Ci si rese allora conto che espressioni come “autogoverno” e “potere del
popolo su se stesso” non esprimevano il vero stato delle cose. Il “popolo” che esercita il
potere non coincide sempre con coloro sui quali quest’ultimo viene esercitato; e
l‘“autogoverno” di cui si parla non è il governo di ciascuno su se stesso, ma quello di tutti gli
altri su ciascuno. Inoltre, la volontà del popolo significa, in termini pratici, la volontà della
parte di popolo più numerosa o attiva – la maggioranza, o coloro che riescono a farsi
accettare come tale; di conseguenza, il popolo può desiderare opprimere una propria parte,
e le precauzioni contro ciò sono altrettanto necessarie quanto quelle contro ogni altro abuso
di potere. Quindi, la limitazione del potere del governo sugli individui non perde in alcun
modo la sua importanza quando i detentori del potere sono regolarmente responsabili verso
la comunità, cioè al partito che in essa predomina. Questa impostazione, che soddisfa sia la
riflessione intellettuale sia le tendenze di quelle importanti classi della società europea ai cui
interessi, reali o presunti, si oppone la democrazia, non ha trovato difficoltà a imporsi; e il
pensiero politico ormai comprende generalmente “la tirannia della maggioranza” tra i mali
da cui la società deve guardarsi. Come altre tirannie, quella della maggioranza fu dapprima
– e volgarmente lo è ancora – considerata, e temuta, soprattutto in quanto conseguenza delle
azioni delle pubbliche autorità. Ma le persone più riflessive compresero che, quando la
società stessa è il tiranno – la società nel suo complesso, sui singoli individui che la
compongono –, il suo esercizio della tirannia non si limita agli atti che può compiere per
mano dei suoi funzionari politici. La società può eseguire, ed esegue, i propri ordini: e se gli
ordini che emana sono sbagliati, o comunque riguardano campi in cui non dovrebbe
interferire, esercita una tirannide sociale più potente di molti tipi di oppressione politica,
poiché, anche se generalmente non viene fatta rispettare con pene altrettanto severe, lascia
meno vie di scampo, penetrando più profondamente nella vita quotidiana e rendendo
schiava l’anima stessa. Quindi la protezione dalla tirannide del magistrato non è sufficiente:
è necessario anche proteggersi dalla tirannia dell’opinione e del sentimento predominanti,
dalla tendenza della società a imporre come norme di condotta e con mezzi diversi dalle
pene legali, le proprie idee e usanze a chi dissente, a ostacolare lo sviluppo – e a prevenire,
se possibile, la formazione – di qualsiasi individualità discordante, e a costringere tutti i
caratteri a conformarsi al suo modello. Vi è un limite alla legittima interferenza
dell’opinione collettiva sull’indipendenza individuale: e trovarlo, e difenderlo contro ogni
abuso, è altrettanto indispensabile alla buona conduzione delle cose umane quanto la
protezione dal dispotismo politico. Ma, anche se quest’asserzione è difficilmente opinabile
in termini generali, nella questione pratica della determinazione del limite – di come
conseguire l’equilibrio più opportuno tra indipendenza individuale e controllo sociale –
quasi tutto resta ancora da fare. Tutto ciò che rende l’esistenza di chiunque degna di essere
vissuta dipende dall’impostazione di restrizioni sulle azioni altrui. Di conseguenza devono
essere imposte alcune regole di condotta – dalla legge in primo luogo, e dall’opinione nei
molti campi che non si prestano a legislazione. Quali debbano essere queste regole è il
problema principale della collettività umana; ma, ad eccezione di alcuni dei casi più ovvii, è
questo un problema verso la cui soluzione sono stati compiuti minori progressi.
Nessun’epoca, e quasi nessun paese, lo hanno risolto nello stesso modo; e la soluzione di un
paese o epoca è lo stupore degli altri: e tuttavia, gli uomini di qualsiasi singolo paese, o
epoca, non ne sospettano mai le difficoltà, come se l’umanità fosse sempre stata unanime su
questo argomento. Le regole secondo cui vivono sembrano loro ovvie e autogiustificantesi.
