino,

e non mi mette il minimo pensiero.

Ma non star lì a guardarmi a bocca aperta!

Sveglia!… Ripeto: va’, spargi la voce

in giro che la mia regina, Anna,

è malata, in pericolo di vita.

Datti daffare, ché mi preme assai

soffocare sul nascere speranze,

che se vengono poi alimentate,

potrebbero riuscirmi perniciose.

(Esce Catesby)

È necessario ch’io mi prenda in moglie

la figlia di Edoardo, mio fratello;

altrimenti il mio regno poggerà

sopra un fragile vetro…

Uccidere i fratelli, e poi sposarla…

È via di malsicura riuscita,

ma sono ormai tanto avanti nel sangue,

che un delitto ne chiama dietro un altro.

Ormai negli occhi miei non ha più stanza

la pietà lacrimosa.

Entra TYRRELL

Sei tu, Tyrrell?

TYRRELL -

Son io: Giacomo Tyrrell,

obbedientissimo suddito vostro.

RICCARDO -

“Obbedientissimo”… Lo sei davvero?

TYRRELL -

Vostra Grazia può mettermi alla prova.

RICCARDO -

Avresti tu tanto fegato in corpo

da uccidermi un amico?

TYRRELL -

A vostro grado;

meglio però sarebbe due nemici.

RICCARDO -

Bene, allora ci sei: son due nemici

quelli di cui vorrei che t’occupassi,

che non dànno più tregua alla mia pace,

disturbatori dei miei dolci sonni,

Tyrrell; intendo dire i due bastardi

che si trovan rinchiusi nella Torre.

TYRRELL -

Apritemi la strada per raggiungerli,

e vi libererò dal loro incubo.

RICCARDO -

Tu mi canti una musica dolcissima.

Tyrrell, ascolta, fatti più vicino;

Va’ là con questo: è il mio lasciapassare.(101)

Alzati(102) e dammi orecchio.

(Tyrrell si alza e Riccardo gli sussurra qualcosa) all’orecchio)

Null’altro.(103) Dimmi solo: “È stato fatto”,

e io ti vorrò bene in sempiterno,

e ti ricoprirò di benefici.

TYRRELL -

Sbrigherò la faccenda in poco tempo.

(Esce)

Rientra BUCKINGHAM

BUCKINGHAM -

Mio signore, ho considerato a fondo

la richiesta su cui m’avete dianzi

voluto scandagliare.

RICCARDO

Ah, non importa,

lasciamola pur lì. Dorset, piuttosto:

ha preso il largo, è fuggito da Richmond.

BUCKINGHAM -

L’ho saputo, signore.

RICCARDO -

Stanley, Richmond

è figlio di tua moglie… Stacci attento…

BUCKINGHAM -

Monsignore, mi par giunto il momento

di reclamarvi quella concessione

che m’è dovuta per una promessa

sulla quale impegnaste il vostro onore:

intendo, sire, la contea di Hereford

coi beni mobili da voi promessimi.

RICCARDO -

(Senza badargli, e sempre rivolto a Stanley)

… tieni d’occhio tua moglie,

se dovesse mandar messaggi a Richmond,

me ne risponderai tu di persona.

BUCKINGHAM -

Che dice vostra altezza

riguardo a questa mia giusta richiesta?

RICCARDO -

(Sempre senza badargli, rivolto a Stanley)

Enrico Sesto, a quanto mi ricordo,

profetizzò che Richmond

sarebbe stato re, quand’egli, Richmond,

era ancora un monello impertinente….

Sarebbe stato re… Forse… chissà…

BUCKINGHAM -

Signore…

RICCARDO -

(c.s.)

Come mai quel preveggente

non seppe presagire al tempo stesso,

me presente, che io l’avrei ucciso?

