Saggio sulla libertà

JOHN STUART MILL

SAGGIO SULLA LIBERTA’

DEDICA

I INTRODUZIONE

II DELLA LIBERTA’ DI PENSIERO E DISCUSSIONE

III DELL’INDIVIDUALITA’ COME ELEMENTO

IV DEI LIMITI ALL’AUTORITA’ DELLA SOCIETA’ SULL’INDIVIDUO

V APPLICAZIONI

DEDICA

ALL’amata e compianta memoria di colei che fu l’ispiratrice, e in parte l’autrice, di tutto il meglio della mia opera – all’amica e moglie il cui altissimo senso della verità e della

giustizia era il mio stimolo più grande, e la cui approvazione era la massima ricompensa –

dedico questo volume. Come tutto ciò che ho scritto per molti anni, appartiene a lei quanto a me; ma il lavoro, così com’è, ha ricevuto in misura molto insufficiente l’inestimabile

beneficio della sua revisione; alcune delle parti più importanti avrebbero dovuto essere

sottoposte a un riesame più accurato, che ora non riceveranno mai più. Se solamente fossi capace di trasmettere al mondo la metà dei grandi pensieri e dei nobili sentimenti che sono sepolti con lei, sarei il tramite di benefici maggiori di quanti potranno mai derivare da qualunque cosa io scriva, privo dello stimolo e del conforto della sua impareggiabile

saggezza.

I INTRODUZIONE

L’argomento di questo saggio non è la cosiddetta “libertà della volontà”, tanto infelicemente contrapposta a quella che è impropriamente chiamata dottrina della necessità filosofica, ma la libertà civile, o sociale: la natura e i limiti del potere che la società può legittimamente esercitare sull’individuo. Questione raramente enunciata, e quasi mai discussa in termini generali, ma la cui presenza latente influisce profondamente sulle polemiche quotidiane del nostro tempo, e che probabilmente si paleserà ben presto come il problema fondamentale

del futuro. È così poco nuova che, in un certo senso, ha diviso l’umanità quasi fin dai tempi più remoti; ma, allo stadio di progresso cui sono ora giunti i settori più civilizzati della

nostra specie, si presenta alla luce di condizioni nuove e richiede di essere trattata in modo diverso e più fondamentale. La lotta tra libertà e autorità è il carattere più evidente dei primi periodi storici di cui veniamo a conoscenza, in particolare in Grecia, Roma e

Inghilterra. Ma nell’antichità si trattava di conflitti tra sudditi, o alcune classi di sudditi, e governo. Per libertà si intendeva la protezione dalla tirannia dei governanti, concepiti (salvo che nel caso di alcuni governi popolari della Grecia) come necessariamente antagonisti al popolo da essi governato. Si trattava di un singolo, o di una tribù o casta dominante, la cui autorità era ereditaria o frutto di conquista, in ogni caso non della volontà dei governatori, e la cui supremazia gli uomini non osavano, o forse non desideravano, porre in discussione, quali che fossero le eventuali misure di precauzione contro un suo esercizio troppo

oppressivo. Il potere dei governanti era considerato necessario, ma anche estremamente

pericoloso: un’arma che essi avrebbero cercato di usare contro i propri sudditi altrettanto che contro i nemici esterni. Per impedire che i membri più deboli della comunità venissero depredati e tormentati da innumerevoli avvoltoi, era indispensabile la presenza di un

rapace più forte degli altri, con l’incarico di tenerli a bada. Ma, poiché il re degli avvoltoi sarebbe stato voglioso quanto le minori arpie di depredare il gregge, si rendeva necessario un perpetuo atteggiamento di difesa contro il suo becco e i suoi artigli. Quindi, lo scopo dei cittadini era di porre dei limiti al potere sulla comunità concesso al governante: e questa delimitazione era ciò che essi intendevano per libertà. Si cercava di conseguirla in due modi: in primo luogo, ottenendo il riconoscimento di certe immunità, chiamate libertà o diritti politici, la cui violazione da parte del governante sarebbe stata considerata infrazione ai doveri del suo ufficio, e avrebbe giustificato l’opposizione specifica o la ribellione generale.