Quest’illusione del tutto universale è un esempio della magica influenza della consuetudine,
che non è solo, come afferma il proverbio, una seconda natura, ma viene continuamente
scambiata per la prima. L’efficacia della consuetudine nel prevenire ogni dubbio sulle
norme di condotta che gli uomini si impongono a vicenda è tanto più completa perché
l’argomento è uno di quelli su cui non viene generalmente considerato necessario fornire
spiegazioni, né agli altri né a se stessi. Gli uomini sono abituati a credere, e a ciò sono stati
incoraggiati da alcuni che aspirano a essere definiti filosofi, che in questioni di tale natura i
loro sentimenti siano meglio delle ragioni e le rendano inutili. Il principio pratico che forma
le loro opinioni sulle regole della condotta umana è il sentimento, da parte di ciascuno, che
a ciascuno dovrebbe essere prescritto di agire come piacerebbe a lui e a coloro con cui
simpatizza. Nessuno, è vero, ammette a se stesso che il suo criterio di giudizio è il suo
gradimento; ma un’opinione su un dato tipo di condotta, che non sia confortata da ragioni,
può solo essere considerata una preferenza individuale; e se le ragioni addotte sono
semplicemente un appello a una simile preferenza condivisa da altri, l’opinione è solo il
gradimento di molti invece che di uno. Tuttavia, per un uomo comune la sua preferenza, su
una simile base, è non solo una ragione perfettamente soddisfacente ma generalmente
l’unica che giustifica qualunque sua nozione di morale, gusto o decoro che non sia
espressamente prevista dal suo credo religioso, e la sua principale guida anche
nell’interpretazione di quest’ultimo. Di conseguenza, le opinioni degli uomini su ciò che sia
degno di lode o di biasimo sono condizionate da tutte le molteplici cause che ne influenzano
i desideri riguardanti l’altrui condotta, le quali sono altrettanto numerose quanto quelle che
determinano i desideri umani in ogni altro campo. Talvolta è la ragione; talaltra i pregiudizi
o le superstizioni; spesso le passioni sociali, non di rado quelle antisociali, l’invidia o la
gelosia, l’arroganza o il disprezzo; ma soprattutto i desideri o le paure per se stessi – gli
interessi personali, legittimi o illegittimi. Dovunque vi sia una classe dominante, la morale
del paese emana, in buona parte, dai suoi interessi di classe e dai suoi sentimenti di
superiorità di classe. L’etica dei rapporti tra Spartani e Iloti, tra piantatori e negri, tra
principi e sudditi, tra nobili e rotuners, tra uomini e donne è stata per la maggior parte
creata da questi interessi e sentimenti di classe; e i sentimenti così generati reagiscono a loro
volta sulla morale dei membri della classe dominante nei loro rapporti reciproci. Dove,
d’altro canto, una classe non sia più dominante, o il suo predominio sia impopolare, i
sentimenti morali prevalenti sono frequentemente improntati a un’impaziente avversione
per la sua superiorità. Un altro grande principio che ha determinato le norme di condotta –
intesa sia come azione sia come omissione – fatte rispettare dalla legge o dall’opinione è
stato il servilismo degli uomini nei confronti delle supposte preferenze o antipatie dei loro
signori temporali o dei loro dei. Questo servilismo, anche se essenzialmente egoistico, non è
ipocrisia; dà luogo a sentimenti di orrore del tutto genuini; ha fatto bruciare maghi e eretici.
Tra tante mediocri influenze, anche gli interessi generali e evidenti della società hanno
naturalmente avuto un ruolo, importante, nell’orientamento dei sentimenti morali: meno,
tuttavia, in quanto elementi razionali, e per i propri meriti intrinseci, che in virtù delle
conseguenze delle simpatie e antipatie da essi originate; e simpatie e antipatie che con gli
interessi della società avevano poco o nulla a che fare hanno avuto un peso altrettanto
grande nell’affermazione delle morali sociali.
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