BUCKINGHAM -

La promessa della contea, signore…

RICCARDO -

Richmond!… Recentemente fui ad Exeter,

ed il suo sindaco cortesemente

mi volle far vedere quel castello

e lo indicò col nome di Rougemont;(104)

ad udire il qual nome ebbi un sussulto,

perché un bardo d’Irlanda un certo giorno

mi predisse che non sarei vissuto

per molto tempo ancora,

dopo che avessi visto Rougemont.

BUCKINGHAM -

Signore…

RICCARDO -

Buckingham, che ore sono?

BUCKINGHAM -

… ardisco ricordare a vostra grazia

la promessa…

RICCARDO -

Sì, sì, ma che ore sono.

BUCKINGHAM -

Stanno quasi per battere le dieci.

RICCARDO -

Bene, lasciale battere.

BUCKINGHAM -

Perché “lasciale battere”, signore?

RICCARDO -

Perché come l’automa d’una pendola

tu sei lì che continui a battere

tra il postulare come un accattone

e il mio almanaccare per mio conto.

Oggi non sono in vena di regali!

BUCKINGHAM -

Compiacetevi almeno

di dire sì o no alla mia richiesta.

RICCARDO -

Non sono in vena. Non seccarmi più!

(Esce seguìto da tutti, meno Buckingham)

BUCKINGHAM -

Ah, così lui compensa i miei servigi?

Con quel fare sprezzante ed offensivo?

Per questo, dunque, l’avrei fatto re?…

Ahimè, pensiamo a quel ch’è capitato

ad Hastings, ed andiamo a rifugiarci

a Brecon,(105) finché resta sulle spalle

questa mia testa ormai pericolante!

(Esce)

 

 

 

SCENA III - ALTRA STANZA DEL PALAZZO

 

Entra TYRRELL

 

TYRRELL -

La più cruenta impresa, la più infame,

il più spietato, il più empio massacro

che il mondo abbia mai visto, è consumato!

Perfino quei cagnacci sanguinari

di Dighton e Farrest, due spietati,

cinici ed incalliti delinquenti,

che col denaro avevo subornato

a questa barbara carneficina

lacrimavano come due mocciosi,

sopraffatti da tenera pietà,

a raccontarmi tanta efferatezza.

“Oh - mi fa Dighton - quelle due creature

dormivano… così”. “Così, così -

fa Forrest - abbracciati l’uno all’altro

con quelle loro braccine innocenti,

color dell’alabastro….

Le loro labbra, quattro rose rosse

su di un unico stelo, e si baciavano

nel bel rigoglio della loro estate.

Sul lor guanciale un libro di preghiere,

che per un attimo - prosegue Forrest -

stava quasi per farmi mutar d’animo…

Ma oh, il diavolo!…” E così dicendo,

s’interruppe, lo scellerato. E Dighton:

“Abbiamo soffocato nella morte

il più dolce prodotto, il più perfetto

che la Natura abbia mai modellato

dal primo giorno della Creazione!”

E con questo, senza più altro dire

si sono allontanati,

con la coscienza rosa dal rimorso;

e così io li ho lasciati,

per venire a recarne la notizia

a questo re sanguinario… Ma eccolo.

Entra RICCARDO

Salute al mio signore.

RICCARDO -

Caro Tyrrell!

Qual felice notizia tu mi porti?

TYRRELL -

Se l’aver fatto quanto m’ordinaste

vi può fare felice, ebbene siatelo,

perché è fatto.

RICCARDO -

Ma li vedesti morti?

TYRRELL -

Sì, signore.

RICCARDO -

E sepolti?

TYRRELL -

Ad interrarli

provvide il cappellano della Torre;

come ed in quale luogo, non lo so.(106)

RICCARDO -

Passa da me subito dopo cena.(107)

Voglio sapere nei particolari

come son morti. Pensa, nel frattempo,

al modo come posso compensarti,

e conta di ottenere quel che chiedi.

Va’ ora.

TYRRELL -

Prendo umilmente congedo.

