Si fa beffe del parente ambizioso, ricco e potente. Diventa filosofo e paragona i ladri ai cortigiani. Ha comunque un’indole buona e coraggiosa, leale e intelligente. È un bizzarro incrocio tra il principe, il poeta e il mendicante. Ride di tutto. Oggi fa bastonare le guardie dai suoi compagni come, un tempo, le faceva bastonare dai servi, senza mai partecipare di persona. Realizza, a modo suo, un’indissolubile unione tra l’impudenza del marchese e la sfacciataggine dello zingaro. È sporco, all’esterno, ma sano nell’intimo. Del gentiluomo gli sono rimasti l’onore, che custodisce gelosamente; il nome, che nasconde, e la spada, che ostenta. Se il duplice ritratto che abbiamo tracciato si presenta a un dato momento nella storia di tutte le monarchie, appare preponderante in Spagna alla fine del diciassettesimo secolo. Così, se l’autore fosse pienamente riuscito ad esprimere questa costante del proprio pensiero nel dramma che state per leggere (è, ahimè, ben lontano da presumere tanto di se stesso), la prima metà dell’aristocrazia spagnola dell’epoca si riassumerebbe in Don Sallustio e la seconda in Don Cesare. L’uno cugino dell’altro, come si conviene. Ma anche qui, come sempre, in questo sommario disegno della nobiltà castigliana verso il milleseicentonovantacinque, non dimentichiamo le rare e ben note eccezioni. Proseguiamo. Esaminando ancora quella monarchia e quell’epoca, al di sotto dell’aristocrazia scissa e divisa che potrebbe, fino a un certo punto, essere adombrata nei due uomini che abbiamo nominato, vediamo agitarsi nell’ombra qualcosa di grande, di cupo, d’ignoto: il popolo. Il popolo, ricco dell’avvenire e privo di presente; il popolo orfano e povero, intelligente e forte; cacciato in basso e rivolto in alto, che sulla schiena porta impresso il segno della servitù e nel cuore le premeditazioni del genio; il popolo, domestico degli aristocratici e innamorato, nella sua miseria e nella sua abiezione, della sola figura che, in mezzo al crollo di tutta una società, rappresenta per lui, in un divino fulgore, l’autorità, la carità e la fecondità. Il popolo è Ruy Blas. Ora, al disopra di questi tre uomini che, così considerati, farebbero vivere e procedere, agli occhi dello spettatore, tre fatti distinti e, attraverso i fatti, tutta la monarchia spagnola del diciassettesimo secolo; al disopra di questi tre uomini si eleva una creatura pura e luminosa, una donna, una regina. Mortificata nella sua femminilità, dato che vive come se fosse vedova; infelice come regina, perché vive senza essere confortata dalla presenza del re; china verso quelli che stanno al disotto di lei per pietà regale e forse per istinto femminile, la regina rivolge lo sguardo verso il basso mentre Ruy Blas, il popolo, lo rivolge verso l’alto. Agli occhi dell’autore, senza pregiudizio di ciò che i personaggi secondari possono conferire alla verità dell’insieme, queste quattro teste così raggruppate riassumono i punti salienti che la monarchia spagnola di centoquarant’anni fa offriva all’indagine dello storico e alla speculazione del filosofo. A queste quattro teste si potrebbe aggiungerne una quinta, quella di re Carlo II. Ma nella storia, come nel dramma, Carlo II di Spagna non è un personaggio ma un’ombra. Dobbiamo tuttavia assicurare che, ciò che si è letto fin qui, non è la corretta spiegazione di Ruy Blas, ma solo un aspetto del dramma. È l’impressione che potrebbe suscitare, se valesse la pena di studiarlo, nella mente attenta e severa di chi, per esempio, volesse esaminarlo sotto il profilo della filosofia della storia. Tuttavia, per poco che valga, questo dramma, come ogni cosa umana, presenta altre caratteristiche e può essere esaminato da altre angolazioni. Un’idea, come una montagna, può essere osservata da un’infinità di punti diversi. Dipende dal luogo in cui ai si pone. Ci si conceda, tanto per esemplificare, un paragone eccessivamente ambizioso: il Monte Bianco, visto dalla Croix-de-Fléchères, non è il Monte Bianco visto da Sallenches e resta, comunque, sempre il Monte Bianco. Inoltre, passando stavolta da un esempio tanto grande a un altro di ben più modeste dimensioni, questo dramma, di cui abbiamo sommariamente tracciato la collocazione storica, si presenterebbe completamente diverso a volerlo considerare da un punto di vista più elevato, da un’ottica puramente umana. Don Sallustio diventerebbe l’esempio dell’egoismo assoluto, di un’incessante apprensione.
1 comment