Una seconda modalità, generalmente successiva, era la creazione di vincoli costituzionali per cui il consenso della comunità, o di un qualche organismo che avrebbe dovuto

rappresentarne gli interessi, veniva reso condizione necessaria per alcuni degli atti

fondamentali dell’esercizio del potere. Nella maggior parte dei paesi europei, i governanti furono più o meno costretti ad accettare il primo sistema ma non il secondo, e conseguirlo, o conseguirlo più compiutamente nelle situazioni in cui già in una certa misura esisteva,

divenne in ogni paese l’obiettivo principale di chi amava la libertà. E, fino a quando

l’umanità si accontentò di combattere un nemico con un altro, e di avere un signore a

condizione di essere più o meno efficacemente garantita contro la sua tirannide, le sue

aspirazioni si fermarono qui. Tuttavia, a un certo punto del progresso umano, gli uomini

cessarono di pensare che i governanti dovessero necessariamente essere un potere

indipendente, con interessi opposti ai propri, e giudicarono molto preferibile che i vari magistrati dello Stato ricevessero in concessione l’esercizio del potere, fossero cioè dei delegati revocabili a piacimento dalla comunità. Solo così, si pensava, gli uomini avrebbero potuto essere completamente sicuri che non si sarebbe mai abusato a loro danno dei poteri di governo. Gradualmente, questa nuova richiesta di governo temporaneo e elettivo

divenne l’obiettivo principale dell’azione dei partiti popolari ovunque essi esistessero, sostituendosi in larga misura ai precedenti tentativi di limitare il potere dei governanti. Con lo sviluppo della lotta per fare emanare il potere dalla scelta periodica dei governanti, alcuni cominciarono a pensare che si era attribuita troppa importanza alla limitazione del potere in quanto tale, limitazione che a loro giudizio andava invece considerata un’arma contro quei governanti i cui interessi si contrapponessero abitualmente a quelli popolari. Ciò che ora si voleva era l’identificazione dei governanti con il popolo, la coincidenza del loro interesse e volontà con quelli della nazione. Quest’ultima non aveva bisogno di essere protetta dalla

propria volontà: non vi era da temere che diventasse il tiranno di se stessa. Se i governanti fossero stati effettivamente responsabili verso di essa, e da essa immediatamente amovibili, la nazione avrebbe potuto permettersi di affidare loro un potere il cui uso sarebbe dipeso dalla sua volontà: il potere di governo non sarebbe stato altro che quello della nazione, concentrato in forma tale da permetterne un efficace esercizio. Questa linea di pensiero, o –

forse più esattamente – questo sentimento, era diffusa nell’ultima generazione del

liberalismo europeo, e sembra ancora predominare nel Continente. Coloro che ammettono

limiti alle possibilità di azione di un governo, salvo che si tratti di governi che a loro avviso non dovrebbero esistere, sono delle brillanti, isolate eccezioni tra i pensatori politici del Continente: e un sentimento analogo potrebbe ormai prevalere anche nel nostro paese se le circostanze che lo hanno per un certo periodo favorito fossero rimaste immutate. Ma, nelle teorie politiche e filosofiche come nelle persone, il successo pone in luce difetti e debolezze che l’insuccesso avrebbe potuto mantenere celati. L’idea secondo cui non vi è necessità che il popolo limiti il proprio potere su se stesso poteva sembrare assiomatica in tempi in cui il governo popolare era solo un obiettivo fantasticato o lo si conosceva attraverso le letture, come fenomeno di un lontano passato: né venne necessariamente scossa da aberrazioni

temporanee come quelle della Rivoluzione francese, le peggiori delle quali erano opera di pochi usurpatori, e che comunque non erano proprie del funzionamento permanente di

istituzioni popolari, ma di un’improvvisa e convulsa esplosione contro il dispotismo

monarchico e aristocratico. A un certo punto, tuttavia, vi fu una repubblica democratica che si sviluppò fino a occupare una vasta distesa di territorio e a far sentire il proprio peso come uno dei membri più potenti nella comunità delle nazioni; e in questo modo il governo

elettivo e responsabile divenne oggetto delle osservazioni e delle critiche che accompagnano ogni grande realtà.