(Esce)

RICCARDO -

Il maschio di Clarenza l’ho rinchiuso

sotto stretta custodia; la sua femmina

l’ho sposata a un oscuro gentiluomo;

i due figli di Edoardo ora riposano

nel gran grembo d’Abramo; Anna, mia moglie,

ha detto buona notte a questo mondo.

Adesso, poiché sono a conoscenza

che il bretone Richmònd ha messo l’occhio

su Elisabetta, la giovane figlia

di mio fratello Edoardo,(108) e con quel nodo

mira spavaldamente alla corona,

vado da lei fare la mia parte

di prosperoso ed allegro aspirante.


Entra RATCLIFF, di corsa

RATCLIFF -

Mio signore…

RICCARDO -

Che irrompi a questo modo?

Buone o male notizie?

RATCLIFF -

Male, signore: Morton è fuggito

a raggiungere Richmond, e Buckingham,

spalleggiato dai validi gallesi,

è in campo, e va ingrossando le sue forze.

RICCARDO -

Ely con Richmond m’intriga di più

che Buckingham con tutte le sue forze

racimolate in tutta fretta e furia.

Non ci perdiamo in chiacchiere:

ho imparato che il trepido commento

è servo inerte al torpido indugiare;

e l’indugiare porta all’impotenza

ed a muoversi a passo di lumaca.

Sia dunque la bruciante speditezza

ala al mio volo, Mercurio di Giove,

e araldo per un re.

Vammi d’urgenza ad arruolare uomini.

Il mio scudo di guerra è questo avviso:

essere più fulminei possibile,

quando in campo ci sono traditori.


(Escono)

 

 

 

SCENA IV - Londra, davanti al palazzo reale.

 

Entra la vecchia REGINA MARGHERITA

 

MARGHERITA -

Ecco che adesso la loro fortuna

comincia a rinfrollirsi ed a disfarsi

nelle putride fauci della morte.

Son rimasta nascosta

accortamente entro questi paraggi,

per assistere al dissolvimento

di quelli che son stati i miei nemici.

Ho assistito ad un prologo feroce.

Ora tornerò in Francia,

sperando che lo svolgersi del dramma,

non sia meno crudele, fosco e tragico.

Entrano la DUCHESSA DI YORK

e la REGINA ELISABETTA

Chi viene?… Sventurata Margherita,

ritirati di nuovo!

(Si fa da parte)

ELISABETTA -

Ah, miei poveri principi!

Mie tenere creature!

Miei fiorellini non ancor sbocciati!

Mie dolcezze in germoglio!

Se ancora le vostre anime gentili

aleggiano nell’aria, non fissate

dal giudizio di Dio in lor dimora,

fluttuate con le vostre ali d’aria

intorno a me, ascoltate il lamento

di questa vostra disperata madre!

MARGHERITA -

(A parte)

Sì, aleggiatele intorno,

per dirle che, giustizia per giustizia,

giustizia è anche quella

che ha offuscato in decrepita notte

il bel mattino della vostra infanzia.

DUCHESSA -

Tante sventure m’han rotto e infiochito

la voce; e la mia lingua,

esausta dal dolore, è inerte e muta….

Edoardo Plantageneto, ahimè,

perché sei morto? Perché t’hanno ucciso?

MARGHERITA -

(c.s.)

Plantageneto per Plantageneto:

Edoardo paga un debito di morte

per un altro Edoardo.

DUCHESSA -

Come hai potuto, Dio Onnipotente,

involarti da sì teneri agnelli,

per sbalestrarli nel ventre del lupo?

Dormivi forse, tu,

quando si consumava quello scempio?

MARGHERITA -

(c.s.)

Come quando morì il mio santo Enrico

ed il mio dolce figlio.(109)

DUCHESSA -

Vita morta ch’io sono, vista cieca,

povero spettro mortale vivente,

spettacolo di lutto, onta del mondo,

diritto della tomba

dalla vita usurpato, breve sunto

e testimonio di giorni dolenti,

(Si siede per terra)(110)

ch’io racqueti la mia inquietudine

sul leal suolo inglese, slealmente

ubriacato con sangue innocente.

