Non esistono più polizia, esercito e finanze. Tutti intuiscono l’imminenza della fine. Le conseguenze per lo spirito collettivo sono molteplici: impazienza della vigilia, timore dell’indomani, sfiducia generale, profondo disgusto, scoraggiamento di fronte a qualsiasi iniziativa. Dato che la malattia dello Stato ha sede nella testa, l’aristocrazia che gli sta accanto è la prima ad esserne contagiata. Cosa le accade? Una parte della nobiltà, la meno onesta e la meno generosa, resta a corte. Tutto sta per essere travolto, il tempo incalza, bisogna affrettarsi, arricchirsi, ingrandirsi e profittare delle circostanze. Si pensa solo al proprio tornaconto. Ognuno, senza pensare alle condizioni del paese, accumula la sua piccola fortuna privata ai margini del grande infortunio pubblico. Si diventa cortigiani, ministri, ci si dà da fare per essere potenti e soddisfatti. Si hanno delle capacità, si hanno pochi scrupoli e si riesce. Le cariche dello Stato, gli impieghi, le dignità, il denaro: si prende tutto, si vuole tutto, si saccheggia ovunque impunemente. Si vive in base a una sola legge: la cupidigia, l’ambizione. Sotto l’apparenza della severità esteriore si nascondono i disordini intimi generati dall’infermità umana. E, dato che questa vita tesa a soddisfare l’orgoglio e la vanità del singolo impone un assoluto oblio dei sentimenti naturali, si diventa feroci. Quando arriva il giorno del disastro, nel cortigiano caduto si sviluppa qualcosa di mostruoso e l’uomo si tramuta in demonio. Lo stato disperato del regno spinge l’altra metà dell’aristocrazia, la migliore, la più nobile, su un altro cammino. È un’aristocrazia che torna a casa, si rifugia nei suoi palazzi, nei suoi castelli, nelle sue terre. Gli affari le fanno orrore, non può farai nulla, la fine del mondo si avvicina: cosa può fare e perché disperarsi? Meglio stordirsi, chiudere gli occhi, vivere e bere, amare e godere. Chissà? Forse c’è ancora un anno prima della rovina definitiva. Appena pronunciata la sentenza, o magari semplicemente presentita, il gentiluomo comincia a darsi da fare: decuplica il numero dei suoi servi, compra cavalli, fa regali dispendiosi alle sue amanti, dà feste e si paga orge, getta, dona, vende, acquista, ipoteca, si compromette, dissipa i suoi beni, ricorre agli usurai e, da ogni lato, appicca il fuoco al suo patrimonio. Finché, un mattino, è vittima di una disgrazia. Gli è accaduto che, nonostante la monarchia stia per inabissarsi, lui si è rovinato prima del crollo. Tutto è finito, consumato. Della sua vita scintillante non resta nemmeno un fil di fumo: è volato via. E neanche un po’ di cenere. Dimenticato e abbandonato da tutti tranne che dai creditori, il povero gentiluomo si riduce a una condizione ambigua, tra il sicario, l’avventuriero e il pezzente. Affonda e scompare risucchiato dalla folla, quella grande massa cupa, nerastra, che fino a quel giorno aveva solo intravista ai propri piedi. Ci si rifugia dentro, si tuffa nella sua immensità. Non ha più oro ma gli resta il sole, la ricchezza di chi non possiede nulla. Ha cominciato abitando in cima alla scala sociale, adesso alloggia in fondo e ci si adatta.
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