ELISABETTA -

Ah, potessi tu, terra,

apprestarmi qui subito una tomba,

come m’appresti un seggio di tristezza!

Potessi là nasconder le mie ossa,

senza doverle riposare qui!

(Si siede anch’essa per terra)

Chi ha cagione di lutto più di me!

MARGHERITA -

(Uscendo e facendosi avanti)

Se più antico dolore

è più degno di venerazione,

riconoscete al mio il beneficio

della priorità, e alle mie pene

il primo posto nell’indignazione.

E se il dolore ammette compagnia,

rifate il conto delle vostre pene

e poi paragonatele alle mie:

io avevo un Edoardo

fino a quando un Riccardo non l’ha ucciso;

io avevo un marito,

fino a quando Riccardo non l’ha ucciso;

(A Elisabetta)

tu avevi un Edoardo,

fino a quando Riccardo non l’ha ucciso;

tu avevi un Riccardo

fino a quando Riccardo non l’ha ucciso.

DUCHESSA -

Avevo anch’io un Riccardo;

e tu me l’hai ucciso; avevo un Rutland,

anche, e tu hai concorso a farlo uccidere.

MARGHERITA -

Tu avevi un Clarenza,

e Riccardo l’ha ucciso.

Tu, dal canile della tua matrice,

hai partorito un segugio infernale

che dà caccia mortale a tutti noi.

Tu, quel cane che prima d’aver occhi

ebbe denti per azzannare a morte

teneri agnelli e berne il dolce sangue;

quel turpe insulto all’opera di Dio;

quel supremo tiranno della terra

che regna in mezzo ad occhi tumefatti

d’anime in pianto, tu l’hai sguinzagliato

dal tuo grembo perché ci desse caccia

fino alla tomba tutti. Dio Signore,

retto, giusto ed esatto dispensiere,

oh, come ti ringrazia Margherita

che codesto carnivoro cagnaccio

si sia dato a sbranare anche la prole

partorita dal ventre di sua madre

e faccia sì che s’accompagni a noi

sopra uno stesso banco di lamenti!

DUCHESSA -

Non esultare delle mie sventure,

moglie d’Enrico; Dio m’è testimone

di quanto ho lagrimato per le tue.

MARGHERITA -

Compatiscimi, ho fame di vendetta,

ed ora me ne sazio a contemplarla

messa in atto. Il tuo Edoardo è morto,

che uccise il mio Edoardo; l’altro Edoardo,

morto per ripagare il mio Edoardo;

il giovinetto York è solo un peso

aggiunto alla bilancia

a compensare il più alto valore

da me perduto. Il tuo Clarenza è morto,

che uccise il mio Edoardo, pugnalandolo;

e tutti che di quel folle spettacolo

furono spettatori: Vaughan, Grey,

Rivers e quell’adultero di Hastings,(111)

tutti precocemente soffocati

nelle lor tombe. Ancor vivo è Riccardo,

tenebroso sensale dell’inferno,

risparmiato per fare incetta d’anime

e spedirle laggiù; ma la sua fine

seguirà molto presto, lacrimosa

e illacrimata. Si squarci la terra,

vada a fuoco l’inferno, urlino i diavoli,

preghino i santi affinché quel demonio

sia trascinato via di qui al più presto!

Annulla, Dio, ti prego, quanto prima

il buono di sua vita,(112)

perch’io possa esclamare, ancora viva,

“È morto quel cagnaccio!”

ELISABETTA -

Ohimè, tu ben me lo preconizzasti

che sarebbe venuto per me il giorno

in cui t’avrei chiamata a unirti a me

nel maledire insieme questo ragno,

questo immondo cagnaccio tumefatto,

questo gibboso, ributtante rospo!

MARGHERITA -

Io ti chiamai allora vuota immagine

della grandezza mia; misera ombra,

io ti chiamai, regina dipinta,

brutta copia di quel ch’io ero stata;

prologo lusinghiero

d’uno spettacolo terrificante;

issata in alto per cader più in basso;

madre da burla di due bei bambini;

rutilante vessillo, destinato

a bersaglio d’ogni esiziale colpo;

simulacro regale, fiato, bolla;

regina da burletta, destinata

solo a riempitivo della scena.

Dov’è più tuo marito?

Dove i fratelli tuoi, i tuoi due figli?

Che ti rimane più di cui gioire?

Chi più s’inchina supplice ai tuoi piedi

esclamando: “Dio salvi la regina”?

Dove son più gli inchini adulatori

dei Pari; dove son le moltitudini

che s’accalcavano a farti seguito?

Ripensa a tutto questo

e poi rifletti a quel che sei ridotta:

da una moglie felice

a una vedova affranta dal dolore;

da una madre beata d’esser madre

ad una che ne maledice il nome;

da una adusa a ricevere suppliche

ad una che ora supplica umilmente;

da regina ad autentico relitto,

coronato di triboli e d’affanni;

da una che di me si fece scherno

ad una ch’è schernita ora da me;

da una ch’era temuta da tutti

ed ora vive temendo uno solo;

da una adusa a comandare a tutti,

ad una da nessuno più obbedita.

Così ha virato il corso la Giustizia

e t’ha ridotto a una misera spoglia

preda del tempo, senza più con te

che il ricordo di quello che sei stata,

per tuo maggior tormento,

ora che sei ridotta a quel che sei.

Usurpasti il mio posto,

ed è giusto che usurpi ora una parte

della mia afflizione;

ed è giusto che il tuo collo orgoglioso

ora sopporti per metà con me

il mio pesante giogo, mentre io

ne ritiro da sotto il capo stanco

per lasciarne sul tuo l’intero peso.

Addio, moglie di York,

e regina di triste malasorte!

Sorriderò, una volta giunta in Francia,

a ripensare alle sventure inglesi.

ELISABETTA -

Ah, tu, maestra di maledizioni,

rimani un poco e dimmi come fare,

ti prego, a maledire i miei nemici.

MARGHERITA -

Imponiti di rinunciare al sonno

la notte, e al cibo il giorno;

confronta la felicità tua morta

col tuo dolore vivo;

pensa ai tuoi bimbi come a due creature

più tenere di quello che son state,

e a chi li uccise come a un assassino

più nefando di quanto egli già sia:

col pensare migliore la tua perdita,

tanto peggiore penserai l’ autore.

Tutto questo rimuginando in mente,

avrai imparato come maledire.

ELISABETTA -

Ma le parole mie son molli e fievoli;

rendimele più forti con le tue.

MARGHERITA -

Saranno sufficienti le tue pene

a renderle taglienti e penetranti.

(Esce)

DUCHESSA -

Perché poi la sventura

dev’esser così piena di parole?

ELISABETTA -

Avvocati ventosi degli affanni

dei lor clienti, ariosi legatari

di gioie non iscritte in testamenti,

ansimanti oratori di miserie,

le parole: lasciatele sfogare;

anche se ciò che vanno perorando

non serve ad altro, può servire almeno

ad alleviare il cuore.

DUCHESSA -

Se è così,

non tener dunque la lingua legata;

vieni con me, e insieme soffochiamo

col soffio di amarissime parole

quello stramaledetto figlio mio

che ha soffocato i dolci tuoi bambini.

(Tromba all’interno)

È lui. Non lesinargli le invettive.

Entrano RE RICCARDO, CATESBY, altri, marciando, con vessilli e tamburi. Le due donne gli si fanno incontro.

RICCARDO -

Chi intercetta la strada alla mia marcia?

DUCHESSA -

Chi, sciagurato? Oh, guardami: colei

che avrebbe ben potuto intercettarti,

strozzandoti nel suo dannato grembo,

dal consumare tutti gli assassinii

di cui ti sei macchiato!

ELISABETTA -

Credi tu forse di poter nascondere

con la corona d’oro quella fronte

su cui, se la giustizia fosse giusta,

dovrebb’essere impresso l’assassinio

di chi quella corona possedeva

da sovrano, e la morte scellerata

dei miei figli e fratelli?

DUCHESSA -

Rospo Rospo!

Dov’è Giorgio Clarenza, tuo fratello?

Dove sono i suoi figli? Su, rispondi!

ELISABETTA -

E dove sono Rivers, Vaughan, Grey?

DUCHESSA -

Ed il nobile Hastings!… Dov’è Hastings?

RICCARDO -

Squillate, trombe! Rullate tamburi,

sì che i cieli non abbiano ad udire

queste ciarliere femmine

urlare insulti all’Unto del Signore!

Suonate, ho detto. Avanti, che aspettate?

(Squilli di tromba e rullìo di tamburi)

Ora voi state calme,

e mi trattate come si conviene,

o annegherò le vostre imprecazioni

sotto più sordi clamori di guerra.

DUCHESSA -

Sei tu mio figlio?

RICCARDO -

Che domanda, madre!

E ne ringrazio Dio, mio padre e voi.

DUCHESSA -

Allora devi ascoltar con pazienza

ciò che ti dice qui la mia impazienza.

RICCARDO -

Signora, ho tratto da voi questo vizio:

che non sopporto accento di rimprovero.

DUCHESSA -

Oh, lasciami parlare.

RICCARDO -

Parlate pure, ma io non vi ascolto.

DUCHESSA -

Dirò parole miti e misurate.

RICCARDO -

E brevi, buona madre, perché ho fretta.

DUCHESSA -

Hai proprio tanta fretta?…

Io t’ho aspettato Dio sa quanto tempo,

in tormento ed angoscia.

RICCARDO -

Ed alla fine,

non son venuto a recarvi conforto?

DUCHESSA -

No, per la Croce Santa, e lo sai bene!

Tu sei venuto al mondo

per far di questo mondo il mio inferno.

Grave e dura per me fu la tua nascita;

iraconda e proterva la tua infanzia;

terribili, selvaggi, furibondi

i tuoi anni di scuola; scapestrata

la prima giovinezza: insidiosa,

scaltrita, sanguinaria, burbanzesca;

più tranquilla, ma solo in apparenza,

perché ammantata d’odio sorridente

e perciò stesso ancora più nefasta,

la tua età matura.

Puoi menzionare un’ora di sollievo

che m’abbia dato la tua compagnia?

RICCARDO -

Nessuna, no, salvo quell’ora d’Humphrey,

che vi chiamò a rompere il digiuno

senza la mia presenza.(113)

Ma se son così in odio agli occhi vostri,

fatemi proseguire la mia marcia

senza attardarmi qui ad irritarvi.

Tamburi!

DUCHESSA -

Aspetta, no, fammi finire!

RICCARDO -

Parlate troppo amaro.

DUCHESSA -

Una parola…

l’ultima. Non ce ne diremo più.

RICCARDO -

E sia, parlate.

DUCHESSA -

O sarai tu a morire

per giusto e santo decreto di Dio

prima di ritornare vittorioso

da questa spedizione; o sarò io,

carica d’anni e di tribolazioni,

a non poter veder più la tua faccia.

Voglio perciò che tu ti porti dietro

la più pesante mia maledizione,

sì ch’essa possa il dì della battaglia

gravarti addosso più dell’armatura.

Le mie preghiere scenderanno in campo

a combattere a fianco ai tuoi nemici,

e l’anime dei piccoli d’Edoardo

aliteranno là, a sussurrare

promesse di successo e di vittoria

ai tuoi nemici.